Depurata
dei barconi della disperazione, e dei campi di rifugiati, ormai innumerevoli in
Africa e in Medio Oriente, l’immigrazione fa bene e non danni. È sempre stato
così e continua a esserlo, per chi emigra e per i popoli e i luoghi presso cui
approda. Diventa nociva in casi specifici. Quando copre criminali e traffici illeciti, e quando, appunto, non è governata. Come avviene in Europa.
L’emigrazione
c’è sempre stata. E tanto più è necessaria ora all’Europa in crisi stabile di nascite.
La demografia vuole un coefficiente di fertilità – nascite per donna fertile –
di 2,1 per mantenere stabile la popolazione, mentre l’Europa viaggia ormai da
tempo sull’1,6-1,5. Con l’Italia e la Germania meno prolifiche di tutti, il coefficiente
di fertilità approssimando alla metà di quello necessario per riprodurre la
popolazione.
È in
questa chiave che Angela Merkel ha detto: “Si può fare”, è gestibile. La
Germania federale ne ha lunga esperienza, avendo dovuto sopperire alla mancanza
di maschi in età lavorativa nel dopoguerra, e successivamente per un’offerta di
forza lavoro insufficiente rispetto alla domanda del sistema produttivo. Lo ha
fatto con le gigantesche immigrazioni forzate dall’Est, otto milioni di persone
sloggiate dalla Russia e dalla Polonia, e poi con i Gastarbeiter del Sud Europa, italiani, greci, spagnoli, portoghesi,
jugoslavi. Per una terza ondata di lavoro immigrato ha fatto – e continua a fare –
ricorso in Turchia. Ora può aprire una quarta fase, verso gli arabi: siriani,
iracheni, nordafricani.
Il
governo dell’immigrazione in effetti non è difficile. Consta di due fasi: l’accoglienza
e l’integrazione. Sull’accoglienza l’Italia, paese di frontiera, si è portata a
buoni livelli. Sfama bene o male e alloggia le centomila emergenze, quelli dei
barconi. E integra in qualche modo ogni anno 150-180 mila nuovi immigrati, con
un’attività e in cerca di un permesso di soggiorno. Ma questo con difficoltà: l’Italia
non ha un programma d’integrazione.
L’integrazione
si fa attraverso la formazione accelerata, di lavoro e linguistica. Su questo
aspetto la Germania è invece più avanti – fare il caso dei paesi scandinavi non
è d’aiuto, lavorano su piccoli numeri. La Germania integra ogni anno sui 300
mila nuovi immigrati. Con gli stessi abusi che in Italia: salari in nero,
niente minimi, nessuna forma di sicurezza. Ma anche con una politica efficace
di formazione e istruzione.
Il
beneficio per la Germania delle politiche dell’integrazione è duplice. Da un
lato ha una forza lavoro produttiva, semispecializzata e non solo generica. Dall’altro
stimola nuovo potere d’acquisto: l’immigrato integrato entra nell’ottica
nazionale, abbandonando le sudditanze psicologiche ereditarie che aveva alla
partenza. È solo in Italia che il polacco o il rumeno immigrato, magari da vent’anni,
compra solo tedesco, o il maghrebino solo francese.
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