sabato 19 dicembre 2015

Dio salvi la politica con un messia

A prima vista viene da ridere: l’operaismo ricondotto alla teologia - il sottotitolo è “la teologia come lingua della politica”. Effetto del Muro, della caduta del Muro, e delle illusioni. Ma l’intento è nobile: come ridare autonomia alla politica – Tronti, autore acclamato di “Operai e capitale”, 1966,  oggi a 84 anni felice senatore Pd,  è anche autore di uno schmittiano “L’autonomia del politico”. Ridare dignita alla politica, riconquistare la libertà perduta nel liberismo, e nella confusione mentale.
Il testo è una spremuta di un corso tenuto all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli nel 2010, sul tema “Una teologia politica contro la crisi della politica”. E Tronti lo dedica alle “giovani generazioni, se ce ne saranno ancora, di intellettuali politici”. Non un fishing for compassion.
La teologia politica è la pratica ideologica – assolutista, esclusiva, risolutiva. Ma una cosa è la “teologia politica” di Carl Schmitt, cap. III del libro dallo stesso titolo, 1922, poi 1933: “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”. Un’altra è la teologia politica di Tronti, che resta in questo marxiano: uno che “pensa per capire, ma capisce per cambiare”. Alla teologia issandosi col messianesimo.
Che lo Stato mimi – senza saperlo - la chiesa non è però una novità di Schmitt. È parte della vecchia polemica legittimista, e lo stesso Schmitt lo riconosce. Che si rifà ai polemisti cattolici dell’Ottocento, Bonald, De Maistre (Joseph), e Donoso Cortés – che Schmitt eleva a “Hobbes dell’Ottocento”. Tronti ne è folgorato. Ma non per scherzo – non perché è la deriva politica e ideologica del suo partito Democratico. Come De Maistre, trova “infallibilità” e “sovranità” “perfettamente sinonimi”.
Teologia, morale e politica
È difficile non concordare col Donoso di Schmitt: “Egli vede che con il teologico scompare il morale, e con esso l’idea politica, e ogni decisione morale e politica viene paralizzata nell’aldiquà paradisiaco di una vita immediata e naturale, e di una corporeità libera da problemi”. Il lettore di giornali ci ritrova la semplicioneria sua quotidiana. Se non che la via d’uscita non può essere la teologia, sia pure umanizzata – o, come usa oggi, “naturalistica”, cioè affaristica..
Ma Schmitt è solo la partenza, Tronti lo usa per arrivare a Benjamin, che riflette su Schmitt, e sulla contestazione che a Schmitt subito pose Erik Peterson, lo specialista di patristica convertito cattolico, come lo era sempre stato Schmitt, “Il monoteismo come problema politico”, 1935. Il messianismo come spirito dell’utopia (E.Bloch) è della rivelazione (Benjamin): il Messia è colui che compie la storia vincendo l’Anticristo - il male, l’oblio della tradizione, che invece va ”in ogni epoca” strappata “al conformismo”. Un percorso “dal teologico al politico attraverso il messianico”. Se non che, conclude Tronti, siamo negli anni Venti-Trenta, “il tragico invade la Storia: non l’abbassa, la solleva. Benjamin è arrivato da Bloch a Marx: cammino perfetto. Bloch senza Marx non funziona come non funziona Marx senza Lenin”. Che non è vero, Marx funziona senza Lenin.
Ma dove siamo finiti, suppostamente via Benjamin? A un Benjamin che da teologo politico approda a politico teologo. Senza colpa, è vero, di Tronti. È di Benjamin, “I «passages» di Parigi”, “l’intenzione di dimostrare un materialismo storico che ha annichilito in sé l’idea di progresso”. Di più, è un Benjamin leninista quasi mussoliniano, gentiliano: “Proprio qui il materialismo storico ha tutte le ragioni per distinguersi nettamente  rispetto alle forme tradizionali del pensiero borghese. Il suo concetto fondamentale non è il progresso, ma l’attualizzazione”. Il Benjamin del Diamat fa solo pena, per la tragedia di cui fu vittima.
Qui casca insomma Tronti: “Il Novecento realisticamente è il sole dell’avvenire. Benjamin è vivo e lotta insieme a noi”. Però, questo è vero: “I nomi che qui chiamiamo in campo - Schmitt, Benjamin, Taubes - hanno questo in comune: sono pensatori del tempo, del proprio tempo”. Per questo soprattutto apprezzabili, ma anche fertili: “Solo chi apprende col pensiero il proprio tempo è pensatore für ewig”. Essi pongono “il grande tema di nichilismo e potere. Un tema di sconcertante attualità, una delle «regolarità» della storia. Un’eredità post-novecentesca che attende ancora di essere appresa”. Tronti ci prova, di fare “una sorta di «Per la critica della teogia politica» sul modello della marxiana «Per la critica dell’economia politica»”. Ma surrettiziamente desiste.
Escatologia occidentale
Tra Schmitt e Benjamin media Taubes - il Taubes della “Teologia politica di san Paolo”, mediato a sua volta da Elettra Stimilli. Rabbino filosofo ma scrittore gradevole, e un personaggio, con una storia. Rettore della Freie Universität di Berlino nel ’68, ebbe contestazione terribile da Rudi Dutschke e altri inflessibili. Che gli bruciarono l’insegna dell’unversità, a lui l’“apocalittico della rivoluzione”, del Dio che gioca a dadi, condannandoci in anticipo o redimendoci – gliela bruciò uno studente Teufel, il diavolo. A Dutschke diede, da sinistra, il precetto che Paratore dava ai contestatori a Roma, d’imparare il latino – in altra occasione lamenterà che a Parigi tutti vogliono lavorare su Heidegger, o su Nietzsche, anche quelli che non sanno il tedesco. Figlio di un grande rabbino, che si era salvato negli anni bui a Zurigo, fu ordinato anche lui rabbino, nel 1943. Ma mentre redigeva per il dottorato una “Escatologia occidentale” in cui rifà in chiave nichilista l’”Apocalisse dell’anima tedesca” del suo maestro cattolico Urs von Balthasar. Il nichilismo che è la sconfitta - il nichilismo è saggezza di Campanile, Achille: tutti fabbrichiamo un morto, ciascuno il suo. Un ermeneuta, esploratore dei sensi nascosti. “In divergente accordo”, subito poi, col decisionista Schmitt. Nonché beneficiario, dopo Max Frisch, degli ardori di Ingeborg Bachmann, la poetessa.
Taubes era anche venuto, con Scholem, alla conclusione che “un tedesco è un tedesco, e un ebreo è un ebreo”, e che un ebreo non si può dire “tedesco di confessione ebraica, idiozia odiosa e indegna”. Della teologia politica diffidava – dell’ebraismo disse, lui rabbino: “È teologia politica, questa è la sua «croce»”. Ma a volte ce n’è bisogno. Schmitt  apprezzava perche “apocalittico antiapocalittico”.
Di Carl Schmitt, altro esito pratico, Taubes aveva individuato con semplicità, sotto le interminabili discussioni, il punto debole, della tesi basica Amico\Nemico: “Se non si ammette che tra gli uomini la guerra poi porta alla pace, essa diventerà sempre più violenta, brutale, sfrenata”. Esito cui convenne lo stesso epurando Schmitt di “Ex captivitate salus”, la salvezza dalla cattività: “Il nemico è la figura del nostro stesso problema”. Sostenne poi Schmitt, in contesa con lo stesso Taubes sul concetto nuovo del tempo e della storia che si apre con il cristianesimo in quanto escatologia: “Il regno cristiano è ciò che arresta (kat-echon) l’Anticristo”. Si cambia il mondo con giudizio: “Per un cristiano delle origini la storia è il kat-echon, la fede in qualcosa che arresti la fine del mondo”. Spiega Taubes: “Solo attraverso l’esperienza della fine della storia la storia è diventata una «strada a senso unico», quale si rappresenta la storia occidentale”. Non un buon esito
I “Quaderni neri”
Una rivendicazione di Carl Schmitt, da parte di Tronti ex operaista. Contro “lo storicismo dell’idealismo, lo scientismo del positivismo”. Col supporto di Benjamin e Taubes. Con qualche questione incidentale curiosa. Una è se Benjamin si può dire un marcionita moderno. Intendendo Marcione come colui che “inventò” la gnosi. Mentre non la inventò. Ma negò il Vecchio Testamento, e questo sicuramente non è Benjamin, in nessuna forma, né innata, di linguaggio, mentalità, vocabolario mentale, eccetera, né di programma.
Nello stile diretto di Taubes, che mima, Tronti ne esuma anche una lettera a Arwin Mohler che meglio di tutto inquadra i “Quaderni neri” – lo scandalo prestuoso che oggi se ne fa, bella scoperta: “«Ex captivitate salus»”, il dialogo postbellico – non risarcitorio: niente scuse – tra Schmitt e Heidegger sulle rispettive colpe, è “un resoconto sconvolgente di come i due abbiano accolto con soddisfazione la «rivoluzione» nazionalsocialista, che addirittura vi abbiano «preso parte»” – abbiano potuto, con tutta la loro sapienza, di pensatori profondi e uomini adulti. E ancora: “Se solo M.H., una volta che il discorso da rettore del 1933 è rimasto davanti agli occhi di tutti, oltre a qualche altra cosa (….),  avesse avuto il coraggio di giudicare se stesso allo stesso modo, avrebbe indicato alla gioventù tedesca in cerca di orientamento una via migliore del Feldweg, il sentiero di campagna”, la ritirata.
Il progetto di Tronti, ribadito in fine, non può che essere auspicabile: “Nella libertà politica, «attuale» forma di oppressione, va colta la possibiltià, rivoluzionaria, che giunga a compimento il progetto antico di liberazione umana”. Come no.
Di sé Tronti dice, nelle interviste: “Sono sconfitto, non un vinto. Però abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del Novecento”.
Mario Tronti, Il nano e il manichino, Cstelvecchi, pp. 61 € 7,50

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