Sudismi\sadismi
“Il Sud «doppiato» perfino da Cipro ed
Estonia. In un solo decennio il pil pro capite del Mezzogiorno superato e doppiato
da tutti”: è il “cavallo di razza” Gian Antonio Stella su “Sette”. Nella
rubrica settimanale, che apre la rivista del “Corriere della sera”, sulle
malefatte del Sud. Che, “per capire il perché”, aggiunge, “occorre visitarlo
come fece Zanardelli nel 1902”. Come? “Su un carro di buoi o a dorso di mulo”.
Milano
Ha un quarto dei senzatetto d’Italia:
erano il 27,5 per cento nel 2011, sono ora il 23,7. Li attira? Li respinge?
Maroni fa assumere la fidanzata a questo
e a quello, da ultimo all’Expo, per centomila euro l’anno, e la impone nei suoi
viaggi, spesata, argent de poche compreso.
Senza scandalo. C’è qualche inchiesta, ma se ne parla poco, malvolentieri, è
giusto un atto dovuto.
La Scala chiude in pareggio ogni anno, e
si osanna per la gestione virtuosa. In calo di pubblico, malgrado l’offerta
moltiplicata. E a costi crescenti, malgrado faccia solo riprese, niente novità.
Il bilancio è coperto dallo Stato, dagli enti locali, e dalle fondazioni
bancarie - la ex Caripolo di Guzzetti eroga ben sei milioni. Un esempio preclaro
di quanto fa la stima di sé.
Il sovrintendente “internazionale” di
cui la Scala si era dotata negli anni dell’abbandono del pubblico, Stéphane
Lissner, veniva compensato con 800 mila euro.
Roberto Vecchioni va all’università di
Palermo, accolto calorosamente, e
dichiara l’isola “di merda”: “È inutile che ti mascheri dietro il fatto che hai
il mare più bello del mondo. Non basta. Sei un’isola di merda…”. Ma i
professori se la sono voluta, che hanno illustrato Vecchioni a Palermo come
musicista, poeta e milanese, ma non un Battiato per esempio, che è pure
filosofo. Esempio preclaro di quanto fa l’odio-di-sé.
Per Vecchioni è solo un po’ di pubblicità,
gratuita. Che infatti ci specula. A un festival di Sanremo si è promozionato
come rappresentante della canzone napoletana. Accorto, bisogna dire, vedendo che il festival trascura la canzone
napoletana.
Anche questo è molto milanese, afferrare
l’opportunità. Molto ritardo del Sud è dabbenaggine.
Per quanto, Vecchioni non ha fatto che copiare
Adinolfi, il blogger di radio Maria e dell’“Osservatore Romano”, candidato a sindaco
di Roma e a segretario del Pd, che è romano. Adinolfi disse di merda la Campania.
È vero però anche che Milano copia, è la sua forza.
Merda subito dopo pure alla Scala – sarà
l’aria di Milano? I registi di “Giovanna d’Arco” ingiuriano il maestro Chailly
dopo la prima: “Complimenti, stronzo di merda”.
Ma Milano assolve i registi: si è sempre
litigato alla Scala. Natalia Aspesi lo intima su “Repubblica”: “Comunque tutti
zitti adesso, in stile scaligero”. Omertà?
Si tace anche che, dopo la “Giovanna
d’Arco” nel 1845, Verdi evitò la Scala, il “suo” teatro, per quarant’anni.
“Giovanna d’Arco” era alla Scala un allestimento
nuovo, dopo tante riprese. Ma come se fosse una pesca miracolosa dopo centocinquant’anni
di oblio, mentre è stata rappresentata al San Carlo di Napoli e al Regio di
Parma qualche anno fa. E a Salisburgo, con gli stessi protagonisti, appena due
anni fa. Con lo steso sovrintendente ora alla Scala. Milano si dice le bugie, e
ci crede.
Però, la merda come titolo d’onore –
contro Chailly che è un milanese gentiluomo e un musicista? Allo “stronzo di merda”
è scattato perfino un applauso. Dietro le quinte, è vero – i due registi “internazionali”
avevano un seguito di una diecina di persone, che si portavano dietro in palcoscenico
per i non meritati applausi Milano in effetti è provinciale. .
Chailly evita la “cena istituzionale”
dopo la rappresentazione. Dove invece presenzia l’apostrofante ciarliero. La
merda a cena? Istituzionale?
Due giorni dopo l’insultatore, Moshe
Leiser, insiste: Chailly ha interferito con la regia. Che è la parte debole,
debolissima, della messa in scena. Leiser e il suo compagno Caurier volevano
far cantare il tenore col sedere per aria. Per irridere la santa Giovanna? O il
giovane re francese, che invece è ricordato come il Vittorioso, il liberatore
della Francia? Ma il suono non viene bene in quella posizione.
Milano, ancora, non ha preso posizione.
“L’immensa solitudine che solo Milano
riesce a farti provare”, e del fotografo Masiar Pasquali, “La Lettura”, 22
novembre 2015
Autobio
- Pentiti in vacanza
Siamo in gita a Roccella un giorno
d’estate. È un privilegio di abitare l’Aspromonte, di poter fare il bagno sul
Tirreno o sullo Ionio. Allo stabilimento “Dal naso al cielo”, dove il gestore
si offre anche di fare da mangiare. All’ora di pranzo siamo gli unici
avventori, e ci apparecchia accanto a un signore corpulento già a tavola, sotto
un ombrellone a palma artificiale, su una piccola duna della spiaggia. Fa senso
in uno spazio ampio essere accostato a un estraneo, ma il gestore è solo, vorrà
risparmiare sugli andirivieni, e va bene così.
Lo stabilimento è mobile, giusto per la
stagione. Il gestore è un ragazzo, è lui che l’ha aperto, e ha pochi
ombrelloni, spaziati, pochissime sdraio, niente lettini. Non c’è del resto
nessuno in spiaggia, oltre noi. E un gruppo di quattro giovani signore,
nerissime, in bikini, che tacciono perlopiù: si fanno compagnia in silenzio, le
borse a tracolla, le mani sulle borse gonfie. È il ragazzo che ha messo allo
stabilimento il nome pirandelliano, “Dal naso al cielo”, ma non vuole parlarne.
La duna sulla spiaggia sembra creata. Recintata
con uno steccato basso, in legno, colorato, puramente decorativo. Siamo sotto il
castello dei vecchi signori di Roccella, i napoletani Carafa, che diedero anche
qualche papa, tra essi il sapiente e infausto Paolo IV. È fine agosto, l’aria
limpida, non c’è afa, che lungo lo Ionio è temibile, è solo lunedì, ma sembra
un’altra epoca rispetto a sabato, l’ultimo giorno prima del controesodo – la
stagione qui dura un paio di settimane.
Il vicino di desco si palesa un giovanotto, avrà
al più ttent’anni. Ma corpulento e già vecchio, per qualcosa di indefinibile
nei tratti. Ogni pochi minuti gracchia perentorio con voce sgradevole,
gutturale, il napolitano verace. A ogni suo urlo, si sommuove l’ombrellone
sottostante, delle quattro giovani signore abbronzate. Che però non sembrano di
quelle. Prosperose in bikini ma senza appeal, sciatte e curate
insieme. Non si noterebbero, se non per l’irrequietezza, spostarsi, sedersi,
alzarsi, sparire, ricomparire, sempre con la borsa a tracolla, che attrae
l’attenzione e fa passare il momento, del resto non lungo, del pranzo, tra
insalate pronte. Il tutto con un senso fastidioso però di già visto. Di cose
sapute, sentite o viste, che non si riesce a focalizzare.
Questo avveniva nel 1997, o nel 1996. Dieci o
quindici anni dopo, nelle foto di un processo, l’omone ha preso un nome, e più
per l’aria sprezzante, più napolitana della lingua, che per la fisionomia. Era
il famoso Pasquale Galasso, un capo camorrista pentito. Che lo Stato dunque, con
quattro poliziotte in bikini, proteggeva in vacanza. Roccella all’epoca era per
questo diventata sede di una compagnia, o battaglione, o semplice reparto, di
Pubblica sicurezza. Una sorta di casa di vacanza, a turno, per i poliziotti, in
qualità di guardie dei pentiti.
In precedenza, tutti i politici locali erano stati arrestati o accusati per complicità mafiose, e lo scagionamento si faceva con lentezza e di malavoglia. Retrospettivamente la scena è più sapida: il capo camorrista servito dalle forze dell’ordine, i solerti amministratori in carcere, indebitati con le banche per pagare costose parcelle agli avvocati contro le forze dell’ordine.
In precedenza, tutti i politici locali erano stati arrestati o accusati per complicità mafiose, e lo scagionamento si faceva con lentezza e di malavoglia. Retrospettivamente la scena è più sapida: il capo camorrista servito dalle forze dell’ordine, i solerti amministratori in carcere, indebitati con le banche per pagare costose parcelle agli avvocati contro le forze dell’ordine.
Anche il giovane gestore si è configurato, che teneva sulla sdraio un oscar
con la raccolta pirandelliana intitolata come lo stabilimento, della quale non
voleva parlare. Sarà stato un letterato,
i poliziotti ormai sono tutto, poeti, musicisti, romanzieri, filosofi anche –
Pizzuto lo era, il filosofo del linguaggio. Oppure sarà stato un finto
letterato. Come era un finto gestore e forse un finto giovane – c’è un Oscar col
titolo “Dal naso al cielo”? Sì, c’è, con un’introduzione e una bibliografia di Corrado
Simioni, ma Simioni è un’altra storia (o è la stessa: Simioni “esercitava” a
Parigi come il giovane biondo a Bucarest, e il giovane poco loquace a
Roccella?) Solo il crimine è reale e s’impone, il resto è vago.
Questo Galasso all’epoca aveva quarant’anni. Nato da buona famiglia, un concessionario Fiat, era al secondo anno di medicina quando aveva ucciso due camorristi, che erano venuti a rapirlo, o a rapire il padre. Aveva rubato l’arma a uno dei due e li aveva sparati. Incarcerato a Poggioreale, vi aveva frequentato i migliori camorristi degli anni 1980, da Raffaele Cutolo in giù. Optando infine per i concorrenti di Cutolo, la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri, con la quale fu coinvolto nell’assassinio del luogotenente dello stesso Cutolo, Vincenzo Casillo, fatto saltare con una autobomba. Casillo era confidente dei servizi segreti “deviati”. Galasso si pentì, e diventerà l’accusatore della Dc napoletana di Gava, e di tutta la corrente dorotea della Dc, che Gava, allora broker dei governi, rappresentava. Lo stesso Gava che poi è morto di sfinimento, per la difficoltà di difendersi, seppure con successo.
Dopo Galasso, anche Alfieri si pentì. Nella primavera del 1993, a Bucarest per un’intervista al presidente Ion Iliescu, che intendeva avviare la Romania verso l’Unione europea, i suoi uomini alludevano sorridendo a un viaggiatore abbonato alla rotta Roma-Bucarest, Carmine Alfieri.
Nessuna sorpresa. Nell’attesa di Iliescu, per una settimana l’inviato
speciale era stato preso in consegna dai servizi rumeni. Gentilmente, con gite
ai Carpazi e altrove, da una gentile signorina bionda poliglotta. Nonché da un
connazionale di nessun mestiere, un gigante biondo con molte donne al seguito,
una delle quali gli stava dando una bambina e lui si proponeva di sposare, tra le
amiche felici per lei, con ufficio in centro, piccolo ma vuoto, senza targa né
altro segnale di attività, dove scarabocchiava su carta intestata col tricolore
e motti dei Carabinieri. Come uno di quelli che avrebbero voluto ma l’Arma non
li ha presi. Oppure uno in servizio permanente effettivo sotto copertura
all’estero, il nostro agente a Bucarest. Riccioluto, miope ma senza occhiali, e
molto eretto: un giovane ufficiale dei Carabinieri in borghese. Magari aveva
proprio l’incarico di seguire
gli andirivieni di Alfieri. Ma perché allora non lo arrestavano, un così
temibile capo camorra?
Fu il cruccio del soggiorno in Romania. Per il resto concluso felicemente:
Iliescu,
occhiali scuri grandi permanenti sugli occhi, riuscirà rapidamente a portare la
Romania nella Ue. Dieci anni dopo era cosa fatta, e senza norme transitorie –
Iliescu già sapeva che le decisioni in Europa si prendono a Berlino. Il cruccio invece era ignoranza: lo specialista
di politica estera non si occupa di cronaca nera.
Succede – succedeva nel giornalismo fino a qualche tempo fa – di non occuparsi mai di alcune cose: chi faceva cronaca giudiziaria non si occupava di politica estera, per la quale ci vogliono le lingue. O viceversa: lo specialista di politica estera non si occupava di giudiziaria. Felicemente, bisogna dire – la giudiziaria è un trojajo.
Una sola volta è capitato di dover
fare la giudiziaria, ad agosto del 1980. Un po’ per sostituzione estiva – d’agosto
i giornali sono sguarniti – e un po’ per
tribalismo, consumandosi il fatto in Calabria. Il giudice Francesco Colicchia,
dirigente pro tempore del Tribunale di Reggio Calabria nella sessione feriale,
mise in allarme i cassieri d’Italia. Imponendo che si registrassero tutti i
versamenti o i ritiri in biglietti da centomila. Irriso unanimemente, il
giudice Colicchia si difese con semplicità: “Si sta per effettuare il
pagamento di un riscatto e devo poter arrivare ai rapitori”.
Era a parlarci di spirito vivacissimo, il dottor
Colicchia, e coraggioso. Nel gennaio 1978 aveva fatto condannare una ventina di
‘ndranghetisti teorizzando il delitto di associazione mafiosa, che trovava
molti ostacoli al riconoscimento giuridico. Quell’anno i rapimenti di persona
scesero da una media di 8-10 l’anno a 1. Il colonnello dei Carabinieri Morelli,
che comandava la Legione di Reggio Calabria, agevolò molto il lavoro del
cronista. Di cui approfittava, quasi segregandoselo, anche lui, per perorare
come Colicchia il delitto di concorso in associazione mafiosa e il controllo
dei conti bancari. L’associazione mafiosa
fu poi introdotta, nel 1982, con la legge La Torre-Rognoni, ed è costata la
vita al suo proponente, il deputato siciliano del Pci.
Il giudice Colicchia morirà anche lui pochi anni dopo.
Dicono di crepacuore. Una cosca di Seminara, il suo paese, sotto processo per
un rapimento di persona, ottenne il trasferimento del giudizio da Palmi a
Reggio, e Colicchia, cui toccò di giudicare il caso, li assolse. Poi morì. Il colonnello
Morelli ha dovuto lasciare
l’Arma, perché bloccato nella carriera. Il sostituto Procuratore della Repubblica
Guido Papalia, un amico d’infanzia che fu di grande aiuto anche lui nella
piccola inchiesta, inviso ai maggiorenti della Procura e del Tribunale perché
indagava la corruzione in affari di Raffaele Ursini (il famoso impianto
Liquichimica della bistecca sintetica a Saline Joniche, che dopo quarant’anni ancora
fa danni, milioni persi ogni anno), dovette lasciare Reggio, e optò per Verona. Le mafie portano sfortuna.
Alfieri in realtà era già stato arrestato, l’11
settembre del 1992, e all’epoca dell’intervista probabilmente era un pentito. I
collaboratori di Iliescu insistevano che da tempo Alfieri viaggiava liberamente
a Bucarest. Naturalmente potevano barare. Anzi, senz’altro baravano, per loro
scopi reconditi. Ma perché inventarsi proprio Alfieri, che ai più, anche non
giornalisti di politica estera, era sconosciuto? Volendone fare un romanzo,
Galasso e Alfieri sarebbero camorristi infiltrati dei servizi segreti “buoni”.
leuzzi@antiit.eu
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