Anna - Chissà come si vede
Ammaniti girando per la città, dietro autobus ricoperti da “Anna” in
gigantografia, “l’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti”. Non un Supercorallo, uno
Stile Libero. Non l’eternità, tutto subito. Un investimento.
Guerra
–
Quella del 1914-1918 che si celebra la simboleggia, ne è come lo stereotipo:
milioni di morti nelle trincee, carne da macello, tra fango, gelo e granate. Ma
con un prima e un dopo distinti. Il prima lo simboleggia Rupert Brooke, il poeta
bello e patriota che ne sarà vittima, volontario in Marina, un anno dopo l’inizio.
La celebra in numerose poesie, e specialmente in “Tle soldier”, prima dell’arruolamento:
“Se muoio, pensa solo questo di me\ che c’è un angolo in un campo straniero\
che è per sempre Inghilterra”. Il “Times Literary” l’aveva incoronato nel 1915,
poco prima della morte, pubblicando “The Soldier” e altre poesie, per i suoi “sonetti
di guerra”. Molto amato a Londra, amico di “tutti”, quelli che contavano e conteranno,
e la guera evitarono: Churchill, E.M.Forster, Edward Thomas, Keynes, con Henry
James e Virginia Woolf, e altri del cerchio letterario di Bloomsbury.
Dopo, la guerra è di Jünger, Malaparte, Céline,
De Roberto e infiniti altri, tra sgomento e maledizione.
Inclinazione – Un
matrimonio d’inclinazione usava dire in francese, e non d’amore, per due che si
sposavano per reciproca attrazione. C’è in Marivaux, e poi negli anni
1830-1840: Balzac, Custine.
Pasolini – Molto presente,
e nel ruolo di bastian contrario, ma non curioso della realtà circostante. “Sapeva”
ma non si informava. Non per economia di tempo o d’attenzione, non sentiva il
bisogno. La sua “antropologia” degli anni 1970 è iterativa e forse insincera,
oltre che incongrua, anche assurda. Gli
appunti di viaggio, in India e in Africa, sono muti – lo erano già all’uscita.
Gianni Morandi, con cui giocava spesso a calcio, a Roma e altrove, ricorda da
Fazio che non gli ha mai parlato di musica, di canzoni, di cantanti, di spettacolo.
Viaggiando in piccolo numero, per esempio con Moravia e con Maraini, comunicava
poco e si assentava molto. Recensiva molto, ma a fini alimentari, di
occupazione del territorio? Non ha contributi critici durevoli. Non ci sono
suoi contributi sui Bertolucci, o su Moravia, Maraini, Morante, lo stesso Gadda
dialettologo e presenza ingombrante allora a Roma, che frequentava anche socialmente,
al ristorante, ai premi.
È bizzarramente romano. La sua énaurme
opera, per dirla alla Ubu, è tutta romana, tra “Ragazzi di vita e “Salò”. Di
lingua, di temi, di modi di essere, di dire, di fare.
Non è mai tornato in Friuli, di cui aveva resuscitato lingua e
tradizioni con un impegno decennale, e a tutto campo, con riviste, circoli, lezioni.
Due o tre anni dopo l’arrivo a Roma anzi scrive ad alcuni corrispondenti d sentirsi,
e sentirsi parlare romano. Il precedente radicamento friulano negli anni della
guerra risponde a un bisogno maturato nella vita errabonda da ragazzo, ma è più
un omaggio alle radici della madre, l’altro suo io. Il Friuli è spazzato via da
Roma. La madre no, il Friuli sì, che quindi era acquisizione posticcia, da
filologo. Nemmeno la memoria dei parenti, del fratello morto nella sue
montagne, dei primi amori, lo riporta al Friuli.
Non ebbe amori del resto, nemmeno un primo amore. E quelli che ebbe,
documentati biograficamente, li ha cancellati dall’opera e dalle sue memorie..
Lo sradicamento per un intellettuale del suo calibro è pena lieve. Ma
del radicamento aveva fatto e ha continuato a fare una passione, se non uno
stile di vita. L’ambizione sana tutto.
Si
rileggono sul filo dell’(involontaria?) ironia alcuni suoi scritti corsari sul “Corriere
della sera”, il giornale della borghesia – scritti altrimenti reazionari. Dove afferma
per esempio che “niente necessita di una più accanita e matta energia che il
desiderio di possesso”- lo insegna a loro, a Milano, al “Corriere”? Mentre dice
“un crimine” la scuola obbligata, cioè gratuita. E che “una buona quinta
elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio”. O commenta
rinfrancato il mancato sorpasso del Pci sulla Dc alle Regionali del 1975 – “sarebbe
stata una tragedia assoluta”. Roba da
Maggioranza Silenziosa. Di tutta la sua
feconda collaborazione al “Corriere della sera” il direttore Piero Ottone ha voluto
far sapere di essere intervenuto una sola volta, con soddisfazione poi dello stesso
Pasolini, per espungere il cazzo, la parola, da un articolo.
Roba
da tardo maoista, certo, Mao la scuola aveva abolito da dieci anni. Ma insieme Pasolini
rimproverava agli italiani i loro modesti consumi - su cui Milano basava e basa
la sua fortuna. Che non era nemmeno il Sessantotto in ritardo, è roba da levare
il respiro. Il mite poeta s’era fatto rabbioso per mutamenti culturali e intimi
che non ha mai messo in chiaro, e forse non sapeva che imitava Malaparte, i “Battibecchi”.
Se
fosse stato – si fosse proclamato – fascista, i suo ragionamenti si sarebbero
detti fascisti. Fu del resto comunista tardi. A ventun’anni, a guerra non ancora
perduta, caldi disegni abbozzava e consensi raccoglieva nel fascista “Setaccio”,
schierandosi in divisa littoria all’università e denunciando gli amici disfattisti.
Questo forse non è vero, anche se i fratelli Telmon ne erano certi, Giorgio, il
denunciato, e Sergio, entrambi amici suoi inseparabili. Ma lui stesso si vede, in “La realtà”,
“da uomo senza umanità,\ da inconscio succube o spia,\ o
torbido cacciatore di benevolenza”. Il fatto lamentato da Giorgio Telmon
risalirebbe al 6 ottobre 1942, mentre a Bologna aspettavano schierati Mussolini
che andava a Pontecchio a inaugurare il monumento a Marconi. Per l’entusiasmo, forse,
della scoperta della cultura europea a Weimar, nel viaggio premio della
gioventù fascista. “Le onde” avendo calcato, “per qualche tempo, che mandano\ alla
Rivolta Reazionaria”.
Il
resoconto del viaggio a Weimar, pubblicato su “L’Architrave” il 31agosto 1942, è
da deliquio. Leopardi in esergo, “Zibaldone” 1106: “... le illusioni quando sono nel loro punto fanno
un popolo veramente civile”. Con “l’aria eccezionale e memorabile” a seguire.
Poesia – Nel senso latino
del poetare, creare, e meglio in quello
greco di poiesis, fare dal nulla, è
in realtà un atto. Mentre nell’uso corrente è un abbandono, idillico perlopiù e
sentimentale, o anche furioso, ma introverso e fine a se stesso.
Roma – Non cessa di
decadere da quasi due millenni – secondo Canfora da più di due millenni, la decadenza
essendo cominciata con Augusto, con le guerra di Augusto per l’investitura. Con
costanza, da Tacito a Lutero e Du Bellay, e ora a Pignatone. Si capisce che i
romani si siano assuefatti al linguaggio della decadenza, parlino sempre di
fine. La mafia che Pignatone le vuole inoculare è quasi un ricostituente.
Roma nel Seicento l’Accademia di Francia la vuole “il
centro culturale più vivo e all’avanguardia d’Europa e attirava artisti da
tutti i paesi” – nella presentazione della sua mostra “I bassifondi di
Roma”, un anno fa..
Non esprime che geni comici. Ne ha avuti di filosofici, epici, drammatici,
idilliaci, “oraziani”, ma da alcuni secoli, dopo l’Arcadia, già a suo modo
comica, per i soprannome e i temi, ne ha solo di comici dichiarati, scherzosi,
ironici, sarcastici: Belli, Trilussa, Pascarella, Petrolini, lo steso Penna – e
poi naturalmente Sordi, Rascel, Proietti, Brignano.
Romanzo – In crisi, anzi
morto, negli anni 1970, in una col dopo-Praga, il disincanto e il terrorismo, è
ubiquo e invasivo col dopo-1989 e il mercato trionfante – è “romanzo” anche il
saggio critico, storico, filosofico. È roba da “mai stati così bene” –
borghese, affluente? Così lo volevano il Gruppo 63 e anche i suoi nemici, come
Pasolini, negli anni 1970. Ma, seppure in un altro contesto, e quindi con senso
diverso, lo spiegava Sade in prigione: “Il Romanzo diveniva tanto difficile da scrivere quanto monotono da
leggere: non c’era individuo che non avesse subito in quattro-cinque anni più
disavventure di quante potesse narrarne in un secolo il più famoso romanziere”.
Non restava, secondo Sade, che “chiamare in aiuto l’inferno”. Il romanzo
è genere di pace, anche sociale.
letterautore@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento