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mercoledì 23 dicembre 2015

Il mondo com'è (243)

astolfo

Hillary Clinton – L’unico punto debole finora della sua campagna per le primarie presidenziali è il  caso dell’ambasciatore americano ucciso a Bengasi in un attentato all’interno del consolato Usa nel 2012. L’11 settembre del 2012 fu “celebrato” dagli islamisti a Bengasi con una bomba al consolato americano, ad alto potenziale ma mirata, che colpì l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre diplomatici. Un mese dopo l’attentato, Hillary Clinton si prese la responsabilità della mancata protezione del consolato, che l’aveva richiesta. Lo fece per scagionare Obama, che era in campagna per la rielezione e su questo punto veniva regolarmente strapazzato nei dibattiti col candidato repubblicano. Anche se non sembrò poi che responsabilità precise fossero o imputabili a lei stessa, se non la sottovalutazione del rischio da parte dei suoi uffici del dipartimento di Stato.
Il caro riemerge perché, però, non è così semplice come apparve. Per un precedente insidioso, anche se poco credibile, avvenuto in Pakistan. Nell’agosto 1988 morirono in volo, per l’esplosione dell’aereo miliare che li trasportava, l’ambasciatore americano in Pakistan, il presidente-padrone del Pakistan, generale Zia ul Haq, e il generale Akhtar, che comandava la resistenza islamica in Afghanistan contro l’Urss. Un attentato sofisticato, opera certamente di servizi segreti da grande potenza. Il sospettato numero uno fu l’Urss, perché il Pakistan di Zia era la retrovia della resistenza afghana e islamica all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Ma gli ambienti pakistani, i prossimi a Zia e i suoi oppositori, sospettarono di più la Cia, che a differenza dei russi disponeva di basi operative e di una rete di collaboratori nel paese. L’intento sarebbe stato di eliminare il generale Zia, ritenuto non più affidabile.

Mare Nostrum – Sarebbe stato greco e non romano se Alessandro Magno non fosse morto giovane. Sarebbe stata la Grecia a capo dell’impero mediterraneo, la Macedonia, e non Roma. Una storiografia greca lo dava per certo, che Luciano Canfora esuma in “Gli occhi di Cesare”. Tito Livio del resto dovette contestarla, al cap. IX. Contestava una serie di ambascerie, di cui Orosio redigerà la lista quattro secoli più tardi, del mondo mediterraneo, Roma compresa, di sottomissione a Alessandro: Cartagine, tutta l’Africa, la Spagna, la Gallia, la Sicilia, la Sardegna, e la “gran parte d’Italia”. Orosio scriverà: “In Occidente si era diffuso un tale terrore del sovrano installatosi nel grande Oriente che si erano messe in viaggio ambascerie anche da luoghi dove a stento crederesti che fosse giunta la sua fama”.
Orosio è in realtà Giustino, spiega Canfora, che a sua volta riscrive Trogo, le cui opere sono perse.  All’origine di tutto, continua Canfora, c’era Timagene di Alessandria, altro storico “scomparso”, che però Canfora lega con buoni argomenti  agli ambienti ostili al nomen Romanum, che Tito Livio avrebbe denunziato al cap. IX: “Alcuni greci ostili al nome di Roma, i quali sono pronti persino a manifestare favore verso i Parti e ad esaltarli a scapito del nome di Roma, sono soliti sostenere che i Romani sarebbero stati eventualmente  disposti a piegarsi – senza nemmeno combattere – davanti alla maestà del nome di Alessandro”.
La storia di Orosio si può dire una manifestazione dell’incipiente culto di Alessandro, a favore o contro, che avrebbe tenuto banco per alcuni secoli come “romanzo di Alessandro”. Una favolistica, opera d’invenzione. Ma Livio in realtà non contesta le ambascerie, semplicemente dice che Roma è meglio di Alessandro, ipotizzando la storia “controfattuale”: cosa sarebbe successo se Alesandro avesse attaccato l’Occidente invece che l’Oriente.

Pure Dante, nel “De monarchia”, è sulla pista di Alessandro. Parafrasa  Orosio. Ma ci aggiunge del suo, sulla pista dell’impero unico universale, della pace eterna. La sua ricerca dell’impero unico parte da Nino, re degli Assiri, prosegue con Vesozes, re dell’Egitto, con Ciro il Grande, con Serse, e approda a Alessandro, “il quale più di tutti gli altri si avvicinò a conquistare la palma”. Se non che  “muore in Egitto prima che giunga la risposta dei Romani, come narra Livio”.
Tito Livio per a verità è sprezzante: ai romani di Alessandro “non era noto nemmeno il nome”. I  consoli romani dell’epoca erano da soli in grado di metterlo a tacere. Gli storici greci sono superficiali,  “levissimi ex Graecis”, che la vittoria di Alessandro davano per certa in virtù del nome, “maiestatem nominis Alexandri”.
Pirro attaccherà Roma, quarant’anni dopo la morte di Alessandro, richiamandosi al conquistatore, ma con scarsi effetti.

La vicenda non era finita con Tito Livio. Una fonte più tarda, Memnone di Eraclea, salvata dalla raccolta di Fozio, afferma che, dopo o prima della spedizione in Asia, Alessandro aveva mandato un ultimatum ai Romani in questi termini: “Se siete capaci di comandare, cercate di battermi,, altrimenti sottomettetevi a chi è più forte di voi”. Con l’aggiunta che i romani, impauriti, “gli inviarono una corona d’oro di notevole peso”.
Ma Memnone potrebbe avere ricamato da fonti anteriori – Canfora lo colloca tra il I e il II secolo d.C., a quattro-cinque secoli dai “fatti”.

Rimesse – Quelle degli emigranti asiatici, specie dei filippini alcuni decenni fa, poi dei pakistani e dei bengalesi, hanno creato una nuova forma di integrazione dei paesi di origine con quelli europei di emigrazione, e nel tessuto sociale e culturale dei paesi di origine. Da circa trent’anni le rimesse degli emigranti sono la principale fonte di divisa estera del Pakistam e del Banglaesh. I cui effetti si sono consolidati sul sistema bancario e del credito, e nell’articolazione familiare-sociale, attraverso un circuito finanziario-sociale relativamente autonomo dal condizionamento totalizzante della politica.  

Reciprocità – Il principio diplomatico per cui un cero trattamento favorevole dei cittadini e degli interessi di un paese straniero si può disporre solo in presenza di un trattamento analogo dei cittadini e degli interessi propri in quel paese è saltato con la costruzione delle moschee. L’Arabia Saudita fece valere, nel caso della moschea di Roma, che non aveva l’obbligo di accettare la costruzione di una chiesa di analoghe dimensioni sul propri territorio – lo fece valere con Andreotti: intanto perché non c’erano cristiani in Arabia Saudita, e poi perché o Stato italiano non è confessionale e non costruisce chiese. Andreotti obiettò che, poiché la capitale italiana è anche la capitale della cristianità, e lo Stato italiano è in qualche modo custode dei luoghi santi cristiani, così come l’Arabia Saudita lo è del luoghi santi islamici, la reciprocità doveva valere. Ma senza effetto. In Arabia Saudita – e negli altri stati confessionali islamici – è peraltro reato capitale convertisi al cristianesimo.

Rivoluzioni islamiche – Sono state e sono in realtà controrivoluzioni, a tutti gli effetti: contro i diritti umani e contro i diritti civili, contro la libertà naturalmente, di cui non hanno il concetto, e contro l’uguaglianza, dei sessi, delle condizioni materiali, dei soggetti individuali. Quelle di tipo khomeinista, che la sharia  applicano a ogni aspetto della vita, individuale e associata – fino ai Fratelli Mussulmani che governano la Tunisia e hanno governato l’Egitto, anche se non professano la sharia, la legge islamica – sono in realtà regimi borghesi proibizionistici, delle fedi, delle donne, della libertà di circolazione e di pensiero. Quelle di tipo talebano - quella propriamente detta in Afghanistan e ora il califfato in Siria e Iraq - si basano su una rete sociale di affari e fede, dei mullah-ulema e del suk-bazar, e sono integralisti e proibizionisti in eccesso. Mentre le monarchie arabe del Golfo, che queste “rivoluzioni” finanziano, sono da tutti i punti di vista regimi patrimoniali – familiari, privatistici.

Usura – Il divieto islamico di far fruttare il denaro, di un interesse sul suo uso, comunque equiparato a usura, viene aggirato di fatto ovunque e in qualsiasi situazione, di banche, fondi, prestiti, investimenti. Il divieto è radicale: “L’usura (riba) comporta novantanove casi, di cui il meno reprensibile è assimilabile a quello della fornicazione tra un uomo e sua madre”, secondo un hadith - una riflessione - del Profeta, tramandato da Muslim, uno dei collettori dei detti profetici considerati più sicuri dagli ulema. Come tale, radicale, il divieto è professato dalle istituzioni finanziarie islamiche, per esempio dalla Banca islamica di sviluppo. Ma l’Iran khomeinista l’ha sempre praticato, chiamandolo “tasso di profitto garantito” invece che tasso d’interesse – e un tasso di fatto allineato a quello praticato in nero dal bazar, dal commercio al minuto e all’ingrosso, il pilastro economico del regime. In Egitto nel 1989 il muftì emise una fatwa che autorizzava il sistema bancario tradizionale e il prestito a interesse, per evitare la crisi del sistema bancario stesso, dopo un decennio di forte crescita delle società islamiche d’investimento, finanziate dall’Arabia Saudita. Sono adattamenti o “furbizie” (hiyal) che la morale islamica consente.
Di fatto, lo sviluppo della finanzia islamica ha creato un vasto e ricco mercato di consulenze, interpretazioni e professioni, fatwa, per il clero islamico. Come consiglieri d’amministrazione, che danno una garanzia di liceità. E come arbitri del sistema: contro – ma anche pro – le banche non  islamiche. In Egitto se ne è discusso e se ne discute molto. Di più, sotto la copertura della finanza islamica c’è la penetrazione del capitale saudita e degli Emirati Arabi in tutto il mondo arabo e mussulmano, specie in Africa.

Di fatto, si può anche dire che non c’è differenza fra le tecniche bancarie del mercato e quelle islamiche. Gilles Kepel, “Jihad”, ed. francese, distingue cinque modi d’investimento e di finanziamento nella sharia, la legislazione islamica: due industriali e tre commerciali. La mudaraba, o finanziamento di partecipazione, nella quale la banca finanzia il capitale di un’impresa, e l’impresa fornisce il management e il lavoro, profitti e perdite dividendo secondo accordi preliminari. La musharaka, semplice partecipazione al capitale, analoga alla società per azioni: il capitale si remunera coi dividendi dell’attività. Le attività commerciali si finanziano con la murabaha, o compravendita a termine: la banca acquista e rivende le merci con un margine, scalando il rimborso del debito nel tempo, col ta’jir, il leasing, e col ba’i mu’ajjal, il mutuo.

astolfo@antiit.eu

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