giovedì 17 dicembre 2015

Il jihadismo è kamikaze

“La gioventù uscita dall’immigrazione postcoloniale contribuisce alla vittoria di François Hollande nel 2012”. Ma “il cambio di generazione dell’islamismo in Francia e la diffusione dell’ideologia del jihadismo”, grazie anche alle “reti sociali”, hanno prodotto una nuova faglia nel tessuto nazionale francese. Lo studioso del rifiuto islamico, e insieme sostenitore di un’identità nazionale che la cittadinanza islamica non indebolirebbe, non si fa illusioni. Il suo resta il libro di riferimento per conoscere la galassia jihadista - l’originale è il doppio dell’edizione italiana, che pure si ristampa ogni anno, con duecento pagine di note (in nota sono confinate definizioni e condizioni del jihad, ma è forse la sola bizzarria), un glossario, una mappa dellislam regione per regione, e un imponente indice dei nomi. Fa una mappa dettagliata delle varie confessioni puriste, corredata dai finanziamenti, molto imprtanti negli ultimi decenni – che quasi ovunque, “Londonistan” compreso, riconducono alla penisola arabica. Ma non ha fatto in tempo a licenziarne questa riedizione, il 4 novembre, che ha dovuto porre mano subito dopo a un supplemento, “Terreur dans l’Héxagone”, uscito l’altro ieri, quaranta giorni dopo, che presenta con queste parole.
La faglia dunque c’è - la nazione è un fenomeno complesso, che anzitutto richiede un’adesione. Ma non si è prodotta in due anni, è attiva in Francia da almeno vent’anni, lo stesso Kepel lo documenta. E come si può dire in declino se fa tanti danni e muove addirittura due guerre in questo momento, una Usa-Russia e una islamica?
La tesi che tiene insieme i fili della ricostruzione di Kepel è semplice. Il 1989 segna “l’apogeo dell’espansione islamista”. Khomeini muore, ma la sua fatwa fa tremare le cancellerie. Un regime islamista s’impadronisce del Sudan. Un Fronte Islamico s’impianta in Ageria , e subito la fa sua. In Palestina la laica Olp cede “alla componente islamista vigorosa di Hamas”. Nel mondo islamico, dappertutto sono necessarie concessioni all’opposizione che si richiama alla sharia, e l’ulema prende il posto dell’intellettuale laico. Ma anche al di fuori, “il movimento apre una breccia in Occidente, attraverso la prima generazione di giovani adulti nati da genitori immigrati”. Una spinta talmente dinamica che in Francia le celebrazioni del bicenteneraio della Rivoluzione sono oscurate dalle divisioni sul velo islamico. Il Muro di Berlino cade, dopo che le forze jihadiste hanno sconfitto l’Armata Rossa in Afghanistan. Il 15 febbraio 1989, fine dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, , è il triondo saudita, dell’islam sunnita da cui germoglieranno Bin Laden e l’Is. Ma la vigilia è ancora più trionfale, per Khomeini, il nemico dei sauditi: la sua fatwa contro Rushdie, un europeo, un inglese, chiama al jihad i mussulmani di ogni cittadinanza, gli “empi” non vanno più cercati all’interno della comunità di fede – la minaccia fu sterile, ma ebbe vasta risonanza, perché Khomeini aveva fatto eliminate nel decennio moltissimi oppositori in Occidente.
Bene, ma perché il 1989 è il punto di massima espansione, l’apice di una curva che poi declina?
Declino
Kepel mantiene questo parere anche nella revisione del testo dopo l’11 settembre – lo ha rivisto nel 2002 sull’edizione americana, meglio impaginata della sua propria, aggiornandola agli ultimi eventi. L’islam militante non ha mostrato, malgrado la spettacolarità delle Torri Gemelle, la capacità di “suscitare manifestazioni politiche e pressioni finalizzate alla conquista del potere”. Le primavere arabe prima, agite dai Fratelli Mussulmani, e poi l’Is impiantato in Irak, Siria e Libia, nonché i vari movimenti radicati territorialmente nell’Africa sub sahariana, sembrano smentirlo. Ma lo studioso resta dello stesso parere: nel suo proprio mondo, il jihad ha perso la battaglia politica. In Algeria sfidò la borghesia urbana, col taglieggiamento sistematico, e ne è stato sopraffatto. In Egitto e Tunisia continua ad antagonizzare la piccola e micro borghesia, che vive, anche se non bene, del turismo, legandola ai regimi. In Irak e Afghanistan colpisce i poveri – mercati, moschee, scuole, caserme – che sono gli obiettivi più facili. Il terrorismo, che si vuole un innesco della rivolta, in realtà la allontana, consolidando le società colpite.
È possibile. Una conferma si può accreditare a Kepel dall’attualità. In Libia il jihadismo non è in realtà attecchito, la guerra civile è tribale. In Siria ha portato alla rinascita di Assad, il “leone”, già spacciato. Le petromonarchie del Golfo, sue incubatrici e alleate, sono ora promotrici di un’alleanza ostile.
La teoria del declino ha peraltro un fondamento solido.  Si basa sulla guerra del Golfo, un fatto sottostimato al di fuori del mondo islamico. Che si concluse dieci anni dopo con la guerra a Saddam Hussein per un motivo molto preciso: Saddam aveva finito per impersonare il “vero” islam. Il dittatore iracheno, un laico quasi “empio”, aveva invaso il Kuweit all’insegna di “Allah akbar”, come una crociata contro un regime illegittimo anti-islamico. Minacciava dal Kuweit la dinastia saudita, custode dei luoghi santi islamici, e Riad chiese l’intervento Usa. Il reame diventò la base operativa di un esercito americano di mezzo milione di soldati, la cui presenza, in aggiunta alle basi militari che gli Usa già vi avevano, mise in causa la legittimià dei Saud protettori dei luoghi santi. Saddam faceva propria l’accusa decennale di Khomeini, costellata di incidenti con centinaia di morti duranti il pellegrinaggio annuale, contro l’Arabia Saudita.  Fu sconfitto, ma costrinse l’Arabia Saudita a patrocinare il fondamentalismo islamico, che già provocava molti incidenti al suo interno, indirizzandolo all’esterno, nel mentre che manteneva salda la sua integrazione economica e politica con l’Occidente. Un’ambivalenza che proprio in questi giorni si va sciogliendo.
È il paradosso di Saddam Hussein, e dell’Occidente in riguardo del jihadismo: ha fatto due guerre contro il radicalismo islamico e in entrambe è stato combattuto dagli Usa e dall’Occidente. La prima con l’Irangate, il riarmo coperto dei khomeinisti, la seconda con una guerra in campo aperto e uno schieramento massiccio. Si può argomentare che l’Occidente combatteva il nazionalismo arabo, appoggiandosi all’estremismo religioso, ma non è tutta la storia: qualcosa manca, sia pure l’insipienza.
Contro il nazionalismo
Altri punti lasciano più perplessi. Se è vero che nell’ultimo quarto del Novecento l’islamismo ha soppiantato il nazionalismo delle generazioni precedenti, quelle delle indipendenze, non lo è la previsione che Kepel ne trae: “Questa fase che si apre nel ventunesimo secolo dell’era cristiana vedrà senza dubbio il mondo mussulmano entrare a piedi uniti  nella modernità, secondo modi di fusione inediti con l’universo occidentale”. Ma la “cosa”, senza la previsione, c’è: in pochi anni l’islam politico ha soppiantato il nazionalismo.
Teorizzato negli anni 1960 dall’ayatollah Khomeini, e da due ideologi di vastissimo pubblico, il pakistano Mawduri e l’egiziano Qutb, pochi anni dopo il jihadismo era già vincente. A partire dal 1973, dice Kepel, che vide nella guerra del Kippur la rinascita dell’orgoglio islamico dopo la batosta del 1967, e soprattutto vide l’emergere della potenza saudita, che molto fa perno sull’ortodossia religiosa, grazie alla guerra del petrolio - il wahabismo, la versione saudita del sunnismo, farà macchia dolio.
Rivoluzione culturale
Una rivoluzione culturale e non un ritorno alla tradizione.  Il 29 agosto 1966 Sayed Qutb veniva impiccato dall’Egitto di Nasser, il teorico del “risveglio islamico”. Ma dieci anni dopo il suo pensiero era domnante nello stesso Egitto, tollerato e anzi favorito da Sadat, il sucessore di Nasser. In Pakistan il generale Zia ul Haq costruì negli anni 1980 migliaia di moschee, sotto l’influenza di Mawduri, e governò con molti ministri che ne seguivano l’insegnamento. Khomeini prese personalmente il potere in Iran nel 1978, rovesciando uno dei regimi reputati più stabili del Medio Oriente. Si faceva piazza pulita del nazionalismo delle piccole patrie. E dei concetti che le élites modernizzatrici avevano mediato dall’Europa, di democrazia e di libertà. La nazione, il partito, il popolo, l’esercito, erano “idoli”, l’anti-islam, jahiliyya.  
Altalena
C’è un movimento di bascula, in realtà, fra islamismo e nazionalismo, in forme kemaliste, fin dal dopoguerra – Kepel lo repertoria ma non gli dà peso. I Fratelli Mussulmani tentarono un primo assalto terrorista in Egitto subito dopo la guerra. Finché i Giovani Ufficiali, poi nasseristi, nel 1953 li spazzarono via, insieme con la monarchia che li aveva tollerati. È in questo quadro che Qutb elabora la jahiliyya, la barbarie cui Maometto mette fine – anche lui con la guerriglia, di sorpresa, lunga otto anni. Contro i takfir, gli empi, gli idoli del Profeta. La presidenza Morsi, dei Fratelli Mussulmani, e il generale Al Sisi ne sono una riedizione.
L’arma contro il jihad è sempe e solo una – ed è quella di Kepel: la mancata saldatura, e anzi l’opposizione, fra il radicalismo e le masse. La “purezza” e il “sacrificio” mettono il masochismo prima del proselitismo. Il jihadista è il kamikaze. È il tassello che più manca a questa summa. Mentre sarebbe stato importante e necessario sapere l’economia – materiale e psicologica – di questo sacrificio rituale.
Disarmo
L’introduzione all’edizione aggiornata resta importante su un punto: il disarmo dell’Occidente – ma più giusto sarebbe dire dell’Europa. Che non conosce l’islam, ma gli accredita di tutto, la bontà, la generosità e la socievolezza come la brutalità. Passando da un estremo all’altro: ora, visto da sinistra, come un fascismo, dopo averne apprezzato la presa popolare, e visto da destra come “un fanatismo medievale”, dopo averne elogiato l’ordine morale, l’obbedienza a Dio, l’ostilità agli empi”, materialisti e socialisti. Una reazione confusa ma impegnata, polemica o apologetica, appiattita “sui giudizi di valore, senza darsi il tempo della conoscenza”.
Per il buon mussulmano vale la riflessione del Profeta: “Certamente, il jihad continuerà fino al giorno del Giudizio”. Non terrorista, naturalmente, ma pugnace. L’analogo cristiano è desueto e anzi scorretto – se non nella forma del “Combattimento spirituale” di Lorenzo Scupoli, che la preghiera esaltò nella Controriforma come contemplazione, ruminazione e giaculatoria. La guerra è tutta in questo scompenso.
Gilles Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Carocci, pp. 436 € 17,50
Jihad, Folio, pp. 747 € 12,50

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