Giuseppe
Leuzzi
Cosa è cambiato con Federica Mogherini alla Politica europea di
sicurezza comune - Mrs., o Miss, Pesc?
Tutto e niente. Non poteva cambiare: 28
eserciti divisi, che costano per 28 e non farebbero un esercito nemmeno uniti,
sono 28 feudi indistruttibili. Anche alla guerra alle porte, alla paura della
guerra, in Ucraina e in Turchia, e all’Is in casa. Enzensberger ha appena scoperto che la politica
estera e di difesa, che l’Europa in realtà non fa, ha a Bruxelles uno degli
“esecutivi” più pletorici e costosi del costosissimo “esecutivo” europeo, di
cui Mogherini è presidente, con sedici
o diciassette vice, varie commissioni e consulenze, e una serie di
rappresentanze all’estero, dispendiose come un’ambasciata, senza alcuna
funzione. Questo ingombrante “esecutivo” non sa che il Mediterraneo è
pieno di immigrati, disperati o trafficanti. Uno schiavismo organizzato, con
migliaia di morti ogni anno, e un’illegalità premiata - mentre un minimo di
attenzione “costerebbe meno”, volendo stare al metro europeo in vigore. Non sa
nemmeno che cittadini europei vengono “regolarmente” decapitati in aree
limitrofe, per semplice dileggio. Non ha speso una parola sui fucilieri di
Marina italiani detenuti in India per attività svolte nel corso di una missione
europea. Ed è tenuto fuori dai negoziati tra Israele e i Palestinesi - per quello che i negoziati servono, certo. A sedici anni dalla guerra Usa per la libertà del Kosovo, che molti
paesi europei combatterono volenterosamente, cinque membri della Ue non ne
riconoscono l’indipendenza: Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia, Spagna. Vorrebbe
fare la guerra alla Russia, ma non sa per che cosa. Oppure lo sa: per gli
affari di alcuni corrottissimi ex boiardi di Stato dell’Ucraina, che ne
vogliono escludere la metà russa della popolazione. Senza contare che le
sanzioni a Mosca imposte dagli Usa danneggiano gli affari europei e favoriscono
quelli americani. Per non dire della
libertà e la democrazia “esportate” in Afghanistan, e tra gli arabi in Irak, in
Libia, in Siria, i tre paesi forse più tribalizzati al mondo. E anzi delle
porte aperte, con soldi e armi in abbondanza, all’islam terrorista, che ha
fatto centomila vittime alle porte in questo solo ultimo anno – alle porte
dell’Europa meridionale, è vero, mediterranea, “latina”, che parola
spregevole.
Non si può farne una colpa a Mrs. o Miss Pesc. La
“sicurezza collettiva”, di cui si parla da oltre un secolo, da poco prima della
Grande Guerra, è ora morta anche come progetto – vedremo gli esiti dei suoi
interventi a cavaliere del 2000 (il passo più vicino a una cosa del genere è la
New Commonwealth Society londinese del 1932, di cui il suo membro eminente
Churchill dirà: “Siamo una società di pace che patrocina l’uso della forza, se
possibile schiacciante, per sostenere il diritto internazionale pubblico” – lo diceva
nel 193, dopo la guerra di Etiopia e le inutili sanzioni: una cosa nata morta).
Ma i casi di “non-esistenza” dell’Europa sono troppi. Mogherini non la chiamano
neanche per i casi urgenti: l’Iran, l’Ucraina, le sanzioni, la Libia, l’Irak,
la Siria, l’Is. Tutto resta da fare, a quindici anni dal varo della politica
estera e di difesa europea. Che avrebbe dovuto costituire il secondo fondamento
unitario dell'Europa, dopo l'euro, e forse più dell'euro, implicando la guerra.
Ma è rimasta inattuata e non è considerata. Non è nell'interesse di nessuno,
anche se a costi elevati, nei tanti fronti bellici nei quali i paesi della Ue
si sono impegnati. La “nuova Nato”, di cui nel testo, resterà indefinita, e con
essa la politica estera e di difesa della Ue. Nei modi e per i motivi,
surrettizi ma scoperti, che questo saggio, pubblicato a ridosso della guerra
alla Serbia, nel maggio 1999, spiegava.
LA (NON) POLITICA DELLA SICUREZZA EUROPEA
Il
predecessore di Romano Prodi alla presidenza della Commissione europea, Jacques
Santer, si è dovuto recare il primo aprile, insieme con tutti i membri della
Commissione, alla sede Nato a Bruxelles per informarsi delle cause, le modalità
e gli scopi della guerra alla Serbia per il Kossovo. Era accompagnato da un
fantasma, denominato Mister Pesc nel gergo di palazzo Berlaymont, di cui da
tempo si favoleggia che stia per materializzarsi, e a cui ultimamente si dà con
discrezione, ma con ansia, la caccia. È infatti la materializzazione al
maschile, nella figura di un supercommissario con poteri speciali, della
Politica europea di sicurezza comune. da sempre assente dagli statuti
dell'Unione europea. L'ansia deriva dal fatto che l'Ue, creata per mettere al
bando la guerra in Europa, si trova a doverne combattere una, con uno Stato
europeo, proprio quando, col varo dell’euro, si confermava ormai solidamente
impiantata nei suoi obiettivi. A Mr e Mrs Pesc Romano prodi ha dichiarato
preliminarmente l’intenzione di dedicarsi con particolare cura nel suo
quinquennio di presidenza Ue. Ma avrà bisogno di molta fortuna, perché il campo
resta sempre scivoloso: “Dilemmi non semplici” si propongono secondo un
eufemismo del presidente del consiglio D'Alema (1), fra gli stessi membri della
Unione, e fra la “nuova Europa” e la “nuova Nato”, nel cui ambito la politica
europea della sicurezza va enucleata.
Dalla
Ced alla Nato
Francia
contro Germania
La
sicurezza è stata il primo “”pilastro”, si direbbe oggi a Bruxelles, dei primi
progetti di unione europea nel dopoguerra. Dal federalismo italiano di Altiero
Spinelli alle iniziative del ministro degli Esteri britannico Bevin all’inizio
del 1948, d’accordo col ministro degli Esteri francese Bidault, e del goveno
francese (piano Pleven) a fine 1950. Naufragò subito di fronte alle prospettive
di riarmo della Germania - che si fece comunque - e non s'è più ripresa. I
progetti europei si spostarono sul terreno economico, dell'unione doganale e
commerciale, e infine monetaria.
La
proposta Bevin mirava a una Unione europea in grado di garantire la propria
sicurezza, con l’obiettivo non scritto ma dichiarato di contrastare sia il
riarmo della Germania che l’ulteriore espansione del blocco comunista. Si
concluse nella stipula rapida del patto di Bruxelles, nello stesso 1948, con
Francia e Benelux.
Il piano
francese per un esercito europeo, poi denominato Comunità europea di difesa,
delineato da René Pleven all'Assemblée Nationale nell’ottobre del 1950, e
presentato al Consiglio Nato di Bruxelles del dicembre 1950, fu avviato a
pronta attuazione con la convocazione a Parigi il 15 febbraio 1951 di una
conferenza presieduta dal ministro degli Esteri Robert Schuman. La conferenza
fu aggiornata al 22 febbraio per consentire ai paesi partecipanti di studiare
un piano dettagliato del governo francese. Fu quindi variamente riconvocata,
fino all'8 maggio 1952, quando una bozza di trattato fu siglata dagli esperti
dei sei paesi partecipanti, Francia, Italia, Germania, Benelux. Il 27 maggio il
trattato fu sottoscritto dai ministri degli Esteri dei sei, per l'Italia De
Gasperi, per la Germania Adenauer.
Il
trattato, che constava di ben 132 articoli, 13 protocolli e 7 documenti
annessi, creava un vero esercito europeo: “Un esercito sovranazionale che
gradualmente ma progressivamente prenderà il posto degli eserciti nazionali”,
nelle parole di Schuman. Ma era inteso a raccogliere, nella proposta iniziale,
più paesi di quanti poi aderirono. Gran Bretagna, Danimarca, Norvegia e
Portogallo (inizialmente anche l'Olanda) si limitarono a partecipare alla
conferenza di Parigi come osservatori.
Caratteristicamente,
la Gran Bretagna se ne tenne fuori, dopo avere aperto la questione della difesa
europea con Bevin. Lo stesso piano Pleven si rifaceva esplicitamente a una
risoluzione adottata nell’agosto 1950 dall'Assemblea consultiva del Consiglio
d'Europa su iniziativa di Churchill: 89 voti furono a favore di “un esercito
europeo nel quadro del Patto Atlantico”, 5 contrari, 27 astenuti. Ma
rispondendo all’invito francese l’1 febbraio, il ministro degli Esteri Eden
informò Schuman che non era “l’attuale politica di questo governo di
contribuire forze britanniche a un esercito europeo”. Altrettant
caratteristicamente, Eden firmava a Parigi, lo stesso 27 maggio, con i sei
governi della Ced, un trattato di garanzia tra il governo britannico e la
nascente Comunità di difesa. La Gran Bretagna non voleva partecipare all’Europa
unita e non voleva esserne tenuta fuori.
Presto
però scartò anche la Francia. L’opinione contraria alla Ced dei gollisti e dei
comunisti fece breccia nel paese, e quindi fra gli stessi radicali al governo.
Il riarmo della Germania fu un potente reattivo, da questo punto di vista. Il
piano Pleven si presentava come una limitazione del riarmo tedesco, e la sua
sterilizzazione sotto un comando europeo che non poteva essere che a egemonia
francese, ma non bastò, l’inimicizia contro la Germania era troppo viva.
Pierre
Mendès-France. primo ministro e ministro degli Esteri dal 18 giugno 1954, tentò
di salvare il progetto. In parallelo con i drammatici negoziati in corso a
Ginevra per chiudere la guerra d’Indocina, tentò di organizzare un confronto
tra fautori e avversari della Ced per ottenere “una risposta chiara”. Chiedendo
una riposta chiara egli sperava di mettere la sordina ai sentimenti
anti-tedeschi. Ma il confronto non ci fu. Mendès-France tentò allora la carta
del rinvio. Il 13 agosto, forte del successo ottenuto a Ginevra il 21 luglio
sull’Indocina, inviò ai cinque firmatari un progetto di compromesso in tre
punti: un periodo di otto anni, dall’entrata in vigore del trattato, prima
d'introdurre la sopranazionalità per le “questioni vitali”; garanzie contro lo
stazionamento di soldati tedeschi in Francia; collegamento tra la Ced e la
presenza stabile delle truppe britanniche e americane in Germania. Alla
successiva conferenza riunita a Bruxelles il 19-22 agosto, i cinque
concordemente rigettarono il Protocollo di applicazione francese. Mendès-France
e il suo governo, si dichiararono di conseguenza astenuti al voto di ratifica
del 30 agosto, nel quale l’Assemblée Nationale bocciò definitivamente la Ced. “Rien
appris rien oublié”, si dirà della Francia che aveva fatto e disfatto la
Ced. “Quanto fosse sbagliato quel voto lo dimostra il fatto che il riarmo della
Germania era ormai inevitabile”, commenta Franca Gusmaroli (2).
Riarmo
tedesco
Gli Stati
Uniti avevano riaperto con insistenza il problema del riarmo della Germania. Al
Consiglio atlantico del settembre 1950 l'avevano proposto formalmente,
preoccupati, con la guerra di Corea, del “vuoto militare” europeo. Il 2 maggio
1951 la Germania era stata ammessa come membro di pieno diritto al Consiglio
d'Europa. il 19 settembre riebbe un ministero degli Esteri. E alla conferenza
di Londra del 28 settembre-3 ottobre, fatta convocare dal governo americano
dopo il rigetto francese della Ced, Parigi dovette accettare la Germania nella
Nato, con forze armate autonome, benché condizionate, e l’impegno americano e
britannico “di far cessare appena possibile il regime d’occupazione della
Repubblica federale”.
La
Francia aveva messo il veto a fine 1950 all'ingresso della Germania nella Nato,
forte della clausola del patto che prevede l'unanimità per l'ammissione di
nuovi membri. Ma l’allargamento era nelle cose. Per la logica stessa della
Nato, l’organizzazione politica e militare proposta dagli europei Bidault e
Bevin nella primavera del 1948 al segretario di Stato americano generale
Marshall, e resa possibile dal voto, l’11 giugno 1948 della cosiddetta
Risoluzione Vandenberg, con la quale il Congresso autorizzò il governo a
concludere in tempo di pace alleanze all’esterno del continente americano –
“una vera rivoluzione nella politica estera degli Stati Uniti”, dirà la
risoluzione lo storico Duroselle (3). E sopratutto per il rapido allargamento
degli obiettivi dell’Alleanza, dopo lo scoppio della prima atomica sovietica
nello stesso 1949 e la guerra in Corea l'anno seguente. Il 4 aprile del 1949 la
Nato era stata creata a Washington, dopo una trattativa rapida, e dopo la
pubblicazione, preventiva, il 18 marzo, fatto anche questo del tutto nuovo, del
trattato che la regola. Ma già pochi mesi dopo la difesa dell'Europa era
riorganizzata sul principio della “strategia in avanti”, che portava la
frontiera europea, e quindi il concetto di aggressione ai termini del trattato,
alla linea dell’Elba. Il che implicava il riarmo della Germania.
Ueo
Sul piano
europeo lo stesso Mendès-France accettò alla conferenza di Londra di fine
settembre 1954, un mese quindi dopo il rigetto della Ced, l’allargamento del
patto di Bruxelles alla Germania oltre che all’Italia, contro l’impegno tedesco
a non fabbricare armi atomiche, chimiche, biologiche, missili a lunga portata,
navi da guerra di più di 3 mila tonnellate, aerei da bombardamento strategico.
Gli accordi di Londra fuono subito votati, il 12 ottobre, a stragrande
maggioranza dall’Assemblée Nationale, e una nuova conferenza, riunita a Parigi
il 20-23 ottobre, trasformò il patto di Bruxelles in Unione dell’Europa
Occidentale.
L'idea
era germinata in un incontro a tre, fra Mendès-France, Eden e Churchill, nella
residenza di campagna dell’ex primo ministro britannico a Chartwell, il 28
agosto, alla vigilia del ripudio della Ced da parte dell’Assemblée Nationale:
il primo ministro francese, non potendo far passare la Ced, pensò che una
difesa europea integrata, con il riarmo tedesco, sarebbe stata possibile se la
Gran Bretagna ci partecipava. Ma l’Ueo, pur autorizzando, contrariamente alla
Ced, la ricostituzione di un esercito nazionale tedesco, con suoi propri
comandi e compiti, non era più dotata di forze armate sopranazionali. La
differenza era sostanziale.
Nei fatti
l’Ueo, pur prosperando di vita propria (raggruppa oggi l'intera Europa, Turchia
compresa, a vario titolo, membri di pieno diritto, associati, osservatori e
partner associati, con poche esclusioni: le neutrali Austria, Svezia, Svizzera,
Finlandia, e Russia, Ucraina, Bielorussia), ha abbandonato ogni idea, seppure
vaga, di sicurezza europea.
I due
pilastri
La
questione è riemersa solo in coincidenza con la ridefinizione della struttura
di comando Nato. Il generale De Gaulle, tornato al potere nel 1958, esordì con
una proposta di direttorio a tre, fra Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, per
garantire la stabilità politica e militare, compreso l’uso delle armi nucleari,
dell'Europa e del mondo intero - ossia per governare il mondo. Otto anni dopo,
persistendo il rifiuto americano di condividere le decisioni strategiche
mondiali, e allargandosi il conflitto in Vietnam, De Gaulle uscì a metà dalla
Nato (mantenne l'adesione al trattato, ma si ritirò dal comando unificato, e
impose la chiusura delle basi Nato e americane in territorio francese).
Dichiaratamente contro “la Nato globale” - per non dover condividere decisioni
come quella del Vietnam prese unilateralmente dagli Stati Uniti. Altro motivo
di contestazione era la dottrina della “risposta flessibile” all’Urss, enunciata
dal ministro della Difesa Usa McNamara nel febbraio 1962 (4), che lasciava
ampia discrezionalità agli Stati Uniti. Il generale era anche di questo parere:
“È un dato di fatto che l’Europa non è più il centro delle crisi
internazionali”(5). Ma non tentò di avviare un corso più europeista della
politica di sicurezza. Il trattato franco-tedesco del 1963, o dell’Eliseo,
chiuse l’epoca della diffidenza nei confronti della Germania, ma non rilanciò
una politica comune. Nello stesso anno De Gaulle vetò l'’ngresso della Gran
Bretagna nel Mec, il Mercato europeo comune.
La
revisione della struttura di comando Nato, d'altra parte, nel senso della
“equal partnership” con l’Europa, che occupò tutti gli anni Sessanta, si
concluse senza esiti (6). La revisione fu avviata da Kennedy nel 1962, con il
discorso di Filadelfia detto dei “due pilastri” - successivo alla “risposta
flessibile” di McNamara. C’era da un lato il problema di un accesso europeo
alla struttura di comando, dall’altro una maggiore partecipazione europea alle
spese militari, il burden
sharing.
Il
riequilibrio che si proponeva nella partnership riguardava la gestione delle
decisioni, e limitatamente agli spetti tecnici, o militari, e non le decisioni
stesse, o la formazione della volontà all’interno dell’Alleanza. Su questo
aspetto, dopo la decisa presa di posizione del generale Eisenhower per
un’Europa forte, gli Stati Uniti non lasceranno più aperture. Sul lato tecnico,
invece, la condivisione delle responsabilità è da tempo prassi normale. Nella
guerra di Serbia la lista dei bombardamenti notturni viene giornalmente
approvata dagli ambasciatori Nato dei paesi membri (7). Ma è da dire che il
“pilastro europeo” del disegno kennedyano, checché esso dovesse essere, si era
frantumato da sé, per le ambizioni nucleari di Gran Bretagna e Francia (la
prima atomica francese fu sperimentata nel 1960). Non ci furono revisioni a
Ottawa nel 1974, in occasione del rinnovo della Nato nel suo venticinquennale.
Eurogruppo
Di
sicurezza europea si è tornati a parlare nell'ambito del cosiddetto Eurogruppo,
costituito a fine 1968 su base informale tra i paesi europei membri della Nato,
rappresentati dai ministri della Difesa e dai delegati permanenti presso
l'Alleanza. Se ne tenne fuori la Francia. Gli obiettivi dell'Eurogruppo erano
infatti ambiziosi, e per questo inaccettabili al generale De Gaulle: una pi
incisiva presenza europea nell'Alleanza atlantica e il coordinamento delle
politiche nazionali di difesa, dall’addestramento alla logistica e agli
armamenti.
L’Eurogruppo
seguiva Praga, l’intromissione sovietica in Cecoslovacchia. E si accompagnò a
una rilancio della Cee, alla quale la Gran Bretagna cominciò a mostrare
interesse. Fu sostenuto con vivacità dal governo tedesco di Willy Brandt. Ma
già prima della caduta del cancelliere socialdemocratico nel 1974, spiato nei
suoi stessi uffici dai tedeschi dell'Est, l’Eurogruppo era defunto. Una
parentesi d’inerzia lunga un venticinquennio si apriva. Sporadici annunci di
costituzione di brigate miste, franco-tedesche, anglo-tedesche e simili
resteranno lettera morta.
La
svolta di Blair
La
sicurezza europea è rimasta in sordina nelle discussioni che hanno approdato al
rilancio in senso unitario della Comunità europea con l'unione monetaria e
economica di Maastricht l'11 dicembre 1991. Il trattato di Maastricht mette la
sicurezza da parte, come “secondo pilastro”, nel gergo europeo, della Ue, da
cominciare ad affrontare quando sarà stata realizzata l’unione fiscale e
sociale. Il trattato di Amsterdam, del 2 ottobre 1997, ha ripreso e affinato il
“secondo pilastro” di Maastricht, e ha fissato anche una data di avvio della
politica della sicurezza, l’1 maggio 1999. L’adesione del premier britannico
Tony Blair nell’ottobre 1998 all’ipotesi di difesa europea integrata sembra
avere anticipato i tempi. E già si fa l’ipotesi di trasformare l’Ueo in
organizzazione dell’Unione europea per la difesa e la sicurezza, in
collegamento con la Nato. Il fantasma della Pesc potrebbe quindi effettivamente
materializzarsi.
In realtà
tutto resta ancora da decidere: Amsterdam non precisa gli strumenti e gli
obiettivi di una politica europea della sicurezza, e nemmeno dà delle
indicazioni. La stessa fusione Ueo-Ue non sarà agevole: solo alcuni membri
dell’Ueo sono membri anche dell’Unione europea e della Nato, altri sono membri
dell'Ue ma non della Nato, e altri della Nato ma non dell’Ue.
Secondo
alcuni (8) il trattato avrebbe già aperto la porta alla Pesc per il semplice
fatto che consente la fusione della Ueo nella Ue, insieme con la possibilitò di
decidere non all’unanimità, la costituzione di una unità di analisi e
pianificazione, e la nomina del famoso Mister Pesc. Nulla di sostanziale, in
realtà. Amsterdam introduce il “veto costruttivo”, per cui il paese membro che
non condivide una scelta può astenersene senza boicottarla. E sanziona, sulla
scia di Maastricht, due livelli di decisione: uno generale e di orientamento,
che richiede l'unanimità, e uno di attuazione, dove si possono avere delle
maggioranze, e maggioranze diverse su punti diversi. Ma senza alcun indirizzo
specifico, nemmeno di politica generale, sulla sicurezza.
In questa
materia l’unica novità è la ricezione, che Amsterdam ha effettuato, della
cosiddetta “lista Petersberg”, messa a punto dalla Ueo nel 1991 in questa
località alla periferia di Bonn. La lista,
La lista,
o “compiti di Petersberg”, prevede in effetti innovazioni sostanziali, compreso
l’allestimento di forze europee umanitarie, di pace, d’interposizione. Un
cammino sul quale alcuni paesi si sono già inoltrati con benefici, seppure
senza coordinamento unitario (v. infra,
“Riserve europee”).
Sul piano
politico l’unica novità è la svolta di Blair. Discussa al vertice europeo di
Poertschah il 24-25 ottobre 1998, durante la presidenza austriaca della Ue, e
in incontro bilaterali fra Blair e vari capi di governo europei, la svolta è
approdata il 3-4 dicembre a Saint-Malo, nel corso del vertice periodico
franco-britannico, a un’intesa politica specifica: Londra riconosce
ufficialmente l’esigenza di un organismo europeo di difesa in seno alla Ue, e
la Francia riafferma ufficialmente il legame tra la difesa europea e la Nato.
La svolta è maturata insieme con i piani Nato di guerra alla Serbia per la
questione del Kosovo, che erano stati appena approntati da Washington e
comunicati al vertice Ue di fine settembre a Vilamoura in Portogallo, quindi
provvisoriamente accantonati per evitare la stagione invernale (9).
L’entente di Saint-Malo ha trovato l’adesione il
18 marzo della Germania, a conclusione di un incontro tripartito a Bonn dei
ministri degli Esteri e della Difesa. Parigi, Londra e Bonn sarebbero d'accordo
per la creazione a breve termine di un comitato di politica estera e di un
comitato militare permanenti, nonché di uno stato maggiore congiunto,
alimentati dall’unità di analisi prevista dal trattato di Amsterdam (10). Di
questo organismo dovrebbero fare parte, secondo i tre proponenti, quei paesi
che intendono assumersi le operazioni di difesa europee - allo stesso modo come
hanno dato vita all’euro alcuni e non tutti i membri della Ue. Si eviterebbero
in questo modo i problemi posti dalle diverse appartenenze Ue-Ueo-Nato. Ma
nulla è in realtà deciso, e tutto è ancora da definire.
Il
trattato di Amsterdam applicandosi, per il “pilastro” della difesa, a partire
dall’1 maggio, il governo Schroeder è tuttavia all’opera per portare al vertice
europeo di Colonia a giugno alcune misure pratiche per favorire la fusione
della Ueo nella Ue. Tra esse la nomina di Mister Pesc, un Alto Commissario per
la politica estera e la sicurezza che sia anche segretario generale della Ueo.
Ma questo Alto Commissario parte con una coloritura diminutiva, poiché non avrà
nemmeno lo status di membro della Commissione esecutiva della Ue, bensì solo
quella di segretario generale del consiglio dei ministri. È questa una carica
anonima finora detenuta da funzionari della Commissione, che assumerà rilievo
solo se le novità politiche si confermeranno.
Ambivalenza
Usa: leadership e oneri
Gli Stati
Uniti superarono rapidamente le perplessità iniziali sulla Ced, espresse
dall'Alto commissario americano per la Germania John McCloy. “La guerra di
Corea”, commentava Altiero Spinelli nell'ottobre 1950 (11), “ha avuto come
prima conseguenza che il problema della difesa dell'Europa occidentale è
divenuto attualissimo”. Europe
first è ora la parola
d'ordine, e in questo ambito gli Stati Uniti hanno ripreso “l'idea che circola
sulla stampa europea di un esercito sovranazionale il quale permetterebbe
un’organizzazione unitaria della difesa ed eviterebbe la ricostruzione di un
vero e proprio esercito tedesco”. Con l’effetto paradossale, nota Spinelli, che
gli Stati Uniti d’Europa si fanno di là dall'Atlantico, mentre di qua si
agitano “gli Stati Disuniti”, che applaudono ma frappongono le “reciproche
diffidenze e paure”.
Il ruolo
di federatore esterno fu rappresentato, con convinzione, dal generale
Eisenhower, che a dicembre del 1950 assunse il comando in capo delle forze Nato
in Europa. All’apertura della conferenza di Parigi il 27 gennaio 1951 il
segretario di Stato Dean Acheson scrisse a Schuman una lettera calorosa di
adesione degli Stati Uniti alla creazione di una forza armata europea,
comprendente dei contingenti tedeschi, sotto un comando sopra-nazionale.
Eisenhower ribadì pubblicamente il suo appoggio in un discorso a Londra il 3
luglio 1951 - il discorso della “efficiente federazione europea” - con termini
energici che sorpresero i suoi ascoltatori, tra i quali Attlee, Churchill,
Morrison, che pure erano in principio europeisti (12). In particolare
Eisenhower sostenne che solo un’Europa unita avrebbe potuto trovare la risorse
adeguate per una politica di difesa, anticipando la soluzione dell’annoso burden sharing. Alla sessione
di Roma del Consiglio atlantico, nel novembre 1951, il generale si presentò da
campione della Ced - favorendo il superamento delle persistenti perplessità dei
paesi del Benelux.
Dopo
l’elezione di Eisenhower alla presidenza a fine 1952, le pressioni americane in
favore della Ced furono insistenti. Per il segretario di Stato Foster Dulles la
difesa europea era indispensabile alla strategia di contenimento dell’Unione
Sovietica. In una conferenza stampa divenuta famosa, il 14 dicembre 1953 Foster
Dulles usò toni perfino ultimativi: “Ciò che vogliamo (con l’esercito europeo)
non è di riarmare la Germania, ma di creare una situazione che renda
impossibile il suicidio della Francia e della Germania per un’altra guerra tra
i due paesi. Se, contrariamente alle nostre speranze, si seguissero altre
strade, gli Stati Uniti si vedrebbero costretti a un esame lacerante della loro
politica estera" (13). Agonizing
reappraisal sono le parole di
Foster Dulles, con le quali il discorso è entrato negli annali.
La
mancata ratifica francese creò la prima crisi tra la Francia e gli Stati Uniti.
Foster Dulles si recò in visita a Londra e Bonn, e impose le soluzioni di
ricambio che furono adottate alla conferenza di Londra di fine settembre 1954.
La crisi di Suez due anni dopo, che vide Eisenhower al fianco di Nasser contro
Francia e Gran Bretagna (e Israele), segnò la fine di ogni disegno di Europa
come forza autonoma. Malgrado l'impegno di Eisenhower e Foster Dulles non c’era
del resto concordia in America sull’opportunità di avere una forza europea
autonoma, per quanto integrata nella Nato, che inevitabilmente avrebbe comportato
divaricazioni, nelle strutture di comando, nelle strategie e nelle tecnologie -
particolarmente temuto lo sviluppo di una forza nucleare autonoma. È la
tendenza dell’America first, che emerge a tratti regolari al Pentagono,
sopratutto, e al Congresso. Al Congresso questa ambivalenza si ripropone
cronicamente in termini di bilancio - trovando curiosamente sempre d’accordo,
ma inattivi, i partner europei. Da una parte e dall’altra si ribadisce a
cadenza alternata che lo sviluppo di un’identità europea di difesa
rafforzerebbe i rapporti interatlantici perché risolverebbe l’annoso problema
di una redistribuzione degli oneri dell’alleanza. È la questione del burden sharing.
Dalla
metà degli Sessanta e per un decennio, sotto l'enorme impegno della guerra in
Vietnam, la questione della riforma delle strutture di comando Nato, e della
redistribuzione degli oneri, per una partnership meno sbilanciata fra Europa e Stati
Uniti tornò all’ordine del giorno, e più per impulso americano. Coronata
figurativamente dalla dottrina kissingeriana del multipolarismo, che riportava
la Cina sul proscenio mondiale, e anche, potenzialmente, l'Europa. Ma non molto
dopo, nel 1973, l’anno dell’Europa nelle attese di Nixon e dello stesso
Kissinger, neo-segretario di Stato, l’Europa dimostrava la sua inconsistenza
nelle drammatiche vicende congiunte del petrolio, del dollaro e della guerra
arabo-israeliana, e la bilancia pendeva decisamente di nuovo dal lato
americano. Oggi l’ambivalenza americana fra alterità e interdipendenza,
costante per cinquant’anni, risulta con ogni evidenza superata, dopo la fine
della guerra fredda, che per numerosi aspetti fu sopratutto una guerra europea,
e l’Europa non trova più negli Stati Uniti il federatore, per quanto a
intermittenza, che essi sono stati nel passato.
La
percezione di questo cambiamento è inavvertita per l’ottica diversa con cui
l’Europa guarda agli Stati Uniti, come a una proiezione della storia e della
mentalità europee, e gli Stati Uniti guardano all'Europa, che sempre più è solo
una delle tre o quattro aree o culture del mondo con le quali convivono. Gli
Stati Uniti hanno una diversa “natura” sociale e cultura politica rispetto al
Vecchio Continente.
La
vocazione forte all’incontestata leadership mondiale, da Berlino a Saddam Hussein,
passando per Grenada, è dottrina consolidata del dipartimento di Stato e del
Pentagono. Essa è nei fatti sul piano tecnologico e del potere finanziario. Su
quello diplomatico gli Stati Uniti hanno affermato concezioni originali, che
innovano il diritto internazionale e la tradizione e si possono anche dire
esclusive. L'inizio si può porre nella conferenza di Casablanca, gennaio 1943,
dove Roosevelt impose a Churchill il nuovo concetto di “resa incondizionata” o
“vittoria totale” (un percorso che porta oggi a identificare il Nemico nella
Forza del Male), facendo strada, sempre contro il parere di Churchill, alla
penetrazione sovietica in Europa e quindi a Yalta (14). L’alterità di interessi
fra Stati Uniti e Europa riemergerà con costanza, a tratti con durezza, per
tutto il dopoguerra, nella crisi di Suez, e successivamente del Libano, nella
crisi del 1973, nell’insofferenza di Brzezinski, segretario di Stato di Carter,
e durante la presidenza Reagan con il bombardamento della Libia e la “Achille
Lauro”.
Ultimamente
è manifesta nelle questioni jugoslave: gli Stati Uniti sono passati da un
disinteresse totale, ribadito ancora a metà 1992, col martirio della Bosnia in
corso (il segretario di Stato James Baker rispose martellando le parole:”Noi
non siamo e non possiamo essere la polizia del mondo”), all’iniziativa
esclusiva, a Dayton e a Rambouillet.
Riserve
europee: egemonia, nucleare, bilateralismo
“Dal 1951
al 1954”, si può dire con Spinelli, “il federalismo europeo giunge fino alla
soglia di una vittoria parziale ma sostanziale, ed è infine battuto” - per
tutti gli anni successivi e fino a oggi. È battuto sulla questione delle Ced e
non accenna a riprendersi, per la convergente azione delle gelosie nazionali e
del problema - che in realtà però non è tale - degli impegni di spesa. E ciò
malgrado un’urgenza che, se oggi sembra inesistente, in numerose occasioni e
per lunghi periodi è stata invece drammatica, nelle tante invasioni sovietiche
all’Est, minacciate o realizzate, nella questione degli euromissili, negli eventi
che hanno portato al 1989.
La spinta
federativa fu forte su impulso inglese dapprima, e quindi francese. Churchill
rispose nel 1950 all’iniziativa americana per una difesa dell’Europa in Europa,
che aveva già portato alla Nato, con i famosi discorsi di Zurigo e Fulton, nei
quali sostenne che l’Europa aveva il dovere di unirsi, e con la creazione del
Movimento europeo, di cui diverrà primo presidente il socialista belga
Paul-Henri Spaak. La Francia propose il piano Pleven, e il piano Schuman che
porterà alla Comunità del carbone e dell'acciaio (Ceca). Ma furono gli stessi
due paesi a affossare la Ced e ogni altro progetto di difesa - e quindi di
politica - unificata.
In
termini pratici quella che è oggi la Pesc restò a lungo improponibile per la
questione nucleare. La Gran Bretagna ristabilì nel 1957, mentre nasceva il
Mercato Comune Europeo, la collaborazione nucleare con gli Stati Uniti, avviata
con il progetto Manhattan durante la guerra mondiale e interrotta da Washington
nel 1946. Il rapporto privilegiato, appena ristabilito, presto s’incrinò:
Londra restò senza vettori propri, dopo il forzato abbandono nel 1960 del
programma Blue Streak, e gli Stati Uniti accettarono di fornirglieli, ma solo
del tipo a corta gittata Polaris, da tempo sperimentati, e non quelli di nuova
progettazione Skybolt. Ma la Francia, dopo il ridimensionamento subito in
Indocina, a Suez e in Algeria, aveva reagito dotandosi di un proprio deterrente
nazionale. La prima atomica francese, preparata dagli ultimi governi della
quarta Repubblica, fu provata nel Sahara algerino nel 1960. Né Gran Bretagna né
Francia rinunceranno al privilegio nazionale della bomba. E la questione si
complicò, invece che risolversi, come proponeva Nenni (v. infra), quando nel 1968 si
arrivò al trattato di non proliferazione nucleare. La Germania, alla quale lo
statuto Ueo pure preclude l'arma nucleare, aspetterà sette anni per ratificare
il Tnp, con la condizione che la ratifica non vincola in futuro l’Unione
europea.
Inevitabilmente,
d’altra parte, il deterrente nucleare francese e inglese è parte della Nato.
Ciò complicherà per quasi un decennio negli negli anni Ottanta, fino
all'accordo del 1987, il contenzioso Usa-Urss sugli euromissili (quanti SS20
l'Urss poteva schierare in Europa, e quanti Pershing II e Cruise gli Usa): uno
dei motivi di attrito fu il conteggio degli arsenali inglese e francese in
quello americano.
Nel
1984-85 un insistito tentativo fu fatto da parte francese, infine senza esito,
per dichiarare il deterrente francese deterrente europeo - con l'unico
obiettivo di staccare Bonn da Washington e portarla a sostenere economicamente
la force de frappe francese. Il tentativo seguì una messa
in guardia di Mitterrand a Kohl, al ritorno del cancelliere tedesco da Mosca
nel luglio del 1983 (15). Chiedendo spiegazioni a Kohl sulle dichiarazioni
fatte nella capitale sovietica a proposito dell’unificazione tedesca, con
implicazioni neutraliste, il presidente francese affermava che esse erano
incompatibili con una comune difesa militare europea e con la stessa unione
politica dell'Europa occidentale. Il timore di una Germania neutralista sotto
la guida dell'allora neo-eletto e sconosciuto Kohl aveva spinto già Mitterrand
a rivitalizzare sullo scorcio del 1982 l’Ueo. A questo stesso fine Mitterrand
scelse infine di appoggiare l’installazione degli euromissili americani in
Germania.
Non
migliore esito ebbe un parallelo tentativo francese, indirizzato al governo
della signora Thatcher, di un asse militare Parigi-Londra-Bonn (16). Il
tentativo di europeizzare il deterrente francese fu abbandonato con la
riunificazione della Germania nel 1990.
Singolare
è anche il modo come periodicamente i paesi europei hanno reagito alle spinte
americane all’unificazione delle forze, negli anni Cinquanta, e successivamente
al burden sharing e alla ridefinizione della struttura
di comando nella Nato per rendere più bilanciato il rapporto Usa-Europa.
Singolare è la loro resistenza. Che solitamente viene attribuita a ragioni di
bilancio.
Ma il burden sharing, o redistribuzione degli
oneri fra Usa e Europa, molto sentito al Congresso, non pone in realtà problemi
dal punto di vista materiale. I membri europei della Nato schierano
nominalmente 2,5 milioni di soldati, contro l'1,4 degli Americani. E hanno
spese militari complessivamente pari al 60 per cento di quelle americane. È la
loro “capacità di proiezione” - in sostanza la loro efficacia nella guerra
moderna, di mezzi e tecnologia più che di uomini – che è invece bassissima,
valutandosi sul 10 per cento di quella americana. È un problema di qualità
della spesa e non di quantità, quindi non pone problemi di bilancio, il grande
vincolo europeo in questi anni di radicale ristrutturazione delle economie. Si
tratta di avere delle forze capaci di intervenire in conflitti locali, con rapidità,
sfruttando le sinergie interarma, utilizzando le tecnologie più che gli uomini.
Francia e
Gran Bretagna sono avanti su questa strada (e per efficienza - nel rapporto
costi\effetti - sono valutate allo stesso livello, se non superiori, agli Stati
Uniti). Sono intervenute in Bosnia con decisione nel giugno-luglio 1995, prima
che gli Stati Uniti e la Nato riuscissero a montare l’operazione Deliberate
Force. È europea, a comando francese, l'operazione Forza di Estrazione in
Macedonia, che avrebbe potuto instradare diversamente la questione del Kosovo,
se non fossero stati ritirati gli osservatori Osce, alla cui protezione
militare essa era intesa. Anche l’Italia ha avuto successo con l’operazione
Alba in Albania nel 1997. Ma questo potenziale di pronto intervento è
naturalmente modesto. Nel complesso i Paesi europei sono attardati, con forze
armate che, benché costose in termini di infrastrutture, addestramento,
gerarchie, sono inservibili.
La
mancata ristrutturazione non è però soltanto un fatto di vecchie abitudini,
delle inerzie burocratiche e parlamentari. Nel quadro di fondo di una
sottovalutazione specifica - al comodo riparo, fatte tutte le somme,
dell’ombrello americano - i problemi della sicurezza restano il terreno
favorito per le professioni di sovranità o grandezza nazionale. C’è
un’asimmetria di fondo in Europa sui fatti della sicurezza. Pochi paesi, tra
essi l’Italia, hanno favorito o favoriscono la diplomazia multilaterale, che è
il primissimo gradino della sopranazionalità. Gran Bretagna, Francia e
Germania, e sulle loro tracce quindi tutti gli altri, coltivano la loro
speciale relazione bilaterale con gli Stati Uniti, e quindi col resto del
mondo, e su ogni questione aperta individuano una propria strategia e perfino
proprie finalità. Non c’èŠ una rete orizzontale che colleghi interessi e
analisi dei paesi europei. Nemmeno l’insperata congiuntura di una Ue per
tredici quindicesimi socialista ha condotto l’Europa a una posizione univoca
sulla Serbia e sul Kosovo.
Del resto
è tutt'oggi più efficace il rapporto asimmetrico con gli Usa che non quello
diretto fra partner europei: quello fra Italia e Usa
meglio che non fra Italia e Francia, o Italia e Gran Bretagna - per non dire
fra Itali e Olanda o Norvegia, che ne diffidano sempre e comunque scopertamente.
Fra Gran Bretagna e Francia, malgrado Saint-Malo, la cronaca e l'aneddotica
sono sempre quelle di una storia ormai quasi millenaria. Sospetti permangono
forti a Parigi sugli scopi effettivi di Blair, di cui si teme una ripetizione
della sperimentata diplomazia britannica di essere dentro ogni possibile
sviluppo europeo per controllarlo e non per sostenerlo. Da Londra vengono a
ripetizione accuse a Parigi di avere sabotato la guerra in Irak passando
informazioni al governo di Saddam Hussein, e perfino la guerra in Serbia.
Italia
tra speranza e prudenza
L’idea di
una integrazione sopranazionale che doveva passare per primo dalla sicurezza
risale alle primissime manifestazioni di europeismo, contenute nel Manifesto di
Ventotene di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi - confinati nell'isola dal
fascismo (17). Il Manifesto di Ventotene, redatto da Spinelli con Ernesto
Rossi, discepolo di Einaudi, nel 1941, sarà pubblicato clandestinamente nel
gennaio 1944 da Eugenio Colorni, figura di spicco del socialismo, poi martire
della Resistenza.
È quindi
in ambito laico e socialista che si è manifestato in Italia l'europeismo
federalista, che privilegia l'unione politica e la sicurezza (18). Ma saranno i
cattolici a gestirne le prime fasi, forti della supremazia politica e anche di
una spiccata, seppure cauta, sensibilità per il tema dell’Europa nella
sicurezza - in Italia come in Germania e nella stessa Francia, dove però il
partito confessionale era una piccola minoranza. Su questo - come su tanti
altri argomenti - De Gasperi resterà infine deluso (19). Ma afferrò subito
l’opportunità della Ced, nel quadro della politica di ristabilimento
dell'Italia nel concerto europeo e occidentale: fu uno dei pochi a rispondere
subito positivamente al piano Pleven (gli altri erano la Germania federale e il
Belgio), e col conte Sforza dapprima, poi assumendo in proprio anche gli
Esteri, ne seguì con partecipazione gli sviluppi.
Paolo
Emilio Taviani, che rappresentava l'Italia a Parigi ai lavori del piano Schuman
per la Ceca, partecipò anche alla conferenza Ced il 15 febbraio 1951. Nelle
successive trattative pose i problemi, fondamentali per ogni istituzione
sopranazionale, di un controllo parlamentare e di un finanziamento attraverso
fonti fiscali proprie. In alternativa, l'Italia propose successivamente che
l’Assemblea prevista dalla Ced fosse incaricata di preparare il controllo
parlamentare e quindi la costituzione politica della Comunità stessa. Questa
richiesta fu recepita, con modifiche, nell’art.38 del trattato Ced. Il contributo
italiano continuò anche dopo De Gasperi. Alla conferenza di Bruxelles, del 19
settembre 1954, convocata da Mendès-France per salvare la Ced mediante un
rinvio, Attilio Piccioni argomentò sobriamente che il carattere sopranazionale
della Ced era e doveva restare fondamentale nel trattato, e che non erano
assolutamente possibili discriminazioni contro nessuno dei partecipanti.
Aggiunse ad ogni buon conto che potevano passare solo proposte che non
richiedessero nuove ratifiche parlamentari.
E a
questo punto si può dire che il rigetto francese sia stato accolto con sollievo
in Italia. Sul tema del riarmo gli equilibri politici interni si facevano più
che mai precari, e De Gasperi fu tanto pronto ad accogliere l'invito francese
nel 1951 quanto cauto nel rinviare la ratifica del trattato a ridosso di quella
francese - che non ci fu. Alla fiera opposizione del Pci e del Psi si
aggiungevano quella dei neo-fascisti e quella di una parte della Dc. Mentre in
consiglio dei ministri il titolare della Difesa Pacciardi dichiarava che non
avrebbe firmato un trattato nel quale si sanzionasse la rinuncia all’esercito
italiano senza che ci fossero precise garanzie di costituzione di un’autorità
politica (20).
Pietro
Nenni commentava nel 1954 il fallimento della Ced rovesciando la prospettiva
con la quale il progetto di Comunità europea di difesa è passato alla storia:
“Polemizzammo con tanto accanimento contro le strutture sovranazionali non per
rinchiuderci nell'orticello nazionale ma perché esse implicavano la subordinazione
e l’asservimento politico economico e militare delle piccole potenze alle
grandi e dell’Europa all’America” (21). Bisognerà aspettare Praga perché la
sinistra muti atteggiamento. Anche se il Pci accetterà la difesa occidentale,
dentro la Nato (“l’ombrello americano”), solo nel 1975, per iniziativa
personale di Enrico Berlinguer, contestata in ampi settori del partito.
Nenni,
ministro degli Esteri col primo governo Rumor, tentò un rilancio della politica
di sicurezza. Ne è traccia il comunicato finale dell’incontro a Londra il 28
aprile 1969 con Michael Stewart, titolare del Foreign Office nel governo
laburista di Harold Wilson: “Nell’Alleanza Atlantica....la formazione di una
componente europea costituisce un momento positivo del processo destinato a portare
alla formazione di un’Europa unita” (21). Con A.Spinelli, suo consulente agli
Esteri in materia di non proliferazione nucleare, Nenni lavorò anche a
un’ipotesi di difesa europea integrata senza armamento nucleare. “Non è
necessario per l'Europa unita diventare una potenza nucleare”, sosteneva
Spinelli, al cui giudizio il trattato sulla non proliferazione nucleare offriva
un’occasione di rilanciare la sicurezza, e quindi l’unità europea (22). Ma
l’ipotesi non ebbe seguito.
Prospettive
“Occorre restituire
all’Europa l'’utonomia perduta in fatto di politica internazionale e della
difesa. Guai se creassimo un gigante dal punto di vista economico e un nano sul
versante cruciale delle relazioni diplomatiche”. È il commento augurale di
Gianni Agnelli all’euro, ed è ‘'opinione di molti atlantisti convinti oltre che
europeisti. Si parte dalla ovvia constatazione, nelle parole del presidente
della Commissione difesa del Bundestag, Friedbert Pflueger (23), che “la fine
della guerra fredda non ha portato la pace universale”, e dall’altrettanto
ovvia considerazione che “gli Europei vogliono avere nella politica mondiale un
ruolo di soggetto e non di oggetto”. Né l’Europa può più evitare di prenderne
atto dopo la guerra in Serbia, guerra europea che gli Europei non hanno
gestito, né diplomaticamente né militarmente - dopo una serie di conflitti in
Jugoslavia non meno barbarici che l’hanno vista inetta e tutto sommato inerte.
Alcuni di
questi punti di crisi saranno con noi per molto tempo: la questione serba non
solo ma anche la questione albanese, che tocca Macedonia e Grecia, con
‘'inarrestabile flusso dei rifugiati, il conflitto latente greco-turco, il
fondamentamentalismo islamico alle porte, e la Russia naturalmente, la listaè
solo lunga. La Russia è per l'Unione europea la controparte degli Stati Uniti:
una potenza da non antagonizzare in nessuna misura. D’altra parte, se è vero
che si va verso un negoziato per la “distruzione massiccia” degli armamenti,
una nuova corsa al riarmo non è da escludere. La presidenza Yeltsin ormai al
termine sarà certamente rimpianta per la moderazione. Mentre monta forte,
impersonata nel primo ministro in carica Primakov, la tentazione di un asse
Mosca-Pechino-Delhi, una sorta di “asse degli esclusi”, tollerante in materia
di proliferazone nucleare, sull’inoppugnabile principio della ricostituzione
dell’equilibrio internazionale del potere.
Ma la
Politica europea di sicurezza resta tutta da fare. Se il problema della
quantità (spesa, mezzi, effettivi) è nei fatti minore, restano irrisolti i due
ostacoli di sempre, il consenso europeo, l’assenso americano. Cardine
incontestato della sovranità è il diritto della pace e della guerra. Ma
l'Europa, che si vuole sovrana, ne ha fatto finora a meno. Si è assunta, in
quanto Ue, oneri importanti: il mantenimento dell'Autorità Palestinese, la
ricostruzione in Bosnia, la ricostruzione nell'Europa dell’Est. Ma solo sul
piano finanziario. Lo stesso accordo tripartito Gran Bretagna-Francia-Germania
in vista del varo della Pesc a giugno è ancora da verificare nella sua portata
politica.
La
sicurezza europea passa per la revisione degli accordi Nato. La stessa svolta
di Blair si inquadra nelle discussioni in corso in ambito Nato sulla cosiddetta
Identità europea di sicurezza e di difesa (Esdi). Tutti i problemi europei su
elencati sono peraltro anche problemi Nato. Fra Alleanza atlantica e Unione
europea i rapporti sono formalmente inesistenti, le due entità sono separate.
Ma la Pesc non potrà farsi senza una definizione dei suoi rapporti con la Nato.
L'Alleanza
atlantica rappresenta un'esperienza eccezionale nelle relazioni internazionali.
Sia per la durata, in quanto alleanza multilaterale. Sia per la sopravvivenza
al suo scopo, la difesa contro il blocco sovietico. E per la sua natura: che
un’alleanza pletorica trovi, sempre con tanta continuità, un asse di comando
definito. Con il suo rovescio: mai prima d’ora tanti Stati hanno deciso di
rinunciare alla loro sovranità, e per così lungo tempo, in favore di una
potenza leader. È
l’effetto, senza dubbio, della minaccia comunista, anch’essa senza precedenti,
per radicalità e potenza. Ma non sarà agevole rinnovare quella rinuncia.
Il
rinnovamento dell’Alleanza si è sviluppato finora per stanche linee
burocratiche, che il segretario generale Javier Solana ha diligentemente
elencate al convegno dell’Istituto Affari Internazionali per “Una nuova Nato
una nuova Europa” alla Camera dei deputati il 25 gennaio, in preparazione delle
celebrazioni ufficiali del cinquantenario il 23-25 aprile a Washington: Partnership
for Peace (ristrutturazione delle forze armate), Euro-Atlantic Partners Council
(organismo di dibattito allargato agli associati: conta 25 membri),
Mediterranean Cooperation. Il vertice di Washington, che avrebbe dovuto
varare l’Esdi e un “Nuovo concetto strategico” per l’Alleanza, si è limitato a
dichiarazioni generiche per entrambi i titoli - e alla conferma al dipartimento
di Stato e al Pentagono del ruolo di leader incondizionati della guerra in Serbia.
Negli
unici passi del Nuovo concetto strategico che hanno significato la Pesc sembra
esclusa. La Nato, che deve affrontare “incertezza e instabilità” dentro e
attorno l’area Euro-Atlantica “e la possibilità di crisi regionali alla
periferia dell’Alleanza che potrebbero evolvere rapidamente…, rimane il foro
essenziale di consultazione tra gli alleati e il foro di accordo per le
politiche che riguardino gli impegni di sicurezza e difesa dei suoi membri”
(24). Nemmeno sulle Combined joint task forces varate al Consiglio atlantico di
Berlino (1996) si sono fatti passi avanti: si tratta di meccanismi operativi
per “forze separabili ma non separate”, che consentirebbero agli Europei di
gestire crisi minori ai propri confini, utilizzando le strutture Nato, anche
senza la partecipazione diretta degli Stati Uniti.
I
caratteri essenziali del rapporto Nato-Ue restano quelli definiti da Helmut
Schmidt alla vigilia del vertice di Washington (25), in un quadro generale di
indeterminatezza (“l’Occidente, nel complesso, è privo di una strategia
globale”): “La «nuova Nato» che gli americani vogliono tenere a battesimo deve
fare in modo - così almeno spera qualcuno, dal ministro degli Esteri Albright
all’ex consigliere per la sicurezza Brzezinski - che gli europei, anche nel
nuovo secolo, si facciano guidare da Washington”. Questo non è possibile,
secondo Schmidt, perché “l’arroganza di Washington” non è una politica, e
perché “gli americani non possono offrire una strategia globale a lungo
termine”, non per la Russia, non per la Cina, l’India, l’islam, per l’economia,
per l’ecologia.
Lo stesso
vertice di Washington ha ribadito l’esigenza di un disegno globale, denunciando
“l'emergere di nuovi rischi per la pace e la stabilità Euro-atlantiche, tra
l'essi l’oppressione, il conflitto etnico, la crisi economica, il collasso dell’ordine
politico, e la proliferazione di ordigni di distruzione di massa”. Ma, insieme
con questi “nuovi rischi”, che allargano la conflittualità a ogni evento, ha
lasciato indeterminati anche i principi e gli strumenti difensivi.
Schmidt,
l’ex cancelliere che è stato il più filoamericano fra tutti i leader Spd, oggi
commentatore politico, ritiene che comunque i conflitti ricadranno sugli
alleati, essendo strategia ormai irreversibile degli Stati Uniti d’impegnarsi a
fondo per la difesa solo nei casi eccezionali in cui la sicurezza degli stessi
Stati Uniti sia in gioco, negli altri limitandosi “a impiegare la loro alta
tecnologia militare e di telecomunicazioni, stando a distanza di sicurezza”, e
appoggiandosi “alle truppe dei loro alleati”.
Tutto ciò
potrebbe favorire la Pesc, corrispondendo questa dottrina militare e
l’incertezza politica globale ad ampi spazi di autonomia. In sintesi, la
definizione di una nuova partnership con l’Europa è essenziale alla stessa
sopravvivenza della Nato. Tuttavia l’Europa deve chiarirsi i propri indirizzi.
Un circolo vizioso che solo un’iniziativa politica decisa può rompere.
NOTE
(1)
Discorso alla Camera dei deputati, Sala della Lupa, 25 gennaio 1999, in
occasione del convegno Iai-Cespi (Istituto Affari Internazionali-Centro Studi
di Politica Internazionale), ”Il cinquantesimo anniversario dell’Alleanza
Atlantica: una nuova Nato per una nuova Europa¯.
(2)
Franca Gusmaroli, a cura di, “I sì e i no della difesa europea”, Bologna, Il
Mulino, 1974, p.12.
(3)
J.B.Duroselle,”Histoire diplomatique de 1919 à nos jours¯, Parigi, Dalloz,
1962, p. 537.
(4) “Il
nostro impegno è di usare le nostre forze in modo controllato e deliberato”:
discorso di Robert McNamara all’American Bar Foundation, 17 febbraio 1962.
(5)
Memorandum francese del 10 marzo 1966, in cui De Gaulle comunicava le sue
decisioni ai paesi membri della Nato, dopo la lettera del 7 marzo al presidente
americano Johnson. V. Paolo Vittorelli, “La conferenza europea”, “Mondo
Operaio”, marzo 1967.
(6)
Sull'aggrovigliata trattativa v. Henry A. Kissinger,”The troubled partnership¯,
New York, 1965, e “Lo Spettatore Internazionale”, gennaio-febbraio 1967,
“Sommario delle proposte di riforma della Nato”.
(7) “Nato Summit”, in “International Herald Tribune”,
26 aprile 1999. Dopo il vertice Nato a Washington del 23-25 aprile le
regole furono cambiate per semplificare le operazioni: Gli ambasciatori
approvano una lista d'insieme degli obiettivi e il comandante in capo generale
Clark decide quando e come colpirli.
Kissinger,
nel saggio che “Newsweek” ha intitolato “Doing Injury to History”, spiega: “La
coesione della Nato è minacciata primariamente perché era basata
sull’insostenibile accordo di Rambouillet. Resta da vedere quanto a lungo potrà
essere mantenuta quando la reazione pubblica alla intensità e alla durata dei
bombardamenti si farà strada, e quando diventerà apparente che le conseguenze a
lungo termine della campagna in corso dovranno essere controllate da forze Nato
di terra”. Partendo dall'ovvia considerazione: “Il presidente Clinton ha
sostenuto che, dopo un breve periodo di occupazione Nato, i gruppi etnici si
riconcilieranno. No c’è base realistica per questo assioma”. E dal fatto, che
il common belief diplomatico e strategico europeo
non considera che “quando forze americane sono impegnate in guerra la vittoria
è la sola strategia di uscita”. Gli esiti della guerra sono quindi, concludeva,
imprevedibili.
Così
non è stato, si può aggiungere oggi, ma perché evidentemente anche all’ex segretario di Stato
erano celati gli scopi veri della guerra. Kissinger così continuava -
premettendo: “Ho sostenuto ogni azione
militare dell’amministrazione Clinton”: la guerra è partita col piede sbagliato
a Rambouillet, ne negoziato ultimativo con la Serbia sul Kossovo. “Condurre un
negoziato basato su un accordo redatto interamente nelle cancellerie
straniere e cercare di imporlo con la minaccia di un bombardamento aereo ha
solo esacerbato la crisi nel Kossovo. Il testo di Rambouillet fu venduto
all’Uck - che inizialmente lo rifiutò - come un trucco per portare tutta la
potenza della Nato a pesare sulla Serbia”. I Serbi l'hanno rifiutato perché ci
hanno visto una minaccia di quell’occupazione straniera contro la quale la
Serbia ha sempre combattuto: “Anche se fossero costretti alla capitolazione coi
bombardamenti, difficilmente ci si può aspettare che essi ne accettino
consenzienti l’esito”. Mentre l’obiettivo dichiarato dell’Uck era
l’indipendenza, non l'autonomia, e ciò non senza conseguenze su un'eventuale
forza Nato d’interposizione: “L'ironico effetto dell’accordo di Rambouillet,
nel cui nome la campagna aerea Nato viene condotta, è che le forze di pace Nato
sostituiranno i Serbi come ostacolo alle aspirazioni nazionali degli Albanesi -
specie se i Serbi saranno troppo indeboliti per fare da contrappeso”. E di più
ovviamente alla Grande Albania, che porterebbe alla dislocazione anche della
Macedonia.
(8) Gli
argomenti degli ottimisti sono sintetizzati da Friedbert Pflueger, presidente
cristiano-democratico della Commissione affari europei del Bundestag, in
“Géopolitique” n.45, marzo 1999.
(9) “The
Path to Crisis”, in “International Herald Tribune”, 19 aprile 1999, e François
Heisbourg, “New Division of Labor”, contributo al convegno Iai-Cespi “Una nuova
Nato per una nuova Europa”. A proposito della scelta di Blair scrive “Il
Foglio”, 20 aprile 1999: “Bisogna risalire agli inizi del Settecento per
trovare un’altra aggressione militare di Londra nei confronti di un paese
europeo”.
(10)
I termini degli accordi sono quelli resi pubblici da Daniel Vernet su “Le
Monde” del 20 marzo 1999.
(11)
Altiero Spinelli, “La farsa della difesa europea”, ottobre 1950, articolo
ripreso in Id., “L'Europa non cade dal cielo”, Bologna, Il Mulino, 1960,
raccolta di scritti pubblicati fra il 1951 e il 1955.
(12)
L’intervento di Eisenhower è vividamente riferito da A. Spinelli nell'articolo
“Eisenhower contro le mezze misure”, ripubblicato in Id., “L'Europa non cade
dal cielo”, pp.125-127. Disse Eisenhower: “L'Europa non potrà raggiungere la
grande statura che le sarebbe possibile conseguire per le capacità e lo spirito
dei suoi popoli finché sarà divisa da rabberciate barriere territoriali che
favoriscono gli interessi locali a danno di quelli comuni, e moltiplicano tutti
i prezzi con percentuali agli intermediari, tariffe doganali, tasse e
sovrapprezzi....Nel campo politico le barriere favoriscono la diffidenza e il
sospetto, servono interessi particolaristici a spese dei popoli, impediscono
un’azione efficacemente coordinata per l’evidente e esclusivo bene dell'Europa.
Con gli oneri connessi a una divisione forzosa,è evidente che anche un minimo
sostanziale sforzo di difesa intaccherà seriamente le risorse dell'Europa”.
(13)
Questa e altre citazioni senza diverso riferimento bibliografico sono riprese
dai Keesing's Contemprary Archives, la documentazione periodica degli affari
internazionali.
(14)
“Propongo che ‘'incontro di Casablanca sia chiamato l’Incontro della Resa
Incondizionata”, disse il presidente Franklin D.Roosevelt nella conferenza
stampa conclusiva. Alla lunga serie di incontri parteciparono gli Stati
maggiori dei due paesi. La conferenza aveva lo scopo di programmare azioni di
guerra che alleggerissero il fronte sovietico. Stalin non partecipò
all'incontro per gli impegni nella controffensiva anti-tedesca.
(15) “Le
Nouvel Observateur”, 15 luglio 1983.
(16)
Geoffrey Lee Williams e Allan Lee Williams, “The European Defence Initiative”,
Londra, MacMillan, 1986, mettono in parallelo la costruzione di un potenziale
nucleare anglo-franco-tedesco con la realizzazione dell’Europa politica. Si
ipotizzava perfino una sorta di parità nucleare di questo asse con l’Urss,
avendo esso un potenziale distruttivo della quasi totalità dell’apparato
industriale sovietico e di due terzi della popolazione.
(17) Spinelli
divenne europeista leggendo Einaudi. Mentre era confinato a Ponza, dopo essere
stato arrestato dalla polizia fascista nel 1927 (nel 1943 sarà l’italiano che
ha subito la più lunga detenzione politica), e “dopo l’uscita dal Pci
nell’estate del 1937”, ha confidato a Sonia Schmidt, “ho meditato a lungo
intorno ai problemi della democrazia senza giungere a conclusioni soddisfacenti
per circa un paio d’anni. Nella prima metà del 1939 la lettura degli articoli
che Einaudi aveva pubblicato nel 1918 contro la Società delle nazioni e per una
federazione europea”, accompagnata dalla lettura di alcuni federalisti inglesi,
lo convinsero che la federazione era per l’Europa la via d'uscita dalla cronica
bellicosità. V. Sonia Schmidt, “Intervista con Altiero Spinelli”, in
A.Spinelli, E.Rossi, “Il Manifesto di Ventotene”, ried., Napoli, Guida, 1982.
Il “Manifesto di Ventotene” fu redatto da Spinelli a Ventotene, dove era stato
trasferito, nel 1941 insieme con Ernesto Rossi, altro confinato, e fu discusso
con Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, che poi lo pubblicarono
clandestinamente a Roma nel gennaio 1944. “Alla lettura dei federalisti inglesi
siamo giunti così”, ha spiegato Spinelli nella stessa intervista: “Luigi
Einaudi, allora professore di economia a Torino, che, insieme a Benedetto
Croce, era fra i pochissimi grandi intellettuali liberali, cui il fascismo
riconosceva una certa libertà di espressione, era autorizzato a corrispondere
con Ernesto Rossi, anch’egli professore di economia, benché questi fosse in carcere,
e a mandargli anche qualche libro di economia in italiano o in altra lingua”.
Tra gli altri poterono così leggere le “Lettere politiche” che Einaudi aveva
inviato al “Corriere della sera” di Luigi Albertini nel 1917-18 con lo
pseudonimo di Junius, ripubblicati da Laterza nel 1920. La raccolta è
essenzialmente anti-giolittiana - contro il Giolitti che proclamava “a
sinistra, sempre più a sinistra”, per il recupero politico dei socialisti. Solo
un terzo di paginetta ipotizza l’Europa unita, per sottolineare “l’impensabile”
di una Società delle Nazioni: uno Stato europeo sarebbe “uno scopo concreto,
pensabile, se pure oggi irraggiungibile”.
(18)
Oltre al Movimento federalista di Altiero Spinelli, e alla proiezione italiana
del Movimento europeo, vanno ricordati in questo ambito culturale le
pubblicazioni “Comprendre” di Umberto ampagnolo, rivista edita a Venezia dalla
Société‚ Européenne de Culture, il “Bulletin Européen” di C. Dragan, diretto da
Giorgio Del Vecchio, “Iniziativa Europea” di Mario Zagari.
(19) “Vi
è un'Europa ma è difficile definirla, difficile come definire la luce oppure
l’amore”, dirà De Gasperi alla Tavola rotonda sull’Europa che si tenne a Roma
dal 13 al 16 ottobre 1954 con Robert Schuman e vari studiosi: “L’Europa esiste
nella sua assenza”. Cit. in Carlo Curcio, “Europa, storia di un'’idea”,
Firenze, Vallecchi, 1958, vol.II, p.946.
(20) In
A.Spinelli, “L'Europa non cade dal cielo”, cit., p.140.
(21)
Pietro Nenni, “Discorsi parlamentar”¯, Camera dei deputati, 1978, p.443,
discorso del 21 dicembre 1954. Contro la Ced erano, oltre ai comunisti italiani
e francesi, i socialisti italiani e tedeschi. Ma con argomenti differenti.
Carlo Schmid sostenne al Budestag che la Ced avrebbe mantenuto per la Germania
lo stato di Paese occupato, a sovranità limitata, e propose di dare la
precedenza alla piena associazione della Repubblica federale alla Nato. A
favore votarono i socialisti in Belgio, naturalmente, su impulso del grande
europeista Paul-Henri Spaak, e in Olanda. In Francia i socialisti di Guy Mollet
andarono oltre, finendo per essere i soli decisi assertori della Ced: un
congresso speciale tenuto a Puteaux il 40 maggio 1954 decise, con 1.969 voti a
favore, 1.215 contrari e 285 astensioni, la ratifica della Ced, e con 2.414
voti a favore contro 972, e 68 astensioni, sanzioni disciplinari contro i
membri del partito che avessero votato contro.
(22)
Pietro Nenni, “I nodi della politica estera italiana”, MIlano, Sugar, 1974,
p.218.
(23)
Altiero Spinelli, “Note sulla non proliferazione”, in “Lo Spettatore
Internazionale”, marzo-aprile 1967, p.110.
(24) Articolo cit.
(25) “The Washington Summits”, cit..
(26)
Helmut Schmidt, “Die Nato gehört nicht Amerika”, la Nato non appartiene
all'America, in “Die Zeit”, 22 aprile 1999. L'intervento di H.Schmidt è stato
riprodotto da “La Repubblica” il 24 aprile 1999, sotto il titolo “L'Europa e il
padrone americano”.
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