Il primo tentativo di
inquadrare questo fenomeno novecentesco, l’opinione pubblica, che doveva
sostantivare la democrazia come patrimonio dell’individuo, attraverso l’informazione
diffusa, è un k.o., autoinflitto. Da parte di un giornalista influente e fondatore
di giornali, “New Republic”. Le parti sono già fatte nell’introduzione: “Il
mondo reale è insieme troppo grande e complesso, e troppo volatile per una conoscenza diretta”.
La cognizione-acquisizione della sua realtà ognuno quindi se la fa col suo
bagaglio mentale, soggettivo, prevenuto, e necessariamente limitato. E da solo
anzi non ce la fa.
Lippmann, che sarà poi
influente commentatore politico (suo è il conio di “guerra fredda”, della “fabbrica del consenso”,e del
concetto di “stereotipo”), era un democratico, collaboratore del presidente Wilson
negli stessi mesi in cui scriveva questo “Public Opinion”, in qualità di capo
ricercatore per i negoziati di pace che concludevano la guerra. Ma il fatto è
che “viviamo nello stesso mondo, ma pensiamo e sentiamo in mondi diversi”.
Senza per questo essere esclusi dai processi decisionali: il saggio di Lippmann
è un’apologia del giornalismo, a cui delega la funzione di chiarire al pubblico
i temi in discussione, e soprattutto di mettere in chiaro le azioni e i disegni
del potere.
Lippmann condivideva l’illusione
“pubblicistica, della openness, di
Wilson. Ma conclude a una concezione mediata, anche elitistica contro le
premesse (tecnica, autocratica), dell’opinione pubblica. Realistica, certo, e
non idealistica.
L’opinione pubblica è
giudizio e pregiudizio. Più questo che quello. Ed è una forma di difesa più che
di conoscenza. Questo era vero quando Lippmann pubblicò la sua riflessione, nel
1922, al termpo delle ideologie montanti, ed è vero anche oggi, che l’opinione va
allo sbando, senza “linea” e senza argini.
Walter
Lippmann, L’opinione pubblica,
Donzelli, pp. XX-304, € 13Public Opinion, free online
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