Il
ridicolo della guerra. Rappresentato da un nazionalista, prossimo a diventare
mussoliniano. Tragico a volte, ma per essere grottesco. La
guerra come un seguito di situazioni assurde, non fosse la morte di soldati
inermi. Raccontata a distanza doppia. Dopo la sua conclusione, bene o male
vittoriosa, e quindi fuori dalle polemiche politiche che avevano accompagnato
il conflitto, ma senza la facciata del patriottismo che tutto vela. Da uno scrittore
in età e di Catania, lontano anche fisicamente dalle beghe di palazzo e nei
comandi militari. E dopo, forse, non ce n’era altra, non c’era altra guerra –
niente eroismi, imprese ardite, la memorabilia.
La
guerra come “smisurato contenitore di storie”, nota Gabriele Pedullà, che cura
questa raccolta. Tema di uno smisurato numero di scrittori, di cui rifà l’elenco.
Compresi quelli che non vi poterono partecipare perché riformati. E quelli come
De Roberto che avevano passato l’età. Una cinquantina quelli che restano nella
storia della letteratura - e manca all’elenco la memoria migliore di tutti,
alla rilettura, per drammatizazione e verità storica, quella del giovane
Hemingway di “Addio alle armi” (migliore per la vita di trincea, e l’anamnesi
della ritirata e dell’inadeguatezza dei comandi, della loro violenza cieca,
incapaci di ordinare e solleciti a “giustiziare”, ad addebitare sommariamente Caporetto
ai soldati - non c’era ancora stato l’8 settembre, ma Hemingway aveva capito
venticinque anni prima, e con lui, in parte, Malaparte).
Una
raccolta di racconti. Lunghi la gran parte, ma di lettura, di buona tecnica:
caratteri, situazioni, dialoghi. Documentati, documentatissimi: De Roberto sa
la geografia fisica e la toponomastica, la vita di trincea, e le mentalità o
linguaggi. Che diversifica anche col sussidio dei dialetti, sempre appropriato,
nell’ortografia, la sintassi, le caratterizzazioni. Racconti a intreccio, a
differenza dell’autobiografismo della letteratura di guerra. Ma non “raccontini
con lo sparo finale”, di quelli agiografici che Italo Calvino lamentava, i suoi
compresi, della Resistenza. Alcuni drammatici, ma disincarnati e quasi spassionati,
disincantati. Se non frivoli, anche quelli “neri”, “La paura” del titolo,
“L’ultimo voto”. Costruiti su aneddoti gai per lo più, brillanti.
“La
cocotte”, il primo racconto della raccolta, e titolo della prima raccolta “di
guerra” dello scrittore nel 1919, sberleffa i regolamenti che vietavano alle mogli di avvicinarsi ai mariti al fronte, ma vi
mandavano, protette, le signorine. Il secondo, “All’ora della mensa”, mette in
scena gli improbabili ufficiali riservisti dei Comandi di Tappa, il maggiore rinsecchito
alla don Chisciotte, l’aiutante maggiore più tondo che alto, il tenente di
“appena il metro e cinquanta” di rigore, attorno a un “sabotaggio” che è solo fame.“La retata” irride ai sacri valori del conflitto. “Il
rifugio” mette a improponibile confronto le regole della guerra con l’umanità dei
singoli.
Una
raccolta a suo modo memorabile, di un’“altra” guerra: con un fondo sempre ilare,
più spesso sapido. La introduce del resto una monografia critica di cento
pagine. Un evento, questa fatica di Gabriele Pedullà, se non altro perché
anomalo, fuori voga - che forse per questo ha lasciato muta la stessa critica. Una
monografia in realtà sulla letteratura di guerra, della Grande Guerra –
corredata di vasta bibliografia ragionata. Partendo da una parentesi: “(la
famosa tesi di Walter Benjamin, secondo cui dalla Grande guerra i reduci tornarono
senza alcuna esperienza da raccontare, è clamorosamente smentita dal numero
delle pubblicazioni degli anni successivi)”. Ma la tesi era già smentita, come numero di pubblicazioni, quando
Benjamin scrisse questa osservazione, in “Esperienza e povertà”, il 7 dicembre 1933, che vale citare per intero: “Una cosa è
chiara: le quotazioni dell’esperienza sono cadute e questo in una generazione
che, nel 1914-1918, aveva fatto una delle più mostruose esperienze della storia
mondiale”. Mostruoso è l’aggettivo più calzante per De Roberto - il volume delle rievocazioni conta poco.
Anche
il seguito di Benjamin merita: “Forse questo non è così strano come sembra. Non
si poteva già allora constatare che la gente se ne tornava dal fronte
ammutolita? Non più ricca, ma più povera di esperienza? Ciò che poi, dieci anni
dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era tutt'altro
che esperienza che scorre dalla bocca all’orecchio. No, non era strano. Poiché
mai esperienze sono state smentite più a fondo di quelle strategiche attraverso
la guerra di posizione, di quelle economiche attraverso l’inflazione, di quelle
corporali attraverso la fame. Una generazione che era ancora andata a scuola
col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui
nulla era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro - in un campo di
forza di esplosioni e di correnti distruttrici - il minuto e fragile corpo
umano”. Una guerra che è stata una “smentita”, dunque. Della retorica, della
demagogia. Ma anche di un modo di essere, o di concepirsi: una sovversione.
Anni
prima, nel 1926, in “Strada a senso unico”, lo stesso Benjamin ne aveva dato il
senso, della Grande Guerra come esproprio dell’esperienza e riduzione della
persona a massa, che caratterizzeranno la contemporaneità: “Masse umane, gas,
energie elettriche sono state gettate in campo, correnti ad alta frequenza
hanno attraversato le campagne, nuovi astri sono sorti nel cielo, spazio aereo
e abissi marini hanno risuonato di motori, e da ogni parte si sono scavate
nella madre terra fosse sacrificali”. Ogni esperienza individuale, e quindi la
capacità di farsi la storia, di raccontarsela, di raccontarla, la guerra ha
dissolto come in un “bagno di acido solforico”. Se non - a distanza, alla doppia
distanza di De Roberto - criticamente.
La
trattazione di Gabriele Pedullà è
articolata sulla tripartizione di Oliver Stone, il regista: “Chi c’è stato, chi
non c’è stato, chi avrebbe voluto esserci”, sottinteso in guerra. Sul racconto
della guerra anche da parte di scrittori
che per l’età ne sono stati esclusi, Svevo, Pirandello, Di Giacomo, Panzini. In
aggiunta ai riformati che non se ne
diedero pace, Papini, Gozzano, Boine, Arturo Onofri. E i troppo giovani,
Gallian, Brancati. De Roberto appartiene alla seconda categoria. E quindi d’ufficio
ascrivibile agli “inventori” della guerra che uno degli agiografi, Paolo
Monelli, depreca in “Le scarpe al sole”. Ma rispettoso e corretto, sebbene
ardente patriota - e documentato. Il racconto del titolo, “La paura”, Pedullà
dice “l’essenza profonda del primo conflitto”. Gran nmero di critici e studiosi
se ne sono occupati: la rappresentazione del sacrificio inutile in guerra, della morte inutile, o della guerra come successione di ordini assurdi, con l’unico effetto di mandare i soldati a uno a uno alla morte.
Federico
De Roberto, La paura e altri racconti di
guerra, Garzanti, pp. 430 € 13
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