lunedì 2 novembre 2015

Pasolini messo a nudo

L’omaggio migliore per l’anniversario della morte di Pasolini: in assenza di un assestamento critico, una testimonianza di prim’ordine. Gideon Bachmann ha seguito Pasolini per ventidue anni, registrandone via via gli umori, e ha donato le innumerevoli registrazioni a Pordenone, a Cinemazero. Riccardo Costantini ne ha tratto un libro agile, nella prima parte anche in larga misura nuovo, che è una sorta di autoritratto - un Pasolini alla sesta P. Con foto inedite e suggestive.
“Le immagini si fondano sulle immagini dei segni e della memoria e, in più, su quanto di significativo ha l’immagine unita alla parola”.
“Io non sono mai stato un neo realista, sono sempre stato un naturalista esperessionitcico”.
“Ho dato al realismo una svolta personale che definirei mitica  epica… È proprio una mia disposizione culturale-psicologica”.
“Io, pur esendo un marxista, ho un fondo irrazionalmente religioso nel vedere le cose e gli uomini” – la “sacralità”, la “religiosità”, è un assillo.
“Biologicamente l’uomo è narciso, ribelle, ama la propria identità, ma la società lo rende conformista”. 
Tranquillo conoscitore di se stesso: “Io penso che nessuno in nessuna società sia libero e che quindi opera di ogni artista sia per forza un’opera di contestazione”. Quello che rimproverava al Sessantotto. Sincero, a suo modo, ma sempre non abbastanza, o troppo, introspettivo. Del resto, da “Ragazzi di vita in poi, dai trentatré anni, la sua vita è pubblica, la stessa frequenza delle registrazioni di Bachmann ne è testimonianza quasi sgradevole. Nel mentre che creava febbrilmente: non si riflette che la sua énaurme opera è tutta in venti anni, dal 1955 al 1975.
È un testo pasoliniano anche per le certezze sempre contraddittorie. Il rifiuto della contemporaneità. L’agiografia del contadino, falsa a ogni latitudine. Il pregiudizio antiunitario e antimeridionale. E insieme la mancanza di senso della nazione – dell’unità di lingua, di politica, di società. Con l’affettazione, forse inevitabile nelle interviste: “Una cosa non posso fare, rendere espressivo, artistico, e quindi umano, il linguaggio dell’operaio in quanto operaio, il linguaggio dell’industriale in quanto industriale”. Filosofico: “La mia è una filosofia stoica, che si oppone alla filosofia ednonistica delle masse” – le masse filosofe? Heideggeriano senza saperlo (“quando l’aereo porta Hitler da Mussolini, lì è la storia”): “Quando Berlinguer dice qualcosa noi cogliamo tutte le implicazioni politiche”.
Sempre col tarlo del “discorso libero indiretto”, la sua forma di realismo, benché obliqua: “Ovvero mostrare le cose non come le vede l’autore ma come le vede un altro. Col noto, debole, senso politico. Apodittico, sempre risolutivo: “La coppia è diventata un incubo, un’ossessione, anziché una libertà”. Il film che non ha ancora terminato di girare, “Salò”, è sull’anarchia del potere, non solo, ma anche sulla “inesistenza della storia”, nientemeno: “È un film in polemica con l’idea della storia prodotta dalla cultura eurocentrica: il razionalismo e l’empirismo borghese da una parte e il marxismo dall’altra”. Per una superficiale assimilazione della critica terzomondistica allora in uso. Pericolosamente simile a Malaparte, modello allora attivo di polemista e creativo polimorfo: altrettanto onnipresente e onnivoro, anticonformista di programma. Tanto più indigente però politicamente quanto più trascinatore, allora e oggi – anche se nel 1972 dice di non crederci più. Tra marxismo e capitalismo ugualmente adulterati, e indigesti.
Bachmann, tedesco di nascita, emigrato a nove anni con la famiglia in Israele nel 1936, giornalista radio e fotografo a Tel Aviv nel dopoguerra, inviato in Europa nel 1947 per documentare i lager, si trasferisce a New York per una dozzina di anni. Quindi nel 1961, dopo lincontro con Fellini a New York, arrivato per promuovere “La strada” agli Oscar, a Roma per quarant’anni. Cronista della scena culturale italiana, soprattutto del cinema, per giornali angloamericani e di lingua tedesca. Scrittore anche scorrevole in italiano. Documentarista, premiato a Venezia. Intimo di Fellini, cui dedicherà il film documentario “Ciao, Federico”, e poi, con più continuità, di Pasolini. Col quale registra molte ore di conversarzioni sull’inseparabile Nagra. È l’anglosassone sempre a disagio (chiasso, burocrazia, confusione…) ,che però preferisce vivere in Italia. Estremamente generoso, e interlocutore stimolante di Pasolini.
La quarta “P”, la prima del titolo, non è di polemiche ma di poetica. Ed è la più interessante L’infinita gamma dei riferimenti pittorici. La contaminazione, dei generi e dei soggetti. Le tecniche d’autore, girare e montare il film, poetare, romanzare. Delle altre due parti sono note le tracce, attraverso gli scritti corsari”, le provocazioni. “L’Italia sarebbe adesso (1974) matura per fornire le truppe alle SS”. Non c’è il terrorismo. Il “no” (all’abolizione del divorzio) è stato suggerito non tanto dalle sinistre quanto dalla televisione” – dalle donne no, dagli uomini? Anticonsumista un lustro o più dopo il rifiuto del Sessantotto, che era proprio il rifiuto dei consumi, dell’“integrazione”: “Bisogna tornare alla repressione, non avere paura di una certa repressione”.  
E Roma naturalmente. Roma è già distrutta. Più volte. L’ultima quarant’anni fa, poco prima della morte: “Non esistono più i romani. Un giovane romano non esiste più, è un cadavere”. Molto romano, “non esistono” e tutto il resto.
Gideon Bachmann, Pier Paolo Pasolini Polemica Politica Potere, Chiarelettere, pp. 143, ill., € 16

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