mercoledì 4 novembre 2015

Secondi pensieri - 238

zeulig

Amore - Il vero amante cerca il bene dell’amato, il che richiede anzitutto la liberazione dell’amato dall’amante. Detto insidioso di Raimondo Lullo, da gesuita orientaleggiante – meglio se anglofono, per l’indistinto uomo-donna che viene comodo. Oppure: l’amato dev’essere godibile come un tramonto o una sinfonia, come l’albero, che è uguale per sé e per tutti. Lo diceva già Platone: l’uomo al fondo è una pianta, ha in alto, nella testa, la radice per cui si tiene diritto. Voler essere unico per una persona significa asservirsi a quella persona. Ma al partner no: se non si tocca non si sente. Non c’è amore se non corrisposto.
Non c’è amore senza oggetto, per dirla con Lullo, lo stilnovo e la scolastica. La castità stessa è fisica. Si chieda al medico, oltre che all’-mante: come si fa senza, senza il fatto fisico? Un essere in carne, sia pure figlio, o madre? O il padre, un qualsiasi essere umano, una bestia, il popolo, il mondo, fisico e metafisico, lo stesso vuoto, il pulviscolo di gas, senza contatto? Non ci sono le cose in sé. Cos’è un bel paesaggio, Capri o la Death Valley? Siamo relazionali, dicono Berkeley, la sociologia, e la natura. Non c’è madre senza figlio, malato senza medico, amante senza amata. Il problema dei ricchioni, spiegava il portiere Espoito, portiere d’albergo che conosceva tutta Roma, è che avrebbero bisogno di un uomo, un uomo forte, e invece finiscono con un altro ricchione. Per quanto, è vero, ci sono medici senza malati. E più single che no. Ma senza mal d’amore?

Democrazia – Forse non è più di quanto arguiva de Custine, legittimista, di ritorno dalla Russia nel 1939: “Il governo misto non è il più favorevole all’azione; ma nella loro maturità i popoli hanno meno bisogno di agire; questo governo è quello più propizio alla produzione, e che procura agli uomini più benessere e più ricchezza; è soprattutto quello che dà più attività al pensiero nella sfera delle idee pratiche; infine, rende il cittadino indipendente, non per l’elevazione dei sentimenti ma per l’azione delle leggi; certamente sono grandi compensazioni a grandi inconvenienti”. Un concetto riduttivo e non palingenetico – l’uguaglianza? la libertà? E tuttavia sovversivo: se applicato, sarebbe rivoluzionario.

Destino – È diventato accomodante. Il tedesco, e un po’ anche l’italiano, lo intende più che come condanna ferrea, Schicksal, da collegare alla necessità assoluta, come Gemüt: un misto disenso del destino e compassione, servo arbitrio e fatalismo. Autoindulgente, cioè assolutorio, come da una colpa cui ci si assuefa, senza indignarsi.
Era diverso nella tragedia greca: implacabile, e quando era cattivo da contrastare con la ribellione, sia pure perdente.

Freud – Ipersistematico si può dire, e dogmatico, perfino insolente, che di tutto fa un riscontro alle sue teorie.

Io – È segno tracciato nell’aria e la polvere, non c’è altro io - è qui la pesantezza del destino. Perfino Dante fu ignorato per secoli, e Omero, o Shakespeare. Alessandro Magno è ignoto ai più. Gli accademici e i sistemologi lo sanno, che non lasciano traccia.

Stato d’assedio – Si collega spesso al mercato totalitario, quindi all’ordine liberale se non democratico, alla contemporaneità, alla modernità, alla tecnica invadente, fin nella procreazione e nel pensiero.
“Lo stato d’assedio” di Camus è opera del dopoguerra, 1948, teatrale, che esalta la resistenza e mette in guardia contro i residui totalitari (in Spagna, a Cadice, più che nell’Urss), la subordinazione, la rassegnazione, la fede passiva. Ma il concetto era stato elaborato in termini di condizione psicologica più che politica, e in antitesi alla modernità, informa stato da “guerra civile” per Jünger, “da “stato d’assedio permanente”. Come concetto conservatore e anche reazionario, ma in difesa della libertà: “Se le grandi masse fossero così trasparenti”, argomenta Jünger nel “Trattato del ribelle”, “così compatte fin nei singoli atomi come sostiene la propaganda dello Stato, basterebbero tanti poliziotti quanti sono i cani che servono ad un pastore per le sue greggi. Ma le cose stanno diversamente, poiché tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos'è la libertà. E non soltanto questi lupi sono forti in se stessi, c'è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in un branco. È questo l'incubo dei potenti”.
Custine e Joseph De Maistre lo trovavano normale nella Russia post Santa Alleanza, alla morte di Alessandro I. Quindi come retaggio di una storia “superata”, un modo per perpetuare la schiavitù in un ambito europeo da mezzo secolo abolizionista. Un reperto. Un secolo dopo Carl Schmitt ne fa il nucleo della sovranità: sovrano è chi decide lo stato d’eccezione – e lo stato d’assedio è risolutore: “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”, e “lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia” (“La dittatura”, 1921, “Teologia politica”, 1922). Jünger, che molto recepisce in questa riflessione C.Schmitt, ne fa il modo d’essere della contemporaneità già nella sua prima riflessione, “L’operaio. Dominio e forma”, 1932, e poi nel “Trattato del ribelle”, 1951. La modernità come impegno (annientamento) del singolo, dell’individuo, e come portato della tecnica. Un nemico che questa critica vedeva, viveva, paradossalmente, nella repubblica di Weimar, dove ogni libertà era possibile, più che sotto Hitler – e questo non per la libertà di pensiero e di stampa come opposta alla censura e all’autocensura. Jünger anche nel dopoguerra, nella modesta repubblica di Bonn, e malgrado l’orso russo sulle spalle. Lo stato d’assedio come eccesso di libertà, sotto di essa.
È lo stato d’assedio non militare ma sociale e psicologico, culturale. Quello che il marchese de Custine trovava in Russia nel 1839: “Questa disciplina da campo sostituita all’ordine delle città, lo stato d’assedio divenuto lo stato normale della società”. Custine nella “disciplina da campo” riscopre il liberalismo attivo: “Andavo in Russia per cercarvi argomenti contro il governo rappresentativo, ne ritorno partigiano delle costituzioni”. Ma l’ammodernamento, realtivo, della Russia, poteva vedere sotto le forme della servitù volontaria.

Storicismo – È irrimediabile. E non per la forza del cogito cartesiano, non solo. Cervantes, Shakespeare, letti per intero in originale sono oberati dal Seicento. Il realista Popper, che sa che un mondo biologico e sociale esiste, di cui la scienza è la scoperta, vede la realtà farsi senza dare peso all’osservatore o attore, che alla fine solo sposta la conoscenza. Sapere, farsi un giudizio, pesa, ma non determina gli eventi. O sì, per non far torto a Heisenberg, ma di poco.
Seneca avrebbe detto, o altro romano stoico: “Odio la memoria”. Ma è una maniera di fare la storia. Nell’ipotetica divisione del mondo fra destro e sinistro che la fenomenologia apre, fra il modo di conoscere quale si è assestato nell’uso classico e l’infinità di altri mondi possibili, non è dubbio che non si debba essere di questi ultimi. Ma con forma mentis conservatrice e ottimista, non anarchica, non abbastanza. Il rispetto della realtà può portare all’astinenza.

zeulig@antiit.eu

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