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Pasolini dannunziano, velenoso
“L’Espresso”
non sempre trattava bene Pasolini. Un corpo estraneo alla sua cultura, benché –
o per questo – molto presente sul settimanale. Che non fu mai la sua tribuna: “Tempo”
sì, “Suscesso” sì, “Vie Nuove” e altri periodici sì, e la Rizzoli, col “Mondo” e il “Corriere della sera”, “l’Espresso”
no, che invece doveva essere il suo luogo naturale. L’attenzione però fu
costante, e ora il settimanale lo ricorda con un volume sontuoso, pieno di
foto, con gli articoli a lui dedicati. Non tutti, quelli di giornalisti e
scrittori illustri, su questioni ancora aperte: la lingua, la modernità, la
corruzione, l’intrigo politico, e il consumismo, quello che oggi si chiama il
mercato. In chiave “dannunziana” – c’è anche un fotoritratto del Vate nudo.
La
raccolta è preceduta da due presentazioni, entrambe illuminanti, involontariamente.
Il volume “è il più completo e impressionante corpus di articoli,
testimonianze, valutazioni critiche e polemiche di e su Pier Paolo Pasolini in
occasione del quarantennale”, esordisce Asor Rosa. È giusto, concede, l’interesse è vivo e
vasto: non cè altro “intellettuale-poeta italiano del Novecento” che susciti
tanto interesse. Anche per la capacità di Pasolini di fare opinione: “Suscitare
scandalo non è difficile”. Lo scandalo
Asor Rosa sintetizza bene: “Consisteva nel mettere radicalmente in discussione
nel medesimo tempo” il conservatorismo e il progressismo. Cioè, conclude, la Dc, “la
bestia allora trionfante”, e il Sessantotto, la “inane, cavillosa e pretestuosa
rivolta studentesca”. Che invece rinnovò l’Italia, per il meglio, anche all’università,
e nei diritti civili. Non solo: Asor Rosa dimentica il Pci, il compromesso storico,
il nodo ribellione-dipendenza di Pasolini verso il Partito – che da lui prese
molto credito, incluso il funeralone “gesuitico”, ripagandolo con molti torti.
Marco
Belpoliti applica a Pasolini la sua sperimentata anatomia dei “due corpi”. Il
noto passaggio dalla trilogia della vita, “Decamerone”, “Canterbury”, “Mille e
una notte”, a quella della morte, “Teorema”, Salò” e il progettato “Porno-Teo-Kolossal”.
Opportunamente ricorda che Pasolini è “uno che ha scritto quasi ogni giorno della
sua vita”, un uomo di parole. Ne ricorda anche la traccia fondamentale: “PPP è
Narciso, ma anche Cristo: si rappresenta come una figura sacrificale”. Ma non
da vitalista? Non fu mai depresso, neppure vittimista. Se non di sé: per il complesso
di colpa, l’omosessualità non accettata, vissuta come vizio, da rapporti violenti mercenari, in disarmonia col rapporto ombelicale con la madre. Che fu, se non
una chiesa, benché provvida e accogliente, madonna virginale, pura.
Scorrendo questo volume
di contributi competenti un fatto risalta eminente: che Pasolini non è il
santino che si continua a celebrare. Aveva servitù di ogni tipo, psicologiche, comportamentali,
politiche. Ma non era un remissivo, naturalmente. E non un vittimista: era un
pugile che picchiava più che incassare. La poesia contro il Sessantotto? “Brutti
versi”, se ne vanta. Il teatro di Fo, che ogni anno sollazzava mezzo milione di
spettatori ma era all’indice del Pci – e per questo si poteva fare nei cinema e
sotto i tendoni ma non in sala? “Abominevole”, lo dice a Corrado Augias nel
1973: “Il suo gauchismo è il più atroce che ci sia: terroristico, ricattatorio,
moralistico e puritano”. Lo spettacolo di Fo su Pinelli? “Mi vengono i brividi solo a pensarci”. Salvo fare lui, con
Lotta Continua, poco dopo un docufilm su piazza Fontana. Era uno spregiudicato,
pieno di veleni.
L'Espresso Pasolini, pp. 320, ill., € 12,90
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