Il
poeta che ha antiveduto la sua morte: in sogno, ha lasciato annotato nei
taccuini, “mi trovavo su un grande lago interamente ricoperto di lastre di pietra.
A un tratto sentivo che le lastre cedevano…” Diciotto mesi dopo, pattinando sul
fiume Havel emissario del Wannsee, il lago più frequentato di Berlino, con
l’amico fraterno Ernst Balcke, che cadde in una buca, per salvarlo Heym morirà pure
lui, dopo avere urlato inutilemnete a lungo in cerca di aiuto dagli altri pattinatori.
Un’opera
ritenuta di rottura con i vecchi schemi tardo ottocenteschi, ma poesia ancora
decadente – neo romantica. Con l’aggettivazione costante, volentieri ossimorica:
fiaccola ardente, verdi sorgenti, bagliore smorto, pallida candela, la nera spalla
nella grigia sera. E l’animazione della natura: l’oro dell’autunno, la
fragranza della macchia, la foresta d’ambra. Lo stesso esercizio frenetico dell’aggetivazione-catalogazione
il giovane poeta esercita però sulla città: sulle cose apparentemente inanimate,
pietra, rotaie, fumi, luci. L’innovazione avvolgendo nel rifiuto, che la
malinconia traspone in violenza, la sua opera portando a catalogare nell’espressionismo.
“Ofelia”
galleggia “con una nidiata di ratti fra i capelli,\ le mani inanellate nella
corrente\ come pinne”, tra felci, pipistrelli, e una biscia che “nel seno
penetra”. E noi “morti siamo”, alla “Morgue” – “silenziosi girano i custodi\
dove il bianco dei teschi fra i panni rifulge”. Tra immagini estroverse: inside-out: le tempie della terra, il
naufragio del giorno, i mari della sera. Già, o ancora, di maniera, e tuttavia
ricco di humus – o almeno così viene
in traduzione “L’anima mia mare senza sponda\ piano fluisce in lieve corrente.\
Verde son io dentro di me e fuori mi sperdo\ come un palloncino di vetro”. O il
flusso ortogenico del “Dormiveglia”. Una poetica che il poemetto del titolo
sinteizza come una carrelata di immagini concatenate, nel “sogno crepuscolare
di un fatuo volo di farfalle”. Immagini di morte per lo più.
La
poetica di Berlino Heym fa per primo, della città. Una poetica trascurata e anni
ignorata dal suo secolo, il Novecento, che pure ha vuotato la campagna per le megalopoli,
con l’eccezione manierata del futurismo. Opera di un poeta morto alla nascita, si
può dire, a 24 anni, proveniente dalla Slesia remota – ora è Polonia – tra l’Oder
e i Sudeti, che molti germogli aveva dato alla Germania. “Poeta di dissolvenze”,
lo dice Claudia Ciardi. Cresciuto sui tedeschi che il mondo rifanno di fretta, Nietzsche,
Hölderlin, Kleist..Che molto pubblicò in vita, attorno ai venti anni, e molto
lasciò incompiuto, soprattutto teatro. Riemerge carsico con raccolte di poesie,
racconti, sogni, divagazioni.
Anch’essa
giovane, benché non affine, Claudia Ciardi ne ha tratto un’antologia agile e sostanziosa.
Traducendolo, si arguisce, senza abbellimenti o ammodernamenti, seppure non
filologicamente. Ha organizzato la silloge, una ventina di componimenti brevi e
lunghi, per il centenario della morte. Traendola dalle tre opere di Georg Heym,
“Der ewige Tag”, l’eterno giorno, “Umbrae Vitae”, una raccolta tradotta da Einaudi
nel 1970, e la postuma “Der Himmel Trauerspiel”, la tragedia dei cieli, oltre
che dal volume di poesie sparse dell’opera omnia. E intesse, nelle brevi acute
note, una sorta di romanzo del destino attorno al ghiaccio, l’artista che il
poeta più ammirava, Caspar David Friedrich, avendo vissuto un dramma analogo –
aveva perduto il fratello maggiore Johann Christopher a tredici anni per la
rottura del ghiaccio su cui pattinava, forse nel tentativo di salvare il futuro pittore. Morto giovane, Georg Heym è stato presto
dimenticato, ma erraticamente è riproposto.
Georg
Heym, Ci invitarono i cortili, Via
del Vento, pp. 33 € 4
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