A
prima vista viene da ridere: l’operaismo ricondotto alla teologia - il
sottotitolo è “la teologia come lingua della politica”. Effetto del Muro, della
caduta del Muro, e delle illusioni. Ma l’intento è nobile: come ridare autonomia
alla politica – Tronti, autore acclamato di “Operai e capitale”, 1966, oggi a 84 anni felice senatore Pd, è anche autore di uno schmittiano
“L’autonomia del politico”. Ridare dignita alla politica, riconquistare la
libertà perduta nel liberismo, e nella confusione mentale.
Il
testo è una spremuta di un corso tenuto all’Istituto di Studi Filosofici di
Napoli nel 2010, sul tema “Una teologia politica contro la crisi della
politica”. E Tronti lo dedica alle “giovani generazioni, se ce ne saranno ancora,
di intellettuali politici”. Non un fishing
for compassion.
La
teologia politica è la pratica ideologica – assolutista, esclusiva, risolutiva.
Ma una cosa è la “teologia politica” di Carl Schmitt, cap. III del libro dallo
stesso titolo, 1922, poi 1933: “Tutti i concetti più pregnanti della moderna
dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”. Un’altra è la
teologia politica di Tronti, che resta in questo marxiano: uno che “pensa per
capire, ma capisce per cambiare”. Alla teologia issandosi col messianesimo.
Che
lo Stato mimi – senza saperlo - la chiesa non è però una novità di Schmitt. È
parte della vecchia polemica legittimista, e lo stesso Schmitt lo riconosce.
Che si rifà ai polemisti cattolici dell’Ottocento, Bonald, De Maistre (Joseph),
e Donoso Cortés – che Schmitt eleva a “Hobbes dell’Ottocento”. Tronti ne è folgorato.
Ma non per scherzo – non perché è la deriva politica e ideologica del suo
partito Democratico. Come De Maistre, trova “infallibilità” e “sovranità”
“perfettamente sinonimi”.
Teologia, morale e politica
È difficile
non concordare col Donoso di Schmitt: “Egli vede che con il teologico scompare
il morale, e con esso l’idea politica, e ogni decisione morale e politica viene
paralizzata nell’aldiquà paradisiaco di una vita immediata e naturale, e di una
corporeità libera da problemi”. Il
lettore di giornali ci ritrova la semplicioneria sua quotidiana. Se non che la
via d’uscita non può essere la teologia, sia pure umanizzata – o, come usa oggi,
“naturalistica”, cioè affaristica..
Ma
Schmitt è solo la partenza, Tronti lo usa per arrivare a Benjamin, che riflette
su Schmitt, e sulla contestazione che a Schmitt subito pose Erik Peterson, lo
specialista di patristica convertito cattolico, come lo era sempre stato Schmitt,
“Il monoteismo come problema politico”, 1935. Il messianismo come spirito
dell’utopia (E.Bloch) è della rivelazione (Benjamin): il Messia è colui che
compie la storia vincendo l’Anticristo - il male, l’oblio della tradizione, che
invece va ”in ogni epoca” strappata “al conformismo”. Un percorso “dal teologico
al politico attraverso il messianico”. Se non che, conclude Tronti, siamo negli
anni Venti-Trenta, “il tragico invade la Storia: non l’abbassa, la solleva.
Benjamin è arrivato da Bloch a Marx: cammino perfetto. Bloch senza Marx non
funziona come non funziona Marx senza Lenin”. Che non è vero, Marx funziona
senza Lenin.
Ma
dove siamo finiti, suppostamente via Benjamin? A un Benjamin che da teologo
politico approda a politico teologo. Senza colpa, è vero, di Tronti. È di
Benjamin, “I «passages» di Parigi”, “l’intenzione di dimostrare un materialismo
storico che ha annichilito in sé l’idea di progresso”. Di più, è un Benjamin
leninista quasi mussoliniano, gentiliano: “Proprio qui il materialismo storico
ha tutte le ragioni per distinguersi nettamente rispetto alle forme tradizionali del pensiero
borghese. Il suo concetto fondamentale non è il progresso, ma
l’attualizzazione”. Il Benjamin del Diamat fa solo pena, per la tragedia di
cui fu vittima.
Qui
casca insomma Tronti: “Il Novecento realisticamente è il sole dell’avvenire.
Benjamin è vivo e lotta insieme a noi”. Però, questo è vero: “I nomi che qui
chiamiamo in campo - Schmitt, Benjamin, Taubes - hanno questo in comune: sono
pensatori del tempo, del proprio tempo”. Per questo soprattutto apprezzabili,
ma anche fertili: “Solo chi apprende col pensiero il proprio tempo è pensatore für ewig”. Essi pongono “il grande tema
di nichilismo e potere. Un tema di sconcertante attualità, una delle
«regolarità» della storia. Un’eredità post-novecentesca che attende ancora di
essere appresa”. Tronti ci prova, di fare “una sorta di «Per la critica della
teogia politica» sul modello della marxiana «Per la critica dell’economia
politica»”. Ma surrettiziamente desiste.
Escatologia occidentale
Tra Schmitt e Benjamin media Taubes - il
Taubes della “Teologia politica di san Paolo”, mediato a sua volta da Elettra
Stimilli. Rabbino filosofo ma scrittore gradevole, e un personaggio, con una
storia. Rettore della Freie Universität di Berlino nel ’68, ebbe contestazione
terribile da Rudi Dutschke e altri inflessibili. Che gli bruciarono l’insegna
dell’unversità, a lui l’“apocalittico
della rivoluzione”, del Dio che gioca a dadi, condannandoci in anticipo o
redimendoci – gliela bruciò uno studente Teufel, il diavolo. A Dutschke diede, da sinistra, il precetto che Paratore dava ai contestatori
a Roma, d’imparare
il latino – in altra occasione lamenterà che a
Parigi tutti vogliono lavorare su Heidegger, o su Nietzsche, anche quelli che
non sanno il tedesco. Figlio di un grande rabbino, che si era salvato negli
anni bui a Zurigo, fu ordinato anche lui rabbino, nel 1943. Ma mentre redigeva per
il dottorato una “Escatologia
occidentale” in cui rifà in chiave nichilista l’”Apocalisse dell’anima tedesca”
del suo maestro cattolico Urs von Balthasar. Il nichilismo che è la sconfitta -
il nichilismo è saggezza di Campanile,
Achille: tutti fabbrichiamo un morto, ciascuno il suo. Un ermeneuta, esploratore dei
sensi nascosti. “In divergente accordo”, subito poi, col decisionista Schmitt. Nonché
beneficiario, dopo Max Frisch, degli ardori di Ingeborg Bachmann, la poetessa.
Taubes era anche venuto, con Scholem, alla conclusione che “un tedesco è un tedesco, e un ebreo è un ebreo”, e che un ebreo non si può dire “tedesco di confessione ebraica, idiozia odiosa e indegna”. Della teologia politica diffidava – dell’ebraismo disse, lui rabbino: “È teologia politica, questa è la sua «croce»”. Ma a volte ce n’è bisogno. Schmitt apprezzava perche “apocalittico antiapocalittico”.
Taubes era anche venuto, con Scholem, alla conclusione che “un tedesco è un tedesco, e un ebreo è un ebreo”, e che un ebreo non si può dire “tedesco di confessione ebraica, idiozia odiosa e indegna”. Della teologia politica diffidava – dell’ebraismo disse, lui rabbino: “È teologia politica, questa è la sua «croce»”. Ma a volte ce n’è bisogno. Schmitt apprezzava perche “apocalittico antiapocalittico”.
Di
Carl Schmitt, altro esito pratico, Taubes aveva individuato con semplicità,
sotto le interminabili discussioni, il punto debole, della tesi basica Amico\Nemico:
“Se non si ammette che tra gli uomini la guerra poi porta alla pace, essa diventerà
sempre più violenta, brutale, sfrenata”. Esito cui convenne lo stesso epurando
Schmitt di “Ex captivitate salus”, la salvezza dalla cattività: “Il nemico è la
figura del nostro stesso problema”. Sostenne poi Schmitt, in contesa con lo
stesso Taubes sul concetto nuovo del tempo e della storia che si apre con il
cristianesimo in quanto escatologia: “Il regno cristiano è ciò che arresta (kat-echon)
l’Anticristo”. Si cambia il mondo con giudizio: “Per un cristiano delle origini
la storia è il kat-echon, la fede in qualcosa che arresti la fine
del mondo”. Spiega Taubes: “Solo attraverso l’esperienza della fine della
storia la storia è diventata una «strada a senso unico», quale si rappresenta
la storia occidentale”. Non un buon esito
I “Quaderni neri”
Una
rivendicazione di Carl Schmitt, da parte di Tronti ex operaista. Contro “lo storicismo dell’idealismo, lo
scientismo del positivismo”. Col supporto di Benjamin e Taubes. Con qualche
questione incidentale curiosa. Una è se Benjamin si può dire un marcionita
moderno. Intendendo Marcione come colui che “inventò” la gnosi. Mentre non la
inventò. Ma negò il Vecchio Testamento, e questo sicuramente non è Benjamin, in
nessuna forma, né innata, di linguaggio, mentalità, vocabolario mentale,
eccetera, né di programma.
Nello
stile diretto di Taubes, che mima, Tronti ne esuma anche una lettera a Arwin
Mohler che meglio di tutto inquadra i “Quaderni neri” – lo scandalo prestuoso
che oggi se ne fa, bella scoperta: “«Ex captivitate salus»”, il dialogo postbellico
– non risarcitorio: niente scuse – tra Schmitt e Heidegger sulle rispettive
colpe, è “un resoconto sconvolgente di come i due abbiano accolto con
soddisfazione la «rivoluzione» nazionalsocialista, che addirittura vi abbiano
«preso parte»” – abbiano potuto, con tutta la loro sapienza, di pensatori profondi
e uomini adulti. E ancora: “Se solo M.H., una volta che il discorso da rettore
del 1933 è rimasto davanti agli occhi di tutti, oltre a qualche altra cosa
(….), avesse avuto il coraggio di
giudicare se stesso allo stesso modo, avrebbe indicato alla gioventù tedesca in
cerca di orientamento una via migliore del Feldweg,
il sentiero di campagna”, la ritirata.
Il
progetto di Tronti, ribadito in fine, non può che essere auspicabile: “Nella
libertà politica, «attuale» forma di oppressione, va colta la possibiltià,
rivoluzionaria, che giunga a compimento il progetto antico di liberazione umana”.
Come no.
Di
sé Tronti dice, nelle interviste: “Sono sconfitto, non un vinto. Però abbiamo
perso non una battaglia ma la guerra del Novecento”.
Mario
Tronti, Il nano e il manichino,
Cstelvecchi, pp. 61 € 7,50
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