Un racconto
della Resistenza tedesca a Hitler. Della condanna e l’esecuzione di Rose
Schlösinger, qui chiamata “Anne”, per aver trafugato la salma del fratello –
come nella tragedia di Sofocle – giustiziato per attività antinazista. Una rarità,
non ci sono molte celebrazioni nella letteratura tedesca della Resistenza
tedesca a Hitler, non nella Germania divisa, poco anche all’Est, e non dopo: pende
sulla “Resistenza” per i tedeschi sempre un’ombra di tradimento, malgrado tutto
- ancora nel 1954, ricorda la curatrice,
lo storico antinazista Ritter, “Il volto demoniaco del potere”, parlava di “traditori della patria” – Ritter
era nazionalista e conservatore.
Hochhuth, già
famoso, subito al debutto nel 1963, col “Vicario” sulla Colpa di Pio XII nello
sterminio degli ebrei, pubblicò nello stesso anno sulla “Frankfurter Allgemeine
Zeitung” questo racconto, poi diventato sceneggiato tv, nel 1968. Una ricostruzione
agevolata dal fatto che Marianne Heinemann, figlia di Rose, era allora sua
moglie. Che solo apparentemente bilancia lo scarico violento della Colpa fuori
dalla Germania.
An(tigo)ne è un
grande personaggio soprattutto nella breve storia che la curatrice Sotera
Fortunato pospone al racconto - con l’ausilio di alcune fotografie che da sole dicono molto. Anna-Rose, figlia di un’esponente socialista di
primo piano, Sophie Ennenbach, era stata perseguitata in vario modo, insieme
con la madre, dopo il 1933. Nel 1933 aveva sposato in secondo nozze Bodo
Schlösinger, che ritorna nel racconto di Hochhuth come fidanzato, presto
chiamato alle armi e nel 1940 spedito al fronte orientale. Rose, arrestata il
18 settembre 1842, insieme con un centinaio di attivisti antinazi denominati
della Rote Kapelle, dell’“orchestra rossa”, agli ordini cioè di Mosca, fu condannata
il 20 gennaio 1943 per spionaggio, e ghigliottinata il 5 agosto, con altre
quindici persone, di cui dodici donne –
Bodo, come nel racconto, venuto a sapere al fronte della condanna, si era
intanto ucciso. Marianne era figlia del primo matrimonio di Rose: aveva dieci anni
al momento dell’esecuzione, che la madre volle le fosse tenuta nascosta fino ai
dicott’anni, con una sua lettera. Un dramma personale, sociale e storico che la
postfazione della curatrice, autrice in proprio di “Antigone. Storia di un
mito”, sviluppa meglio, in intensità e verità.
Hochhuth è un
polemista. Mellifluo già all’epoca, come poi si è rivelato - come tutti i
polemisti. In cerca di scandalo, fingendolo verità. Il sottinteso della sua
argomentazione è semplice: se il papa, che aveva molti strumenti di conoscenza,
non ha reagito, che colpa si può addebitare al comune cittadino, tedesco? Che
invece si batteva contro la barbarie, e resisteva. Un artificio polemico, e
forse una furbata, su un presupposto falso. Il papa aveva conoscenza di tutto il fenomeno razzista, compresa la
Soluzione Finale, mentre il comune cittadino no, ma il papa non era razzista,
il tedesco sì.
Qui è sdegnato,
ci mancherebbe - nel 1963. Espone inflessibile le “buone coscienze” naziste. Ne
deride il linguaggio, che poi si dirà burocratico e invece è perverso:
“pacchetto” per il condannato a morte, “o “paziente con bassissima aspettativa
di vita”. E per primo espone i particolari della procedura di morte, “le regole
burocratiche dell’assurdità”, la taruffa del boia, variabile, etc.: “L’onorario
per la condanna, per i costi della prigionia e per il boia, così come «per la
spedizione della fattura di queste spese», doveva essere sostenuta per i
criminali politici dai parenti, e nel caso questi ultimi «fossero
irreperibili», o nel caso di stranieri, da addebitare sulla cassa statale”.
Ma è un signore
curato e pieno di sé, e si sente. Fornaro gli accredita, insieme con “l’analisi
accanita e puntigliosa dei documenti”, la disamina “del ruolo della
responsabilità individuale nella «grande» storia”. Questo è vero, ma è un artificio:
Hochhuth se ne serve per escludere la responsabilità individuale nella Grande
Storia. Perfino qui: la responsabilità del Generale-Giudice di Anne, padre del
Bodo innamorato della donna che per lei si ucciderà al fronte, non ha “colpa”
della condanna che infligge. È attentissimo, anche lui come il suo autore, a dove mette i paletti.
Dopo il 1989
Hochhuth verrà detto all’Est una spia del Kgb. Un’infamia, forse. Lui si vuole
invece patrocinatore dello storico negazionista David Irving. Nel 1963 era un
signore protestante, ex “piccolo nazista” fino ai 14 anni, che al contemporaneo
“Vicario” dava come sottotitolo “tragedia cristiana”, nel mentre che rovesciava
sul papa il tormentato diario di Kurt Gestner, maggiore delle Ss e membro
attivo della Chiesa Confessante luterana del apstore Niemöller (“ho aderito
alle SS come agente della Chiesa Confessante…”). Vezzeggiato all’epoca dal Pci, e dal filsoofo Jaspers, e poi a
lungo dagli storici ebraici – fino a che non dirà che l’Olocausto non ci fu, e anche
i campi sono inventati. La tragedia gli riusciva impossibile.
Rolf Hochhuth, L’Antigone di Berlino, Via del Vento
pp.32 € 4
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