L’Irrational Man è
filosofo, professore anzi di filosofia, professa la razionalità. Atteso al dipartimento
nella nuova università, quasi messia, vi arriva esaurito e bevitore. La moglie
lo ha abbandonato, per il suo migliore amico. L’altro migliore amico, nella
comune organizzazione umanitaria, è stato decapitato in Iraq – o è “solo” saltato su una
mina. A lezione professa il famoso problema morale di Kant, “Su un preteso diritto di mentire per umanità” – che è il
machiavellico fare il bene attraverso il male, ma non si può dire. E
piano piano, tra ritorni alla Gide di atti gratuiti e omicidi perfetti,
riacquista la voglia di vivere: diventerà assassino, naturalmente a fin di
bene. La fine è del genere: chi di spada ferisce di spada perisce, chi la fa l’aspetti,
etc.
Woody
Allen ha sempre fatto filosofia, specie nei testi scritti, con Schopenhauer e
Nietzsche, si pensava per scherzo. Fin dai tempi di “questa è un vapina”, che avrebbe divertito (dato da pensare a) Wittgenstein. E più negli scambi identitari -. fusioni, trasformazioni,
divisioni. In “Zelig” per esempio, da cui “la sindrome di Zelig”, adottata
dallo stesso Bettelheim che è parte del film: il conformismo all’ambiente, tale
da mutare la personalità. Qui professa solide fondamenta, molti
scherzi combinando con solide argomentazioni. Un dialogo inconsueto al cinema, e abile, approfondito. Ma non si ride – o poco.
Non
si ride più da tempo ai film di Woody Allen, specie quando non c’è lui in
scena. Perché sono tirati via, low cost – da camera, con poche inquadrature fisse
di esterni, campagne o marine, e dialoghi frontali? Perché fa film, benché a colori,
alla Ingmar Bergman, suo lontano idolo non per ridere? Perché le generazioni
woodyalleniane sono invecchiate con lui? E perché è scorretto. Qui
scorrettissimo – alla fine di tutto c’è un debasement
della razionalità o filosofia così radicale che si ha paura di ridere: al
pessimismo non c’è rimedio.
Woody
Allen, Irrational Man
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