Va
molto il genere emigrazione fine Ottocemto, dopo il successo di “Vita”, il
premio Strega di Melania G. Mazzucco a inizio millennio. Quindi annate di
“com’eravamo”, in genere in forma di selfie
familiari, per quanto approssimativi, di maniera, e infine monotoni. Fino al
produttore di cinema Valsecchi, che ora s’inventa una famiglia siciliana non
mafiosa a Brooklin. E alla “torsione” che Enrico Lamanna fa dei “Uno sguardo
del ponte” di Arthur Miller, pieando i protagonista alla similitudine e alla
solitudine. Questo “Emigramti” di Perri, che è stato il primo e a lungo l’unico
del genere, invece si segnala per l’onestà. E per una felice vena narrativa,
sfaccettata e non uniforme. Lo scrittore calabro-lombardo parla del suo paese,
Careri, sotto altro nome: un minuscolo borgo alle falde dell’Aspromonte che sa
animare di un’umanità viva e vivace.
I
compaesani in procinto di occupare le terre, l’autore-narratore dice “gente
d’ordine”. Di seguito aggiungendo: “Come tutti del resto in Calabria. La
Calabria è il paese classico dei briganti, ma in nessuna regione d’Italia si ha
tanto rispetto, o almeno tanta paura, dei poteri costituiti”. E così via,
niente è scontato. Un altro Aspromonte, oltre che un diverso
spirito migratorio, rispetto a quello successivo di Corrado Alvaro, che invece avrebbe
fatto la maniera - dolorifica.
Alla fine anche Rocco Bléfari, il “segnato” di “Emigranti”, ha una
resipiscenza, sotto forma di skaz col suo autore: “L’anima calabrese è
piena di contrasti. Profondamente, e quasi direi violentemente, buona, ha delle
singolari aridità. Tutti i buoni frutti del cuore, dalla ospitalità alla
fedeltà, dalla devozione al sentimento della famiglia, dalla resistenza al
dolore all’abnegazione, all’eroismo, in essa fioriscono spesso con un profumo
di poesia soavissimo. Eppure la vita dei Calabresi è triste, dolorosa, angusta.
Come il paesaggio, che, pur avendo tanti elementi di bellezza, non sembra
bello, o la sua grazia vela di una profonda e dolorosa malinconia”.
Francesco
Perri, Emigranti
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