Pasolini si dice spesso “settentrionale”: “Sono settentrionale…”.
Da ultimo nel testo che aveva licenziato per la pubblicazione subito prima
dell’assassinio, e per la cui uscita aveva già fatto le prime interviste: “Sono
settentrionale…”. Il suo Sud è anche un “antius”, come opposto a “postius”, risponde
a un poeta ermetico all’inizio di “Petrolio”. Ingegnoso, il Sud che viene
prima, nei due sensi del tempo: nella storia, e come ora del giorno – antius
sta per “volto a mezzogiorno”. Ma il sentimento, generale e costante, è di
ripulsa.
Non è razzista, naturalmente
– ma nessuno lo è. La sua è l’insofferenza di tutti, molti meridionali
compresi. Il rigetto è però in lui radicale, rifiuto di sapere. Per indifferenza,
probabile, e non malanimo. Che però, per uno obbligato a confrontarvisi di
tanto in tanto, per lavoro, per conoscenze, anche per affetti, dice tanta insofferenza.
Ho fatto il “Vangelo”, spiega a
Gideon Bachnmann, al Sud, e per il Sud: “Il Sud avrebbe dovuto riconoscersi
meglio nel film, considerato il fatto che l’ho girato lì e di lì sono i
protagonisti, il popolo, i paesaggi, e la vita rappresentata. Invece i
meridionali non sono proprio andati a vederlo. Evidentemente sono meno cattolici
che al Nord”. Nient’altro. Allo stesso Bachmann qualche anno prima, nel 1965, per
fare un esempio di come il bisogno privi di libertà e cultura – tesi discutibile
– sceglie la Puglia, “un esempio che conosco bene”: “È sempre vissuta in uno
stato di estrema servilità…. E non ha prodotto un poeta, non ha prodotto un
pittore, non ha prodotto un filosofo. Non ha dato nulla”.
Il Sud gli resta remoto, malgrado
le frequentazioni. Al modo dei friulani, come dice Naldini in “Un paese di
temporali e fulmini”: “Per gli italiani del Nord i romani sono già un po’
arabi”. O come diceva un don Marchetti che Naldini cita, un sacerdote patriota
friulano, prima amico poi avversario di Pasolini, cui rimprovera in questo modo
lo scarso patriottismo localistico: “Un pizzico di Montale, di Quasimodo, di
Sinisgalli? Robaccia che ven da
promontoris (che viene dall’Italia meridionale)”.
In “Passione
e ideologia”, in una nota al saggio sulla poesia dialettale già apparso nel
1952 ne “Il Reame”, dice che non c’è romanticismo nella passione meridionale, né
pietismo nella bontà: “Uno studio sul «Romanticismo nell’Italia Meridionale» è
ancora da farsi e sarebbe assai interessante, se il Romanticismo rimane nel
Meridione pura applicazione di formule sentimentali e morali di natura
assolutamente contraria a quella indigena; nella cui fenomenologia psicologica
mancano quei caratteri «cristiani» immanenti al Romanticismo e che sono
tipicamente nordici. La «passione» meridionale non è un dato romantico: come
nella «bontà» del meridionale non c’è pietismo. La scena popolaresca o il fatto
di sangue «romantici» hanno nel Meridione il sapore del mimo o della tragedia
greca, anche quando restano involuti nell’equivoco culturale” (il riferimento è
a Di Giacomo e altri romantici napoletani).
Un Sud già leghista
Il
poemetto “L’umile Italia”, spiega l’ottima voce “Pasolini” di Wikipedia,
“apparve nell’aprile del 1954 su “Paragone-Letteratura” e rappresenta la
contrapposizione tra la cupa tristezza dell'Agro romano e la limpida luminosità
del settentrione. Il Nord, il cui emblema sono le rondini, è puro e umile e il
Meridione è “sporco e splendido”, ma: “È necessità il capire/ e il fare: il
credersi volti/ al meglio”, cercando di lottare pur soffrendo senza lasciarsi
andare alla “rassegnazione - furente marchio/ della servitù e del sesso -/ che
il greco meridione fa/ decrepito e increato, sporco/ e splendido”.
È questa una figura del linguaggio, “sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica chiamava sineciosi”, annota Fortini, che la dice “la più frequente figura del linguaggio di Pasolini, “con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari”. Per non dire nulla, giusto un po’ d’irritazione?
Fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese – il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.
Uno degli epigrammi de “La religione del mio tempo”, sotto il titolo “Alla bandiera rossa”, è catastroficamente odioso:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano”.
Dove, anche della bandiera rossa, la degradazione non si sa se sia una sua insufficienza (colpa), o un suo effetto (delitto).
Nel 1975, nel famoso articolo delle lucciole sul “Corriere della sera”, Pasolini mette l’Italia all’inferno con la solita differenza: gli italiani “sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo. La borghesia “è forse la peggiore d’Italia: appunto perché in essa c’è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili”. E con essa la gioventù: “Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti”.
È questa una figura del linguaggio, “sottospecie dell’oxymoron, che l’antica retorica chiamava sineciosi”, annota Fortini, che la dice “la più frequente figura del linguaggio di Pasolini, “con la quale si affermano, d’uno stesso soggetto, due contrari”. Per non dire nulla, giusto un po’ d’irritazione?
Fa sempre una distinzione netta fra “Italia del Nord” e “Italia del Sud”. I giovani sono “del Nord” e “del Sud”. La storia lo è. È diverso l’operaio della Breda da un disoccupato romano o un bracciante calabrese – il che è solo ovvio ma non in virtù dei meridiani: che ha in comune l’operaio della Breda con i contadini di Olmi? Anche se molto, poi, ce l’hanno in comune, tutti questi simboli.
Anche il fascista è diverso al Nord e al Sud, Pasolini spiega il 19 novembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in “Le belle bandiere”, p.83), a proposito dei suoi “amici” friulani: “Mentre si può dire quasi con l’assoluta certezza che un fascista centro-meridionale è un disonesto, un profittatore, o, nel migliore dei casi, uno che si arrangia servendo, questo giudizio non vale sempre per un fascista settentrionale, e, nella specie friulano. Spesso, nella condotta, nel lavoro, nella vita privata i nazionalisti o fascisti di lassù sono delle persone oneste e inappuntabili”.
Uno degli epigrammi de “La religione del mio tempo”, sotto il titolo “Alla bandiera rossa”, è catastroficamente odioso:
“Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano”.
Dove, anche della bandiera rossa, la degradazione non si sa se sia una sua insufficienza (colpa), o un suo effetto (delitto).
Nel 1975, nel famoso articolo delle lucciole sul “Corriere della sera”, Pasolini mette l’Italia all’inferno con la solita differenza: gli italiani “sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.
Il Sud di Pasolini è Napoli e la Calabria. Di Napoli apprezza tutto, anche il manolesta che gli ruba il portafoglio in un rapporto intimo. Della Calabria gli dà fastidio quasi tutto, malgrado lo stretto rapporto con Ninetto Davoli. Più per esteso ne parla il 10 dicembre 1960 su “Vie Nuove” (ora in Le belle bandiere”, pp. 90-92): “Tra tutte le regioni italiane la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali”. Ed è stata, “oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata”, per millenni: “Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata». Un millenario complesso d’inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall’abbandono, dalla miseria”. E poiché “i «complessi» psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità”, i calabresi “sono molto infantili e ingenui”. Questo per quanto riguarda il popolo. La borghesia “è forse la peggiore d’Italia: appunto perché in essa c’è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili”. E con essa la gioventù: “Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti”.
Il concetto del complesso aveva enucleato l’ottobre 1959
rispondendo al l’1 ottobre al dottor Pasquale
Nicolini, ufficiale sanitario di Paola, che aveva lamentato lr frasi ingiuriose
scrite da Pasolini su “Successo” di settembre, nel suo periplo delle coste
italiane: “Mi dispiace dell’equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del
vostro «complesso di inferiorità», della vostra psicologia patologica (adesso
non si offenda un’altra volta!), della vostra collettiva angesi, o mania di
persecuzione”. Lasciandosi alle spalle nel suo periplo fulmineo, qualificava il
Sud “cafarnao sterminato, brulichio di miseri, di ladri, di
affamati, di sensuali, pura e oscura riserva di vita”.
In “Empirismo
eretico” (“Appunti en poète per una linguistica marxista”) Pasolini è a
Pescasseroli con Ninetto Davoli sedicenne, che per la prima volta vede la neve.
Il divertimento del ragazzo, “il Ninetto di adesso a Pescasseroli”, gli viene
da collegare “al Ninetto della Calabria area-marginale e conservatrice della
civiltà greca, al Ninetto pre-greco, puramente barbarico, che batte il tallone
a terra come adesso i preistorici, nudi Denka del Sudan” - per Pasolini sempre
la Calabria è Africa.
Povera antropologia
Pasolini ha un
senso molto vivo dell’altro, ma molto riduttivo. Ha la tradizione in grande
stima. Ma per gli sfigati, che vede primitivi. Lo stesso atteggiamento riduttivo,
benché di buona volontà, ha infatti per il Terzo mondo.
All’inizio del 1975 dal “Mondo” milanese scrive a Gennariello per fargli la
morale. A un ragazzo che non è un napoletano ma il napoletano, “simpatico”.
Pasolini e il settimanale della borghesia scrivono dunque alla macchietta del
napoletano, e perché? Perché a Napoli “sono rimasti gli stessi di tutta la
storia”. Il poeta ben sapeva che borghesi e proletari, le loro storie si erano
unificate nel consumo, anche violento. Ma per Napoli fa un’eccezione: “Un
giorno mi sono accorto che un napoletano, durante un’effusione, mi stava
sfilando il portafoglio; gliel’ho fatto notare, e il nostro affetto è
cresciuto”, scrive. Indiscutibile, se l’“effusione” è durata “un giorno”. Ma sul
dileggio? L’’“affetto” è per “un napoletano”, non per un ragazzo ma per una
generalizzazione, un codice.
Tutta l’antropologia di Pasolini è povera, se si leggono “L’odore
dell’India”, “Il padre selvaggio” e “Appunti per un’Orestiade africana”.
Provinciale, da vacanze intelligenti. Diversi sono questi mondi nei film (non
negli “Appunti per un’Orestiade”, documentario avulso in realtà dall’Africa),
dove prevale la sua forte capacità pittorica, di dire (e di vedere) in
immagini.
È anche da dubitare, lui che voleva bene ai contadini con la zappa, che
abbia mai visto la povertà reale. Che ha incrociato, così diffusa e aggressiva
in Africa, in India, e presumibilmente nel Friuli della giovinezza, ma senza
vederla. O che l’abbia vista ma non vissuta, il sudore, i calli, il fango, la
schiena rotta.
Che il suo non sia virtuismo piccolo borghese, che non può fare a meno del
patetico, in chiave vittimistica, la forma peggiore di spregio dell’oggetto?
Con la cresta neo realista, che i poveri fa scemi, la povertà destino e
dannazione. Le istruzioni a Gennariello infittiva di un “proverbio sublime” di
un “amico di Chiaia”, il quartiere dei buoni: “Il mondo è dei buoni, ma i
cojoni se la godono”. Una quadruplice impostura. Perché non è un proverbio.
Perché “il mondo è dei buoni” è costruzione toscana, dell’italiano Rai-manzoniano
che Pasolini deprecava, e non napoletana, né lo sono i cojoni. Perché i
coglioni non godono in realtà. E perché, se anche fosse, non sarebbe sublime.
Era anche un momento particolare per Pasolini, che di lì a poco morirà
assassinato. Il sesso libero, ora non più perseguito, lo irritava – malgrado gli
eccessi notturni al Prenestino di cui in “Petrolio”, o forse per questi. Ripudiando
la Trilogia della vita, bollava i nudi, napoletani, arabi, d’“immondizia
umana”. Ma, se cambiava spesso idea, sul Sud no: lo stereotipo è stato fisso.
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