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sabato 10 gennaio 2015

Grazie no

Il terrorismo a Parigi è di un tipo particolare. È certamente politico, ed è un rifiuto. È stato addestrato, finanziato e armato da ambienti e gruppi esterni, ma si è espresso come una forma di rifiuto.
Un rifiuto ingeneroso, probabilmente. Da parte di giovani che avevano ricevuto molto dalla Francia, di più probabilmente e di qualità migliore che dai paesi o le famiglie di origine: accoglienza, assistenza, formazione, mantenimento, integrazione sociale. E lo rifiutano, anzi lo rinfacciano alla Francia.
L’integrazione non da ora non è più un bene culturale. Del rifiuto dell’integrazione Sartre fece nell’“Orfeo nero”, 1956, la leva per il riscatto dei popoli allora colonizzati e discriminati razzisticamente. Non sbagliava, e l’integrazione è divenuta un bene contestato. Il multiculturalismo non ne tiene conto, e questo è un male: non gli si può fare colpa delle stragi di Parigi, ma di fatto sì.
La condiscendenza provoca il rigetto. È un’altra forma di superiorità preconcetta, non al modo del colonialismo, ma con gli stessi effetti. Il fatto è indimostrato, ma le esperienze personali, benché minime, nelle vecchie ex colonie italiane come nei consigli scolastici, nei mercatini rionali e sulle spiagge, e nelle conversazioni da bar, nonché viaggiando e lavorando nei paesi islamici in Africa e nel medio Oriente: il mussulmano rispetta chi si rispetta. Vuole la legge, sospetta la pacca sulla spalla.  

Le differenze di cultura ci sono

È una reazione sorda, quella del mondo islamico, alle stragi di Parigi. Contrita, ma visibilmente non commossa. E sorda allo scandalo in sé, l’uccisione di artisti e giornalisti per le figure e le parole disegnate e scritte. Ci sono differenze di cultura, e di intelligenza pratica – di sensibilità.
Queste differenze non si possono livellare. Ammesso che sia utile o necessario. È un delitto nell’islam l’assassinio. Ma non è un delitto il divieto di opinione. Né c’è un obbligo ri riconoscenza, come è di tutte le convivenze, quando la religione vi osta. Al limite neppure di convenienza: gli islamici hanno in Francia, come in Germania e in Italia, soprattutto attività commerciali, basate cioè su un rapporto di fiducia con la clientela. Inoltre, nell’islam è giusta la taqiya, la dissimulazione, sulle questioni di fede ma è ormai un abito mentale.
Il multiculturalismo non può cancellare le differenze. Non sarebbe nemmeno giusto. E non può sfuggire alle regole, non a quelle interdittive. L’islam fa bene a proibire l’alcol. Mentre non fa certamente bene alle donne né alla libertà di opinione o di parola. 

La bomba Houellebecq

Nelle stragi di Parigi manca il complotto, arguiva ieri questo sito, di cui invece si sarebbero tutte le “prove”. Il romanzo antislamico di Houellebecq annunciato per il 7 gennaio. Giorno della strage a “Charlie Hebdo”. Di un capolavoro annunciato peraltro inesistente un mese prima: venduto in libreria senza titolo, e anzi senza testo. Che fu mandato in tipografia e in traduzione una settimana prima di Natale. Tanta fretta non si giustificherebbe col fatto che il 7 gennaio doveva succedere qualcosa?
Bene, ma non è tutto. Houellebecq è un provocatore, prima che uno scrittore. “La religione più cogliona è l’islam”, l’ha detto già nel 2001. Con l’elogio del puttanesimo, “molto ben retribuito”. Dopodiché si è esiliato per una dozzina d’anni in Irlanda e Andalusia, per le tasse. È anche sacerdote onorario dei raeliani, una setta di extraterrestri.
Resta da accertare se, poi, ha venduto il romanzo, il 7 gennaio. Se i lettori non hanno disertato le librerie.

Nuovi coloni e vecchi islamici in Nigeria

Sono vite intrepide, nell’ordinario. Si curiosa, di minute e gravi cose allo stesso modo poiché quello è l’orizzonte. Non è un limite culturale, l’ultima casalinga di manovale italiano sa le differenze, ma il modo d’essere nella vita: non ci sono grandi eventi se non ci toccano, né piccoli eventi se non ci lasciano indifferenti. La filosofia lo sa: l’uomo è misura delle cose. Gli espatriati pure, i lavoratori dell’Ente all’estero, e le loro mogli.
Le confidenze sono partite a Kano, col panettone, lo spumante Asti, torroni di Cremona, Torino, Bagnara, crostate e pastiere fatte in casa “col grano sottovuoto”, la teglia di lasagne e l’arrosto, perché il rischio è stato concreto di passarvi Natale. Il presidente generale Gowon ha requisito l’aereo che doveva riportare a Milano gli ospiti giornalisti, a Kano per una parentesi culturale dopo i campi petroliferi, i pranzi coi manager e i briefing, sul Delta, la malaria e il petrolio. Un tedesco, un inglese, due texani, Andrea, il fotografo silenzioso della Luce che ringiovanisce con gli anni, tutta gente che la prese con filosofia, non fosse stata Grazia, l’inviata milanese intrepida e madre o amante trepida, in ansia pure per la difficoltà di telefonare. È così scattata la solidarietà delle mogli.
I viaggi dei giornalisti sono un’occasione sociale per le mogli espatriate coi consorti. L’Africa è fatta così e non vale spazientirsi, nulla vi è prevedibile, in Nigeria ancora meno, siamo espatriati ma non stranieri, il mondo sappiamo a fiuto, per anni di allenamento. Si dice di Gowon che deve fare il pellegrinaggio alla Mecca, ma non è praticante, forse non è islamico, anzi non può esserlo, l’islam padroneggia il Nord, Kano e Kaduna, ma il presidente federale non dev’essere confessionale, forse è a Londra, chissà, a Zurigo. Fela Kuti, che l’afrobeat ha imbattibile, ha sposato in una sola cerimonia ventisette donne – e la cosa fa ridere, non si sa se per invidia, la trasgressione piace nell’ordinario. Si dice per non pagarle – mantenere una persona consente ancora in Africa di non pagarla. Ma delle donne, che forse sono ventotto, si è preso pure i figli. Fela Kuti ha fatto dono al governo di una copia della bara della madre, che l’esercito avrebbe buttato dalla finestra una volta che attaccò la sua repubblica indipendente di Kalakuta, con la canzone “Una bara per il capo dello Stato”. Kalakuta, presa dall’esercito più volte, è sempre attiva. Fela Kuti è stato incarcerato un centinaio di volte, che sembrerebbe impossibile.
L’imprevedibilità nasce dal khat, assicura l’ingegner Colombo:
- Per lo stordimento che dà la masturbazione mentale. Il khat dà visioni che non si sanno comunicare, come l’hashish. L’ha studiato la Difesa inglese: hanno provato varie droghe sui soldati, senza benefici, né in lucidità né in combattività. - L’anziano ingegnere è stato confinato al cerimoniale, e alla fine, via Abidjan, ha tirato giornalisti e accompagnatori fuori da Kano, liberi di festeggiare Natale a casa: - È più semplice fare buchi nel delta – commentando: - In questo mestiere l’equazione è a infinite variabili, tutti vogliono qualcosa. – L’ingegnere ha le stesse incombenze del professor Osaniegu, con altra qualifica, dopo un’esperienza di quasi morte. Ha visto l’aldilà per una febbre violenta, uno dei malanni tropicali di cui la decolonizzazione ha eliminato la cognizione, hanno lasciato morire Coppi, che aveva solo la malaria. Un coma, la diffusa corta malattia: - La quasi morte è argomento comune. Una ciarlataneria: chi ne parla è quasi sempre uno yoruba, basta una febbricola. – Ma ricorda fenomeni di luce che non riconosce nello spettro, nei quali ha navigato senza ansie, anzi in pace. Ne ebbe distinta percezione, pur non vedendosi, in uno stato generale di benessere. È l’eternità quale ce la figuriamo, la pace nei verdi pascoli? L’ingegnere non risponde, non ne parla volentieri.
Ha imposto con la flemma, alla corte dell’emiro, le precedenze:
- Non c’è motivo per non onorare le regole e i poteri locali – si è schermito, e i posti sono stati liberati su Abidjan. Altri nel suo incarico hanno facilitato l’entrata di dirigenti e ospiti senza la dichiarazione valutaria, per evitare le code alla dogana, dopodiché hanno dovuto pagare grosse somme per sanare l’irregolarità, l’ammenda più la bustarella. O li hanno presentati a personaggi della National Oil Co., l’Ente locale, o della banca centrale, o a contatto con la Noc o la banca, per affari più o meno leciti, dal carico spot di petrolio alla squillo, per i quali si paga subito l’anticipo, talvolta per ineseguiti. Le due cose, l’infrazione e l’affare, si legano in Nigeria. Non senza logica, spiega un capo redattore politico al Freedom Daily di Lagos: “Sono predoni”, dice degli stranieri, “colludono coi potentati per distruggere la Nigeria”. Un ex deputato, di quando c’era il Parlamento prima di Gowon, ne fa un caso di resistenza: “I truffatori dovrebbero essere incoraggiati”, dice, i truffatori a danno degli stranieri.

Gli europei sono ombre sul fango compatto di Kano, sbiadite. La casa è il nostro vestito, si dice, ci prende la forma. O noi prendiamo la forma della casa. Ma è il nostro primo possesso, il primo segno d’individualità. Senza, è una privazione. Tra le mura di Kano, di argilla e pietre, paglia, sterco, che il sole e il vento compattano, case che le strade sterrate dilatano, anche questa semplice verità appare svanita, ma è un inganno prospettico. A meno del colore, questa città senza divisioni apparenti richiama le architetture vivaci dei libri cinesi o tibetani, l’artificio delle forme vegetali: l’imponenza si sgrossa assottigliando il muro man mano che s’innalza. Concrezione sedentaria del nomade, la casa nasce chiusa a difesa dall’harmattan, la tramontana del Sahara che porta la polvere nella stagione secca, e per segnare l’autorità: il nomade, con la tenda aperta, è selettivo.
Allo stesso effetto concorre l’accorpamento di nuclei su nuclei, che non risponde alla viabilità, padrona del cittadino odierno. Con guizzi di luce e prospettive rotte che hanno fatto di Andrea un invasato, bagnato di sudore, i fotografi sono affardellati di pesante strumentazione:
- Sono stato paparazzo – si giustifica: fa la posta alla città come la faceva alle dive. La casa è un organismo vivente privato, sacro, nel vuoto dello spazio, uno scudo degli affetti contro il vento del tempo, la proiezione e la misura di sé. La casa fa il nomos, direbbe un tedesco, il lavoro invisibile del tempo, che il tempo rigenera, della famiglia, la stirpe, il genere umano. È il segreto dell’islam, pur nella separazione tra maschi e femmine: più l’ambiente è chiuso, più si è espansivi, senza difese.
Alcune case stanno insieme a livelli diversi, alcune sono l’una sfaccettatura dell’altra, in un ammasso che si vuole anche materialmente impenetrabile, altre se ne stanno insieme lontane. Fino alla torre Eiffel i materiali da costruzione sono sempre gli stessi, pietra dove c’è o mattoni, fango rappreso e malta, con telaio ligneo o cannicciato: la tecnica a Kano non è arretrata, è diversa. L’architettura islamica di interni, che nelle case di sogno di Cordova si organizza nella frescura, attorno al chiocchiolio dell’acqua, sotto il rampicante del cortile umbratile, è a Kano un rinvio di ombre, che chiudono senza pareti. C’è il movimento e c’è la stabilità. Il colore monocromo educa l’occhio alle sfumature. È sottile lo sguardo dei suoi uomini e delle donne – la matriarca africana sopraffa la sharià maschilista. L’abitazione avrà fini utilitari, ma è unione simbolica e intima.
L’emiro di Kano e Kaduna che mai si mostra, disdegnando l’etichetta, la impone a fini autoritari. Il suo corteo è sempre già passato, uno svolazzo nero e oro tra altri cavalieri, in coda una piccola folla a piedi. È uomo pio il venerdì, esercita la carità con le decime che esige. Gioca al polo gli altri giorni in attesa del golf, l’erba è nel deserto un trono. Nella sua città di fango dando alla scombinata federazione nigeriana potere e decoro: l’islam non promette libertà ma salvezza, agli obbedienti. Furono gli emiri di Kano a offrire il Benin alla regina Vittoria, l’ultimo impero. Kano ebbe in cambio la ferrovia, fino a Bonny e Port Harcourt, cioè ora al petrolio.
Il Benin era ricco e bello quando il Portogallo riscoprì l’Africa. Per oltre un secolo, nel Cinque e Seicento, soldati portoghesi lavorarono remunerati per il re del Benin. L’Africa fu riscoperta per la terza o quarta volta nel 1897, quando i britannici deposero l’oba del Benin, il re. Contro la regola del governo locale, l’indirect rule, che portò alla creazione di reucci anche dove non ce n’erano, ma funzionale all’appropriazione e alla rivendita del tesoro reale, oltre duemila pezzi. Non si poté più dire da allora che l’Africa è ignota. O dal 1910, quando arrivarono sul mercato i manufatti in bronzo, pietra e terracotta di Ife, del dodicesimo secolo. Dal 1933, quando il maestro elementare di Esie scoprì un migliaio di statuette in pietra di cinque secoli prima. Dal 1938, dopo la scoperta a Igbo, nello stato di Anambra, di una serie di bronzi del nono secolo. O dal 1943, quando sempre in Nigeria, a Nok, vennero alla luce terrecotte del periodo fra il 700 a.C. e il 200 d.C. Non si poté più dire se non per salvare l’“arianesimo”: la tecnica di Ife, la Delfi del Benin, Frobenius trovò tanto abile che senz’altro vi domiciliò “una razza di gran lunga più dotata dei negri”.
(da Astolfo, La morte è giovane”, romanzo, di prossima pubblicazione)

Quando Kohl impiccò l’Italia all’euro – 3

Un libro di storia sui venticinque anni dalla caduta del Muro è solo benvenuto, ma l’essenziale manca. E anche sul resto ci sono mancanze. La rappresentazione è minuziosa, circostanziata, ma come è prassi ormai da qualche tempo per le opere di giornalisti, che coprono le verità dei fatti, che non capiscono o celano, sotto il cumulo delle circostanze. Si vede dal primo capitolo, che dettaglia le manovre italiane per entrare nell’euro e le resistenze tedesche, all’euro in sé e all’Italia nell’euro. Ma si muove in ambito Seconda Repubblica, se non ulivista, Ciampi-Dini-Prodi. Trascurando il lavoro precedente al trattato di Maastricht (1992) fatto da Draghi e Carli per conto di Andreotti. Ben altra squadra, con percezione reale degli interessi in campo. Castronovo è uno di quegli storici che non hanno ancora scoperto la Dc in Italia? Sicuramente non l’ha scoperta in Europa, quella di Kohl, Merkel & co..
La ricostruzione, apparentemente fedele per il gran numero di dettagli, ha discontinuità gravi. Della corsa affannata di Ciampi-Dini-Prodi trascura peraltro l’essenziale – già subito, insomma. L’Italia ha scelto di aggregarsi al carro germanico, e tale scelta è ancora impegnata a onorare. A questo punto anche per evitare i danni che il riflusso provocherebbe – staccarsene non è più possibile. Ma non aveva messo in conto i costi. È stata una scelta in linea con quelle, sempre Dc, che hanno deciso positivamente il destino dell’Italia nel dopoguerra (la Nato, il Mercato Comune). Ma in questo caso presa alla leggera: l’euro è una moneta e una contabilità, non negoziabili (mercanteggiabili). Leggendo – in altre pubblicazioni - le sciocchezzuole di Draghi, negoziatore dell’euro per conto di Andreotti, di Carli, e perfino di Ciampi, sul “vincolo esterno” non si sorride più, c’è solo da arrabbiarsi.
L’euro è stato per l’Italia un azzardo. Una scelta epocale, ma azzardata: è andata bene per un periodo e poi malissimo. Avevano ragione i tedeschi, Tietmeyer e la Bundesbank in testa, che vivamente consigliavano all’Italia di tenersene fuori. Castronovo ne registra le resistenze, ma come una sorta di albagia teutonica, mentre erano argomentate, a favore dell’Italia. Quanto a Kohl, Castronovo riporta la battuta del “Financial Times”: “Se l’Italia entra, Kohl esce”. L’Italia infine fu ammessa agli accordi finali sull’euro, e Kohl perse le elezioni, dopo quattro mandati, a fine settembre 1997. Le perse perché con la riunificazione, che aveva voluto da grande statista, aveva impoverito la Germania nel complesso. Ma è vero che aveva anche lui voluto l’Italia nell’euro, contro tutti i suoi consigliori, da vecchio europeo – o da nuovo tedesco, con la riserva mentale? Questa invece è una mancanza grave: la nuova Germania. L’euro fu apprestato, dopo il trattato di Maastricht, mentre la Germania mutava natura. Senza più i russi a Berlino – la Germania, nel 1989, era ancora sotto occupazione. Senza più dover dipendere da Parigi, che peraltro dopo Mitterrand si inabissava. Né dall’Italia, per dire, e in Italia dal Pci, consigliere e stanza di compensazione nei confronti di Mosca. Berlino non è Bonn. La Germania non è più una popolazione e un’economia alla pari con la Francia, la Gran Bretagna o l’Italia, seppure più efficiente e produttiva: è una popolazione, un mercato e una struttura produttiva una volta e mezza ognuno dei paesi maggiori. È insomma un’altra Germania: già quella del quarto Kohl, dopo la riunificazione, era un’altra rispetto a quella del secondo-terzo.
Ma tutta la componente internazionale, preminente nella vicenda europea, è desultoria. E quando c’è, è rituale, di maniera. È la geremiade dell’Europa che avrebbe bisogno di una guida tedesca e della Germania che non vuole o non sa. Mentre invece l’inverso è vero – basta leggere la stampa e la pubblicistica tedesche. È la geremiade, ormai remota, che Barbara Spinelli ha impiantato per facilitare il recupero dei buoni tedeschi nell’Europa unita – tanto buoni, diceva Barbara, che recalcitrano a prenderne la guida. Senza nessun riscontro in Germania, dove anzi, senza complessi e senza arroganze, si discute sempre apertamente di ciò che è e fa l’interesse tedesco. La Germania, già prima della riunificazione, con i cancellieri Schmidt e Kohl, e ancora di più dopo, ha voluto un ruolo dominante e ha lavorato e lavora per questo. Scorrendone gli studi, i commenti, le analisi, anche di uffici e istituti pubblici, e la sociologia critica (Beck, Habermas, Offe, Streeck, Henderlein), questo non solo è palese, è il fatto. Con i governi di centro destra, di Kohl e di Merkel, e con i governi di centro sinistra, di Schröder e della stessa Merkel.
L’essenziale che manca è il vantaggio comparato che l’euro sbilanciato offre al blocco germanico. Che il blocco germanico alimenta, con tutta evidenza, portandosene beneficiario, anche con le maniere forti. Tanto più l’Italia paga caro il suo debito, grazie agli allarmi quasi quotidiani da Berlino e da Francoforte, tanto più la Germania risparmia sul suo, l’aritmetica dello spread la può capire anche lo storico.
Valerio Castronovo, La sindrome tedesca. Europa 1989-2014, Laterza, pp. 295 € 24

venerdì 9 gennaio 2015

La caccia al musulmano è al cristiano

Ma la caccia è all’islam fondamentalista e terrorista o non al cristiano? Poiché il terrorismo è organizzato, finanziato e armato dagli stessi che dicono di combatterlo, l’interrogativo si pone. L’errore, o la stupidità politica, sono sempre possibili. Ma non più quando riemergono costanti. Ormai da quasi quarant’anni, dall’insorgenza khomeinista. In una con l’insorgenza della Trilateral, l’organizzazione dei buoni e saggi segreti dell’Occidente.
Non c’è stata la fine della storia che la Trilateral profetizzava, e non c’è lo scontro di civiltà. Non nel senso di una guerra di trincea, di un fronte islamico e un fronte cristiano che si fronteggiano – anche perché non c’è un fronte cristiano. Ma sì sul piano della civiltà vera e propria, nella concezione dei diritti di libertà, e del senso religioso. Contro una cultura. Fatta di diritti civili e sociali. Che l’islam contesta tutti in vario modo. Specie il lavoro protetto, sindacalizzato, e l’opinione libera Né c’è dialogo possibile: dove è stato tentato, nella Turchia di Ataturk, nella Tunisia di Burghiba, nell’Egitto di Nasser, nel Marocco di Hassan II, nell’Algeria post-rivoluzione, è stato sommerso e disintegrato da insorgenze integraliste imbattibili, a volte anche feroci.
Ma, poi, l’islam è anche in trincea. Seppure su una trincea frastagliata e mobile. Contro i cristiani e contro i mussulmani non integralisti. Fuori dell’Europa e anche dentro, come si vede.
Questi sono fatti accertati, non da ora. Quello che non si dice è che il lavoro protetto e l’opinione libera sono anche all’origine della Trilateral nel 1974, sono la sua bestia nera. Che l’Europa è sommersa, letteralmente,  dall’immigrazione. Pur essendo in crisi economica da sette anni. Almeno mezzo milione di persone solo nel 2014 – di cui quasi la metà attraverso l’Italia. Da un’immigrazione al 99 per cento islamica. E che la “cristianità” – i valori civili e sociali, non la religione – è combattuta dalle potenze cristianissime dell’Europa, oltre che dagli Usa che come si sa sono la reincarnazione del Cristo. Le stesse potenze che poi lamentano l’invadenza e la non affidabilità dell’islam, ma pretendendo di difenderlo, come in effetti fanno.
L’islam è fortemente protetto dall’Occidente - e non l’islam dei migliori, anzi uno affarista – in Medio oriente e in Nord Africa. Mentre si aizza l’islam cattivo contro il cristiano. In Medio Oriente, Nord Africa e Europa.
Lo si aizza direttamente, con azioni militari. E indirettamente, con l’alluvione immigratoria e con la depressione psichica: l’islam dei diritti, ancorché medievali e regressivi, contro un’Europa che ancora si pensa malata di etnocentrismo. E quando non si professa malata la si addita a perversa, reazionaria - etnocentrica… Da parte degli stesi regimi cristianissimi dell’Europa.
Non sarebbe la prima volta che la cristianità si allea con l’islam contro i cristiani – Venezia, la Francia lo fecero spesso, anche la Spagna. Ma questa volta con accortezza. 

Quando l’islam scese in Nigeria

I discorsi, brevi, sono finiti, e gli arredi subito svaniti. Per curiosità più che avidità, il desiderio di una bandiera, d’un pezzo della tela rossa che fasciava il palco, appena contenuto dall’urgenza di abbrancarsi a un elicottero per ripartire. I soldati prevalgono nella corsa sui dignitari e le madame, con la prestanza fisica e il calcio dei mitra. Hanno aspettato che gli stranieri passassero, facendo ala col sussurrio montante “dollars, dollars, bakhshish, bakhshish”, e si sono scatenati: spingendo, volteggiando, hanno occupato i due elicotteroni che avevano portato le autorità di Lagos e non ne scendono, ammassati l’uno sull’altro, le portiere aperte. I notabili locali, ancora imparruccati, si riempiono le tasche di sandwiches.
I soldati s’incontrano già in aeroporto, all’arrivo a Lagos. A differenza dei vecchi dello Zaire, in Nigeria sono reclute, emergono a schiera e chiedono il bakhshish con voce distinta, solo lo sguardo è ugualmente atono. Si va da una sigaretta, i timidi, a un biglietto in dollari, cifrato: c’è chi ne vuole cinque, e chi venti. Una teoria vuole che ognuno dice il numero che conosce. La Nigeria è sempre il Paese del futuro, gli Usa neri. La stampa è libera, il mercato aperto, pagando, la gente vota, i generali ruotano. “Nigeria First” voleva Nnamdi “Zik” Azikiwe, la prima scoperta alla biblioteca del Commonwealth. Ma la patria per ora viene dopo.
Ci si mette in salvo dalle paludi del Niger, al di sotto delle quali il petrolio s’è formato leggero, quasi benzina. Dopo l’inaugurazione solenne del terminale d’imbarco del petrolio, tra Port Harcourt e Bonny. Che hanno storia decorosa, nel delta impaludato dello schiavismo. Port Harcourt è il nome che John Lander, inglese, diede nel 1830 al terminale, allo sbocco del Niger, del commercio degli olii di palma, in concorrenza con lo scalo dei monopolisti, Bonny. Gli altri terminali tra le mangrovie e le acque nere hanno nomi altrimenti evocativi: Forcados è il campo della Shell, Escravos quello americano, le paludi puzzano anche nei ricordi.
Il Grande Progetto è localmente rilanciare il Biafra, ossia la Nigeria cristiana, con un’offensiva civile dopo la guerra, poiché è in Biafra che si trova il petrolio della Nigeria. Ma è rimasto non detto, i mussulmani hanno già occupato i capisaldi. Sono scesi dal Nord non con le armi ma con i soldi dello stesso petrolio, più veloci, e munifici:
- L’islam è mondano, e i poveri amano i ricchi - spiega il vescovo anglicano al Presidente, gli occhi lampeggiando celestiali sull’incarnato delle guance, che lo zuccotto e la mantellina accendono:- La maestà vuole i suoi simboli. Dicono che l’islam si espande sulle gambe dei credenti, consolante sarebbe la fede semplice. Ma la religione deve segnalarsi, la povertà respinge. - Il Presidente borbotta, l’inglese avendo precario, e sta di tre quarti, per invitare i collaboratori a interloquire con le nasalità dell’anglicano. Non si sa che dire a un vescovo, a uno bianco in Africa, anzi roseo. Ma è vero che l’islam è religione politica, fa le leggi e cura la rappresentanza: l’islam scende con marmi, sete, campi di polo, cavalli, frustini, e il saldo presidio maschile, coi soldi sauditi del petrolio.
Il colonialismo lo sapeva, che fu soprattutto espansivo in campo gentilizio. Per la superfetazione della storia in forma di tradizione, e la fabbrica dei nobili. Ci sono esempi nell’esercito, la scuola, lo sport, per l’epica della caccia e la guerra, e nel terziario. Il trafficante ci tiene, e lo ufficiale, il funzionario, il giudice, l’agricoltore - il medico e l’ingegnere no, che si applicano, né il negoziante, che è greco, asiatico, ebreo, ed è concreto, il commercio è genere faticativo, ingrato. Lo scoprirono con gioia gli stessi socialisti quarantottardi o comunardi, deportati in Algeria o al Capo: divenuti agricoltori si atteggiarono a gentiluomini di campagna. Tutti nobili gli africani dopo le colonie, è il lascito più durevole: pochi stimano la libertà, l’autostima dei lavoratori. L’invenzione della tradizione vi fu fertile, degli anziani contro i giovani, gli uomini contro le donne, una tribù contro l’altra, e c’è un pedigree pure per gli ascari.
Gli inglesi, cui venne naturale identificare tribù e aristocrazia, nelle colonie non hanno portato i loro sport popolari, non il rugby, dove gli africani sarebbero imprendibili, né il calcio, che giocherebbero con eleganza, o la boxe, hanno invece sancito e diffuso il cricket, il golf e il polo. La loro indirect rule non era truffaldina, non del tutto, ma una proiezione dello spirito eletto, di apertura se non di utopia, non c’è forse scrittore inglese dopo Shakespeare, da Aphra Benn in poi, che non sia stato coloniale – mentre non ci sono colonie nel grande romanzo francese, con l’eccezione di Ourika della riluttante Claire de Duras, l’amica di Chateaubriand. L’emiro di Kano e Kaduna manda al Sud cavalli arabi e crea club chiusi, su prati di erba smeraldina, tra i pantani e la polvere. Ci sono così due Afriche, nel rapporto con l’Europa. La colonizzazione è stata la stessa, ma il risentimento è diverso: gli africani condividono, col linguaggio, l’umanità degli europei, ma quando l’islam arriva subentra la riserva mentale. La stessa del Nord Africa e il Medio Oriente, una rivalsa che osteggia l’amicizia. È sempre la crociata per l’unico Dio. Oppure gli arabi, come i tedeschi, sono risentiti per non avere ancora vinto la guerra.
(da Astolfo, “La morte è giovane”, romanzo in via di pubblicazione).

L’isolamento europeo

Non c’è solo la crisi economica a isolare l’Europa nel concerto mondiale. Dove si teme che la deflazione possa essere contagiosa, e un cordone sanitario si è apprestato, di misure monetarie e facilitazioni agli investimenti di enormi dimensioni, dagli Usa alla Cina e al Giappone.
Perché dell’Ucraina non è stata investita l’Onu? Perché all’Onu c’era e c’è una maggioranza vasta contro le manovre occidentali in quello sventurato paese. Cha la Ue ha portato allo smembramento, senza mai alzare un dito per difenderlo – e del resto non saprebbe. Col “golpe” di febbraio, non dichiarato ma sotto gli occhi di tutti. Dopo quelli contro la Serbia per il Kossovo, in Libia e in Siria.
L’Europa è non da ora infetta dal terrorismo. Che non ha voluto arginare e sradicare. Né in casa né fuori, ai sui confini, in Palestina, in Nord Africa, in Medio Oriente. Il terrorismo anzi ha di fatto favorito, finanziandone e armandone le imprese in Libia e Siria – nel Kossovo fa capo a un capomafia.  
Vittima da due generazioni di una crisi demografica, vi ha posto rimedio aprendosi a un’immigrazione senza limiti. Un’ondata senza precedenti nella storia, per vastità e sregolatezza. Si dice un assalto organizzato, di grandi masse, in realtà è un’apertura cinica a una forza lavoro di tipo schiavista. Per il beneficio degli affaristi, senza nessuna cura degli squilibri sociali e culturali che si introducono. 

Tre per una lingua

È il primo dei quaderni illustrati del pittore per i bambini, anche cresciuti, regalato nel 1969 alle due nipotine, e forse il più gustoso – anche per l’edizione, semplicemente sontuosa. Filastrocche, indovinelli, calembours, rimette, assonanze, allitterazioni si inseguono dinamitardo la lingua, fino a costruirne l’essenza, il gioco. Tanto vero e imprevedibile. Un caleidoscopio di sensi, suoni, figure, degli stessi suoni in qualche modo, e degli stessi sensi, l’artista si diverte e diverte. Con effetto pedagogico forte, è una lettura che incide: è un’altra analisi logica, e anche grammaticale..
Toti Scialoja, Tre per un topo, Quodlibet, pp. 112 ill. € 18

Letture - 199

letterautore

Acqua – L’acqua è in ogni pagina di “Addio alle armi”, il romanzone della guerra italiana prima e dopo Caporetto. Della pioggia, dei fiumi, delle pozze, dei laghi – del mare meno, anche quando siamo al mare. Ma è tema ben hemingwayano: piove con lui anche sotto il Kilimangiaro. È la mamma che è mancata? Facile tema.
L’acqua ricorre in Hemingway come la latinità, e l’africanità da lui sempre predilette, tra Italia, Spagna, Cuba, Florida e la caccia grossa – raccontata in realtà più che praticata: al campo Hemingway passava le giornate per lo più in vestaglia. Nelle aree della civiltà materna

Amore Un “sentimento religioso”, lo vuole perentorio  il conte Greffi di “Addio alle armi”, un nonagenario che viene dai “tempi di Metternich”, grande giocatore di biliardo e grande saggio. Uno che Hemingway non contraddice.

Complotto - È mancata finora la storia del complotto, nelle stragi di Parigi. Mentre c’è tutta. E naturalmente è letteraria.
L’uscita del romanzo antislamico di Houellebecq era per il 7 gennaio. E il 7 gennaio i fratelli Kouachi, due sbandati, attaccano. Con millimetrica accortezza: una redazione protetta dai codici di accesso, nell’ora in cui i suoi redattori di maggior nome sono convenuti. Uscendo da una macchina che ingombra la strada, con le portiere aperte, alla quale ritornano senza fretta per dileguarsi.
Oppure viceversa: c’era fretta di fare uscire Houellebecq il 7 perché quel giorno era in calendario l’attacco islamico. Il titolo del romanzo non c’era ancora un mese prima. Il testo non è stato disponibile in redazione prima di metà dicembre. È stato mandato in tipografia il 17 o 18, per una lavorazione – bozze, correzione, stampa, rilegatura, distribuzione – affannosa, stanti anche le tante feste. Contemporaneamente, in tre settimane,  un’operazione di traduzioni collettive-presentazione-pubblicizzazione senza precedenti è stata montata, con paginate in tutti i giornali europei.

Il 7 gennaio usciva anche Eco, col nuovo romanzo sul Mussolini trapassato ad altra vita ma non morto. Perché il male non muore mai? No, per un complotto.

Confessione – Nella forma della publicatio sui di Tertulliano è sempre stata una documentazione-esibizione pubblica di sé. Ma ora è di sego opposto. Era penitenziale: si vestiva un saio, di juta o altro tessuto povero, altrimenti nudi, il capo cosparso di cenere e anche il corpo, si digiunava, ci si esponeva in pubblico come peccatori nelle funzioni religiose, si supplicava, si piangeva, si facevano pellegrinaggi e gesti devozionali. Ora è trionfante. Magari per le stesse colpe, ma rovesciandone il senso: non si chiede perdono per la colpa, la si esibisce felici come un titolo di onore e una liberazione.
Oggi la confessione è esibizionista, è parte dell’esibizione di sé che è la cifra della contemporaneità. .Come nelle vecchie confessioni penitenziali pubbliche ogni remora o piega subdola esplorando e portando alla luce, anche inventando, perché no, seppure non più a fini edificanti: oggi si confessa a maggior spolvero e gloria. “Nihil abjectum a me alienum puto” si potrebbe dire la divisa della contemporaneità.

Giornali – Singolare dibattito oggi sul “Venerdì” tra Scalfari e Umberto Eco sul nuovo romanzo dello scrittore, “Numero zero”. Un dibattito in cui non si dice nulla. Anche nell’intervista ieri di Eco con Paolo Di Stefano sul “Corriere della sera” Eco è singolarmente muto. Forse perché sovrastato dal terrorismo a Parigi – quando si spara l’intellettuale si rotola ancora nella botte. Ma anche in questo dibattito pre-strage non si dice nulla.
Il romanzo tratta del giornalismo, lo insolentisce. Ma le sei pagine sono fitte di zero. I giornali si comprano sempre meno? Si leggono ancora meno? Si credono ancora di meno? Antonio Gnoli, uno che sa far parlare anche i filosofi, li pressa in tutti i modi, ma non ne spreme niente: il miglior giornalista e il miglior studioso di giornalismo e comunicazione non sanno che dire, a parte farsi i reciproci complimenti. Anzi nemmeno questo: Scalfari, come sempre scalpitante generoso, loda sempre Eco, Eco incassa e basta – un Eco pieno di sé?

Grande guerra – Il romanzo italiano della Grande Guerra che in questi anni si celebra è americano, quello di Hemingway. Non c’è il romanzo italiano di quell’evento che fu, ed è, determinante per la storia dell’Italia. Del Nord e del Sud. Del contadino e del borghese. Dell’Italia in Europa. Del Sud nell’Italia. Dello Stato e dell’anarchismo. Che invece ci sono, tutti (perfino, seppure di striscio, il Sud: “Vedi Napoli e poi muori è una buona idea”, etc.), in “Addio alle armi”.
C’è Malaparte, “La rivolta dei santi maledetti”, ma viene dopo, ed è un pamphlet antibellicista, di uno peraltro che era stato volontario a 17 o 16 anni – e procede per escandescenze, non è ancora il narratore sovrumano che sarà della seconda guerra, non tiene conto nemmeno delle efferatezze singole, documentate, della guerra stessa, come la rivolta e la decimazione della Brigata Catanzaro. Corrado Tumiati, medico arruolato, tentò un approccio, che però limitò ad alcuni racconti di “Zaino di sanità”, incisivi ma brevi, e di orizzonte circoscritto, sul singolo, sul lavoro spesso tragico in corsia, sul rapporto semplice con gli attendenti.
Il romanzo italiano della Grande Guerra è “Addio alle armi”. Vissuta e raccontata da un estraneo, per quanto volontario (per pochissimi mesi verso la fine), ma con partecipazione, e con intelligenza profonda. Una sorta di “Živago” alla rilettura, di forte emozione. Specie alla rilettura in originale, non affetto dal giovanilismo della traduttrice Pivano: solenne nella semplicità, mai sbracato, sempre conscio della gravità degli eventi. Con gli stessi ingredienti, curiosamente, che il romanzone russo della guerra, e più il film, illustrerà: le bombe, le ferite, le mutilazioni, il fango, la neve, la pioggia, i treni, le distanze, le separazioni, i ritrovamenti, le nascite, la morte. Con lo stesso spirito elevato, non limitato ai facili assiomi contro la guerra. Il romanzo della morte incombente, soverchiante, sull’amicizia, l’amore, ogni voglia di vita.

Non c’è nemmeno il film della Grande Guerra. Che pure si sarebbe prestata, con “Addio alle armi”. O con i tanti, troppi, giovani volontari patrioti: entusiasti, combattenti. Non gli “animali degradati dalla ragione”, cui Malaparte ridurrà i combattenti della seconda guerra in “Kaputt”, ma giovani di fede. Olmi, “Torneranno i prati”, lo sa ma ne limita l’impeto alla sconfitta, a un senso claustrofobico, remissivo, di sconfitta. “Tutti a casa” le fa torto in molti modi.

Puškin – Non è mai stato in Italia, ma era italiano di adozione. Il Puškin italianista si merita oltre trecento pagine del puškiniano Alexey Bukalov, che è il capo dell’ufficio di corrispondenza romano, Italia e Santa Sede, dell’agenzia russa Itar-Tass, nel volumone “Bereg dalnij. Iz zarubezhnoj Pushkiniany”, “La riva lontana. Gli studi esteri su Puškin” (in realtà sugli interessi esteri di Puškin). Bukalov approfondisce la “sensibilità universale”, cosmopolita, del poeta in riguardo all’Italia all’Africa. All’Africa perché il suo bisnonno era africano. Quanto all’Italia, era l’Europa di Puškin, forse più che la Francia.
Ha studiato l’italiano. Lo conosceva abbastanza per tradurre Dante e Petrarca. Bukalov ha repertoriato 94 “inclusioni” di testi italiani nelle opere di Puškin, che dice “sempre molto circostanziate e precise”. A suo parere, Puškin ha tratto dalla letteratura e le arti italiane molti motivi di poesia.

Riscritture – Consuete in musica, da parte degli autori stessi, o anche di altri, contemporanei o successivi, in uso nel cinema americano per i film di successo europei o asiatici, sono ora in auge alla tv: si fanno remake  di film di successo in serial tv. Film con storie per qualche verso morbose, “Hannibal”, “Fargo”. Per un pubblico del genere giallo-horror, o/suspense, e non generalista. Ma il secondo più grande pubblico dopo quello generalista.
In letteratura le riscritture si penserebbero marginali, essendoci il reato di plagio. Ma se ne fanno di più nel quadro del postmodernismo, del calco, l’imitazione, la copia d’autore. La letteratura anzi è a naso più seriale dei cinema.

letterautore@antiit.eu

giovedì 8 gennaio 2015

Terrorismo e libertà

La Francia ha una tradizione di accoglienza. Con rigurgiti xenofobi anche aspri – lo sciovinismo è fenomeno francese. Ma l’accoglienza è stata anch’essa fuori misura. Altrettanto grande che la capacità di assimilazione.
La Francia è il paese che ha probabilmente naturalizzato nella storia più stranieri di ogni altro in Europa: polacchi, italiani, iberici, slavi, africani, indocinesi, e da tre generazioni soprattutto arabi, del Maghreb e altrove. Più forse della Gran Bretagna, che pure ha avuto, in ragione del Commonwealth, per alcuni decenni le porte aperte, al subcontinente indiano e agli africani, del’Africa e dei Caraibi.
La Francia ha anche una tradizione nel diritto d’asilo. Esportò ugonotti in massa, perseguitati per la fede, a creare la Berlino e la Francoforte del Settecento. Poi, dalle “liberazioni” napoleoniche e successivamente, è divenuta rifugio per patrioti di ogni bordo, liberali, radicali, socialisti, dell’Europa, dell’America Latina, dell’Asia. Ma, con la presidenza Mitterrand, a partire quindi dal 1981, con un distinto, e selettivo, spirito sovversivo.
Una sfida sovversiva dovuta più alla “furbizia” del personaggio, che lui chiamava “fiorentinismo” o “machiavellismo”, non spregiativo, che alla difesa della libertà. L’asilo politico accordò ai terroristi italiani condannati, rifiutando l’estradizione, ma non a quelli tedeschi, che respinse o consegnò a Bonn. Ai fuoriusciti iraniani contro lo scià filoamericano, ma non a quelli algerini contro Boumedien filofrancese. Inoltre, attorno ai fuoriusciti organizzò la protezione dei servizi segreti. La ereditò dal suo predecessore Giscard d’Estaing, che l’aveva inaugurata con Khomeini, protetto e rilanciato. E la rafforzò.
Una protezione che dura tuttora, si è visto con Battisti. Che i presidenti Sarkozy e Hollande hanno esteso al terrorismo aranbo mussulmano, in Libia rispettivamente e in Siria. Ma che, con altrettanta evidenza, nel caso dell’islam non assicura reciprocità: troppi terroristi, noti, sono sfuggiti di mano nella stessa Francia.

Terrorismo e libertà – 2

Un’azione militare organizzata, da tempo e in dettaglio, comprese le coperture dopo l’azione. Con obiettivi precisi: gli artisti di grande fama, Wolinski, Cabu, Charb, Tignous. Per un’azione cioè che resti negli annali. Ma non da colpisci e fuggi - da 11 settembre. Piuttosto invece nello stile della “potenza geometrica”, cioè da terroristi radicati. Che vogliono esemplari le loro azioni per fare appello alle masse - la geometrica potenza Piperno in realtà articolava così, dicembre 1978, su “Pre-Print”, numero zero di “Metropoli”, la rivista che seguiva il sequestro di Moro con la strage di via Fani: “Coniugare insieme la terribile bellezza di quel 12 marzo del ‘77 per le strade di Roma con la geometrica potenza dispiegata in via Fani” (la bellezza del 12 marzo 1977, che è centrale nel lungo saggio di Piperno, era un corteo di massa armato).
Non una novità, ma un’azione militare organizzata in ambiente che si dichiara ostile e da tempo è in allarme è un’altra cosa. È come l’attentato alla metropolitana di Londra, anch’esso in ambiente dichiaratamente ostile, contro un certo islam, e al massimo dell’allarme. È un terrorismo antilibertà che si nutre della libertà.
Si dice che questo terrorismo non è militare. Lo si dice a fini di propaganda interna, per limitare gli allarmi. In realtà lo: è addestrato, è finanziato e armato, va preciso sugli obiettivi, è endemico e diffuso, ha cioè dei collegamenti. Non si schiera, non ha falangi né artiglierie, ma questa arte miluitare è invecchiata da mezzo secolo e oltre, dalla presa egiziana di Suez.

L’integrazione sostenibile

Il terrorismo islamico è endemico nei due paesi europei che hanno accolto la maggiore comunità islamica e l’hanno integrata in tutti i diritti, la Gran Bretagna e la Francia. In patria e fuori: sono alcune migliaia gli inglesi e i francesi mussulmani volontari nell’Isis. In Francia è anche diffuso, in città e in provincia, al Nord e al Sud, e sicuramente è sotteso da una rete.
La Gran Bretagna da tempo si era posta la domanda sui limiti dell’integrazione fra cultura diverse. La Francia ha resistito, addebitando il dubbio all’estremismo nazionalista, ma è sempre più confrontata alla realtà britannica: di una comunità che rifiuta l’integrazione nel mentre che ne beneficia e la pretende.
L’integrazione non è più un bene primario: è anzi contestata e sfidata. Si vuole tra i diritti fondamentali affermare la propria diversità in altro regime etnico, sociale e costituzionale. Come uno statuto di extraterritorialità. Per di più, nel caso islamico, per un fattore non dirimente negli Stati moderni, il credo religioso. Una sfida letale. Tanto più in quanto l’integrazione vuole un impianto solido, altrimenti è dissoluzione.
Quando era bene primario, fino a tutto il Novecento, l’integrazione si basava su uno zoccolo forte, con aperture e sviluppi “sostenibili”, come è d’uso dire. Con la libertà religiosa ma con la comunanza dei diritti per tutti, civili e sociali, maschi e femmine, per lavoratori autoctoni e immigrati. Ora non più, ma non c’è altro modello che quello. Altrimenti l’integrazione degenera nel disordine, nel caos. È sfida costante e non rimarginabile. Recepita, anche questo è inevitabile, come una sorta di guerra civile, di sterminio, che estranei condurrebbero in casa propria.

Un inviato speciale speciale

Ancora questa mattina, a 85 anni, il più pronto, preciso e acuto su “la Repubblica” fra i cronisti della strage di Parigi - parigino peraltro di sentimenti, come molti parmigiani. Da qualche giorno Valli si era concesso questo libro: un vezzo forse senile, pubblicare un libro, a cui aveva sempre resistito, unico giornalista italiano. Ma niente più di una raccolta di articoli per i giornali nei quali ha lavorato, dal “Giorno” a “la Repubblica”. Cinquant’anni, quasi sessanta, di viaggi, da Agrigento e Genco Russo, il vecchio mafioso che si nega,  ai cinque continenti. Con molto terzo Mondo, come usava un tempo, la periferia delle grandi potenze.
Una traccia più che una celebrazione, benché corposa. Valli è tutto nei particolari, visti o uditi. Poca politica e poca diplomazia, molti particolari, e qualche, rara, impressione. Non arabesca, non inquadra, non ideologizza - “Un km. di corone (1.500) aprono il corteo” funebre di Togliatti è il suo reportage tipo. Contestualizza (“taglia”) anche poco, e questo, purtroppo, non aiuta, ma sempre in omaggio all’onestà: Valli è un bel decano degli inviati speciali, di pronto intervento sui teatri più diversi, professione in via d’estinzione. Più che una memoria dei fatti un manuale di buon giornalismo.
Bernardo Valli, La verità del momento, Mondadori, pp. XIV-1035 € 35

Una legge ad personas

Perché il codicillo salva-Silvio non può essere cassato e basta? Perché non era disegnato per Berlusconi – la frode per cui è condananto sarà lo 0,0 qualcosa per cento della sua ricchezza, non il 3, e comunque nessuno può fare nulla per il Berlusconi condannato - ma per altri illustri ricconi: banchieri, imprenditori e manager, anche pubblici, di cui il partito Democratico non può disinteressarsi. I quali saranno salvati distinguendo tra “dichiarazione infedele” e “frode”.
La distinzione è una sottigliezza del ministero del Tesoro – una “dichiarazione infedele” in fatto di fatture false è difficilmente concepibile, ma al Tesoro ci sono grandi capacità dialettiche. La misura salva-amici era invece stata illustrata e richiesta direttamente a Renzi, in qualità di capo del partito Democratico, da altri illustri esponenti del partito.  
La distinzione peraltro non si farà subito. Fino al 20 febbraio – alla vigilia della scadenza del decreto, se non approvato dalle Camere - gli affaristi amici non avranno bisogno di dimostrare la non frode. Dopodiché resteranno, se resteranno, solo le code del business da sistemare, poca roba, al di sotto del 3 per cento del reddito. Una legge ad personas.
La frode è il reato per cui Milano ha condannato Berlusconi. Cui comunque la legge non si può applicare perché è già condannato, e da tempo.
Perché tanto rumore allora? Per nascondere i veri beneficiari. Che a giudicare dalla strafottenza di Renzi sono più con la fronda democrat, di D’Alema, Visco, Bersani etc., che con lui. La scadenza ritardata al 20 febbraio, a dopo l’elezione per il Quirinale, serve a Renzi per catturare la fronda interna più che Berlusconi

mercoledì 7 gennaio 2015

Ombre - 250

C’è - è evidente per i tanti attentati - una solida rete islamica in Francia, terrorista. Di islamici francesi a tutti gli effetti. La coincidenza dell’attacco di oggi con l’uscita del libro “islamico” dello scrittore Houellebecq è, come tutte, non fortuita: attentati islamici se ne fanno e se ne faranno ogni giorno, questo è solo più sanguinoso (riuscito). Non è questione di donne, è pur sempre uno scontro di civiltà.

Fu la Francia a proteggere e lanciare internazionalmente il fondamentalismo islamico, offrendo un palcoscenico internazionale all’ayatollah Khomeini nel 1978. In un paesino, Neauphle-le-Chateau, che si voleva remoto e invece, vicino a Parigi, fu drizzato come un palcoscenico e un’emittente “dedicati”, con alloggi per i visitatori, interpreti, ripetitori tv.  

Impazza l’arte dei funerali dei cantanti. Si penserebbe un segno di affetto, anche di riconoscenza. Ma tra liti di mogli, e di fratelli. Per i diritti?
La pratica fu inaugurata dai giudici. Senza i diritti, ma anche loro con fratelli litigiosi.

L’affluenza è però in disuso. Per Pino Daniele, onest’uomo, siamo scesi dai 200 mila del primo giorno a 100 mila, poi a 50, oggi alle migliaia.

Quando muore un cantante, o altro personaggio illustre dello show business, i giudici aprono un’inchiesta. Che non concludono mai.

Sollievo, plauso, inno a Bruxelles che dichiara “irrevocabile” l’appartenenza all’euro. Una dichiarazione che non vuole dire nulla, chiunque può uscirne quando vuole, ma serve a far pagare all’Italia interessi più alti sul suo debito - venti punti base sullunghia. Stupidità? Ce ne vorrebbe troppa.

Il codicillo salva-Silvio introdotto all’insaputa di Berlusconi è da non credere. Cioè, per una volta Berlusconi è da credere - la frode per cui è condannato è lo 0,1-0,2 per cento della sua ricchezza, reato ben più veniale del 3 per cento di abbuono introdotto da Renzi. Ma lo ha veramente introdotto Renzi? Certo, non per soggiogarsi Berlusconi nell’elezione del presidente. Oppure è stato insinuato dai suoi oppositori nel partito? E chi lo ha segnalato, pochi secondi dopo il varo del decreto: Renzi o gli oppositori?

Sartre seppe con un mese d’anticipo di avere avuto il Nobel per la letteratura. Ma aspettò fino alla vigilia della cerimonia per proclamare il gran rifiuto. Il suo esistenzialismo era pubblicitario: da Juliette Gréco all’Accademia Svedese.

Le redazioni sportive della Rai vogliono la moviola in campo. Sapendola uno strumento traditore per natura: è fatta d’illuminazione, taglio dell’immagine, presa dell’immagine,  nanomontaggi di nanosecondi, furfanterie che un regista non eccelso può maneggiare. Per il loro divertimento personale? Per seminare zizzania: infuriare i tifosi, provocare violenze.

Renzi nazionalizza Taranto, il giorno di Natale. Nel silenzio. Di ammirazione?
Non c’è solo Taranto: Electrolux, Meridiana, Terni, Termini Imerese, Porto Marghera, sono decine i casi di licenziamenti rientrati o sospesi per iniziativa della ministra Guidi. Silenzio: il governo deve cadere.

Il padre, lo sci, il codicillo: questa grande voglia di abbattere Renzi, non da parte dei suoi avversari, come è da interpretare? C’è una Spectre?

È vero che il Pd (e la Cgil)  pullulano di omuncoli. Ma perché i grandi giornali e le tv ce li spupazzano? Siamo oberati da interviste coni gente da niente: decidono di tutto, dalle staminali al papa. Si occupano spesso di lavoro, pur non avendo mai lavorato.

Il papa parla lunfardo, spiega Maria Antonietta Calabrò basandosi sui suoi esegeti argentini. Dunque è un papa borgesiano, adoratore delle periferie, purché di Buenos Aires, più che francescano, o gesuita. E maneggia il coltello?

Dei 170 mila immigrati sbarcati quest’anno almeno 23 mila sono minori. Per metà senza genitori. Anche loro hanno pagato cinquemila dollari per la traversata? Ma anche solo mille, sono poco credibili. Non c’è un mercato? 

La donna crudele piace alle donne

Un altro film antifemminista. Di donne in vario modo castratrici. Non più il genere “vaso di Pandora”, o della seduzione, ma il la crudeltà perversa. Non se ne salva una, giornaliste, ladre, mogli, e non ci sono limiti alle loro cattiverie.
Una “Guerra dei Rose” tutta al femminile – lui è il buon cagnone Ben Afflek. Lei, Rosamnd Pike, letteralmente se lo divora. Un filone che evidentemente piace. Piace alle donne, che vanno al cinema, e ne hanno fatto un successo, in attesa dei premi a fine mese.  
David Fincher, L’amore bugiardo (The gone girl)

Recessione - 30

Tutto quello che dovremmo sapere e non si dice:
Tre milioni e mezzo di disoccupati ufficiali a novembre è il record storico negativo per l’Italia. Tanto più in quanto il tasso di occupazione si sta avvicinando a una persona su due (l’Istat lo calcola al 55,5 per cento), dal due su tre.
Il tasso di occupazione misura il rapporto tra gli occupati e la popolazione in età lavorativa, 15-65 anni: molti italiani, soprattutto donne, non cercano più lavoro.

La Bce discute e “fissa” la deflazione allo 0,1 per cento. Mentre è un fato che è sostanziosa, anche per effetto del crollo dei prezzi dell’energia. E non è una novità dell’ultimo trimestre.

Dal 2008 “in Italia è come se fosse sparito il 40 per cento del mercato”, dice l’ad di Ikea, in Italia, Lars Petersson, a Dario Di Vico. Il 40 per cento del suo settore, i mobili, ma anche di tutte le spese in consumi.

L’economia doveva crescere dello 0,8 per cento nel 2014, poi dello 0,3. E invece è stata a crescita negativa, forse solo dello 0,3.

Seicentomila posti di lavoro sono stati tagliati negli ultimi tre anni.

Sade ammansito in Italia

Di tutte le opere del Grand Tour la meno immaginifica - il lungo saggio di Carlo Pasi, su Sade e l’Italia, a partire dal radicamento cui Sade ambiva della sua famiglia nella Laura del Petrarca, sono la parte migliore del viaggio. E tuttavia utile come repertorio, su Firenze, Roma e Napoli, e i dintorni di Roma e Napoli: palazzi, gallerie, monumenti, in elenchi minuziosi, precisi, e freddi.
Il viaggio durò alcuni mesi tra il 1775 e il 1776, quando già la fama del giovane marchese era sulfurea, e anzi per sfuggire alle possibili conseguenze dell’ultimo scandalo, la condanna attesa a Lione per abusi su cinque ragazze minorenni nel suo castello di La Coste. Nel 1772 era già stato in Italia, per sfuggire alla condanna a morte del tribunale di Aix per avvelenamento e sodomia, ma standosene tra Torino e la Savoia, e senza la pretesa di doverne scrivere
I costumi sessuali vi hanno poche righe. Naturalmente di carattere sadiano, seppure al coperto dello sdegno. La pedofilia di cui a Napoli si faceva mercato, femminile (“bambinette di quattro o cinque anni”) e maschile, e a Firenze. Dove la metà delle donne per bene fa meretricio – “Si afferma che la metà delle donne di qualità della città si prostituivano a casa loro”.
Questa è l’edizione completa, approntata nel 1996, con alcuni capitoli inediti sui dintorni di Napoli e di Roma. Una guida turistica, intesa come elenco di opere. Con le illustrazioni (disegni, sanguigne, gouaches) del compagno di viaggio del marchese, il pittore Jean-Baptiste Tiercé, da lui appositamente ingaggiato.
Donatien Alphonse François, marchese de Sade, Viaggio in Italia, Bollati Boringhieri outlet, pp. LXXVI + 422 . ill. € 30,98

martedì 6 gennaio 2015

Ecco Draghi, si compra il debito greco

Ed ecco finalmente, dopo tanto tuonare, il quantitative easing si fa: la Bce si comprerà il debito greco. Non è molto, quello detenuto fuori dalla Grecia dovrebbe essere sui 150-160 miliardi. E risanerà definitivamente le banche tedesche, che ne detengono 80 miliardi. Poi negozierà con Atene tassi ragionevoli, e anche il fiero Tsipras potrà recedere dall’intenzione di non pagare il debito.
L’effetto di questo quantitative easing sarà nullo sull’economia dell’Europa dell’euro – la Grecia vi ha parte minima. Mentre renderà più difficile l’uscita dalla recessione per economie più consistenti, Italia e Francia. L’effetto espansivo di questo quantitative easing a scoppio ritardato è minimo. E si accompagna a professioni di austerità rinnovate, a Bruxelles e Francoforte, quali si succedono: nessuna flessibilità, ancora tagli e tasse, solo tagli e tasse.
La partita per l’uscita dall’austerità è sempre agli inizi. Renzi non ha ottenuto nulla in dieci mesi ormai di governo. 

L’Europa salvata dal Mediterraneo

L’Europa salvata dalla Grecia e dalla Spagna è solo un’ipotesi. Ma è più di wishful thinking, di un auspicio avventato.
Uscire dall’austerità è la ricetta per l’Europa. La sola - il consenso è unanime. La sola possibilità di sopravvivenza per l’Europa, per una buona metà di essa. A cui Angela Merkel e i suoi gregari, dalla Spagna, finora, ai Baltici, si oppongono, per il (piccolo, temporaneo) beneficio concorrenziale che ne derivano in confronto al resto del continente.
Tutto questo si potrebbe ribaltare quest’anno con le elezioni in Grecia e Spagna. Syriza da sola non basta. Ma se Tsipras riesce a barcamenarsi fino a fine anno, con la Spagna di Podemos allora darebbe una spallata definitiva alla jugulazione del blocco germanico. Grecia e Spagna insieme non fanno una grande forza, ma Iglesias sottrarrebbe la Spagna al fronte dell’austerità. A cui altre defezioni potrebbero seguire. Ma, soprattutto, il fronte dell’austerità si dissolverebbe di fronte al fatto compiuto di una ripresa del lavoro, dell’occupazione, del reddito, anche se in economie tutto sommato marginali dell’Unione.
Prima di Podemos, il fronte anti austerità potrebbe rafforzarsi, ma allora in modo consistente, con l’Italia. Se Renzi riuscirà a portare al Quirinale un presidente di sostanza. Uno che dia fiducia ai mercati senza essere succube di Angela Merkel.
La mina mediterranea in questo caso, con un Quirinale non più popolato da quisling, farebbe valanga. Un ri-schieramento italiano smuoverebbe le acque della Grande Coalizione coi socialisti su cui si basa il terzo Merkel.   

Il mondo com'è (201)

astolfo

Artiglieria – Non c’è gloria in aviazione, l’arma vincente delle guerre da un secolo, la più distruttiva. Come non ce n’è stata nell’arma a distanza che la precedette, la più distruttiva, l’artiglieria. Forse Napoleone, ma fu una artigliere per modo di dire: alla scuola si classificò 42mo su 58, e in piazza non sparò una cannonata – solo inquadrò l’artiglieria nella fanteria.
Non c’è comunque gloria in artiglieria. L’unica battaglia che si ricordi vinta dai cannoni prima dei semoventi fu Caporetto. Dove l’artiglieria austriaca distrusse al buio in due ore e mezza, dalle 2 alle 4,30, l’artiglieria italiana, e in un’ora, fra le 6,30 e le 7,30, le prime linee. Ma più per l’insipienza dei comandi italiani, che si offrirono a immobile bersaglio.
L’artigliere che più ha fatto carriera, Choderlos de Laclos, governatore delle colonie francesi a Est del Capo di Buona Speranza con la Rivoluzione, e con Napoleone generale d’artiglieria nell’armata del Reno, nell’armata d’Italia, a Santo Domingo e nello Stato di Napoli, non ha mai tirato un colpo. A Mozambano comandava la riserva, a Santo Domingo non c’è mai stato, e sbarcò a Taranto per morirvi, di malaria e diarrea.

Funerale - È un’arte. Da qualche tempo passata in disuso, ma viva fino almeno a trent’anni fa, ai funerali di Berlinguer, e tuttora in auge in una certa sinistra, per esempio con la camera ardente laica in Campidoglio, nella sala monumentale della Protomoteca (fino a trecento persone) o in quella più raccolta del Carroccio (cento). Era un’arte gesuitica, secondo il Gioberti polemista del “Gesuita moderno”. Poi diventata togliattiana, a partire dal funerale di Malaparte nel 1957. Il trionfo fu il funerale di Togliatti sette anni dopo: “Un km. di corone (1.500) in corteo”, segnalava Bernardo Valli sul “Giorno”. Replicato per Pasolini, senza più tante corone, ma in Campo dei Fiori, con molti massicci oratori. E per Berlinguer.

Gladstone – In “Misteri” Hamsun lo fa confidente e protettore dell’irlandese James Carey, un pentito antifeniano che poi aiuterà a fuggire in Africa. È vero. Il 6 maggio 1882 un commando di indipendentisti irlandesi, capitanato da Carey, assassinò lord Cavendish, Alto Rappresentante (Chief Secretary) per l’Irlanda, e il suo vice Thomas Henry Burke, un irlandese, cattolico. Senza problemi, li uccise mentre passeggiavano nel parco Phoenix. Carey, un consigliere municipale di Dublino, arrestato come sospetto, denunciò i cinque membri della sua cellula, che un anno dopo furono impiccati. Per sé negoziò col governo Gladstone una nuova identità e una nuova opportunità in Sud Africa. Ma nel viaggio, dopo una bevuta, manifestò la sua identità, e un altro irlandese, Patrick O’ Donnell, che veniva dagli Stati Uniti e viaggiava sulla stessa nave, lo uccise a pistolettate. Anche O’Donnell, tradotto a Londra,sarà impiccato, a metà dicembre 1883.
Tutto si svolgeva rapidamente. Il liberale Gladstone era ferocemente contro ogni forma di indipendenza dell’Irlanda.

Guerre mondiali – L’Italia le affrontò neutrale. Con l’Italia neutrale, da una parte o dall’altra, il blocco germanico le avrebbe vinte entrambe – la seconda si sarebbe giocata forse a ruoli aggressori\aggrediti invertiti.
Si celebra la Grande Guerra – e quest’anno anche la seconda, alla Liberazione – tacendo il fatto principale, per l’Italia e per l’esito delle stesse guerre. L’Italia fu in entrambi i casi per un anno, e avrebbe potuto-voluto restarlo, neutrale. Sia pure, come si vuole, per calcolo e incapacità. Fu però per scelta, in entrambi i casi. Malgrado alleanze che si vogliono cogenti all’entrata in guerra e invece erano giuridicamente, oltre che nell’ottica italiana difensive, e non aggressive. Senza l’Italia, in entrambi i casi, il blocco germanico era all’offensiva, e nel secondo conflitto già vittorioso.
Nella seconda guerra, la partecipazione italiana aprì i primi fronti di debolezza nello schieramento germanico, nel Mediterraneo e in Nord Africa – in parallelo con l’avventura nelle steppe sovietiche.  

Sospetto – È il segno e il veicolo della dissociazione sociale. Per esempio con la cosiddetta questione morale della società “civile”, con i buoni e i cattivi, col “noi e loro”. Si controllano (dissolvono) le società, insegnava la dinsiformacija sovietica, seminando il sospetto tra i cittadini. La reciproca fiducia tra i cittadini, philia, è secondo Aristotele il fondamento più saldo della buona politica.

Tambroni - Sono passati sotto silenzio l’anno scorso i cinquant’anni dalla morte di Fernando Tambroni, il nono presidente del consiglio italiano, a partire dal 26 marzo 1960. Uno di fondatori della Dc nel 1943, che al VII congresso della Dc pochi mesi prima si era espresso a favore di un governo di centro-sinistra con il Psi. Nominato dal presidente Gronchi per “stanare” il loro stesso partito, la Dc, divisa tra Segni e Moro, destra e sinistra, Tambroni tentò il monocolore Dc. L’Italia aveva bisogno di un governo perché ospitava l’Olimpiade di Roma. Si espose ai voti dei neofascisti, fu abbandonato dai ministri della sinistra Dc, dovette dimettersi, ma dopo un’esplorazione fallimentare di Fanfani si vide rigettate da Gronchi le dimissioni e completò l’iter parlamentare con la fiducia. Tambroni si era segnalato anche per essere stato un ministro dell’Interno energico, soprattutto contro la malavita organizzata. La decisone del Msi di tenere il congresso a Genova fu l’esca per una serie di manifestazioni di protesta, che Tambroni fece contrastare energicamente dalle forse dell’ordine. Il 7 luglio a Reggio Emilia ci frono cinque morti tra i manifestanti. Il congresso del Msi non si tenne. Il Msi non votò il bilancio, e dodici giorni dopo Tambroni si dimise, lasciando il posto a Fanfani.
Nelle ricostruzioni storiche il governo Tambroni viene solitamente assolto da progetti o tentazioni autoritarie. Considerando anche che il presidente Gronchi che l’aveva voluto e sostenuto era capofila della Dc di sinistra. Ma la politica visse quei giorni come se il tentativo di golpe ci fosse. Moro aveva già predisposto l’esilio in Svizzera, tramite il fidato segretario Sereno Freato. Togliatti invece aspettava a Mosca.

Il governo Tambroni durò in tutto tre mesi e mezzo, scomputando i giorni dell’esplorazione Fanfani. Sufficienti a Valentino Bompiani a pubblicare “Il senso dello Stato”, quattrocento pagine di discorsi di Tambroni.

Terrorista – È il puro e duro di Nietzsche. Non si dice ma lo è – senza averlo letto, non necessariamente: vengono dallo stesso rifiuto di sé, e quindi del mondo. Anche del terrorismo più domestico, italiano, che si dovrebbe meglio conoscere: lo si è detto dannunziano, mentre D’Annunzio è persona immaginifica e, suo malgrado forse, rispettabile: non ha fato mai del male a nessuno. No, è l’aura Nietzsche, il rifiuto sotto forma di buona coscienza di sé, la vecchia presunzione.

atolfo@antiit.eu

Riecco il Grande Fratello, amato

Si suole dire di questo Orwell che il futuro lo ha smentito. Ma non lo ha invece confermato? Tanto più che la sua non è una profezia, ma una psicologia. Cambiando di segno il Grande Fratello, è anzi ancora più grande, onnipresente se non devastante. E soprattutto è convincete, come vuole essere nel “1984”: amato, creduto – l’ultima frase del romanzo è “Amava il Grande Fratello”. Che oggi ha solo difensori.
Questa riedizione giubilare, per i trent’anni simbolici dal 1984, è la vecchia traduzione Oscar ricopertinata. Non una grande emozione. Ma sì realizzando che in questi trenta anni, compresi i venticinque dalla caduta del Muro, niente è stato detto o fatto contro, nessuna palinodia. Il Grande Fratello si è dissolto, ma nessuno chiede scusa o dice “mi sono sbagliato”. Tutti più o meno ancorati ancora alle sue maiuscole verità:
LA GUERRA È LA PACE
LA LIBERTÁ È LA SCHIAVITÚ
L’IGNORANZA È FORZA. Chi obietta?
“1984” è ancora una satira antisovietica, ma nell’intimo colpisce, con curiosa preveggenza, il mondo post 1984, cioè l’oggi: Oceania siamo noi – Oceania del resto raggruppava già allora le Americhe, Londra con il Commonwealth, e l’appendice africana. Governati infine dallo Stato globale, invisibile ma totalitario, benché si camuffi col mercato. Che da tempo ha sostituito la pubblica opinione all'olio di ricino, e sempre si fa votare. “1984” è il romanzo dello Stato globale, e lo Stato globale siamo noi, oggi, i trionfatori del “1984” storico. Si esce dalla rilettura ossessionati, come da un incubo reale: della vita, inclusi gli aspetti più personali, dagli affetti all’avidità, ridotti quali sono oggi, alla sola dimensione pubblica, cioè politica, cioè di polizia – l’opinione in balia dell’affarismo, dallo shopping all’eterologa. Riletto, il “romanzo” non è tanto una lettura del comunismo sovietico, quanto di un mondo di strutture e sovrastrutture, e di ideologie. Né più né meno di quello odierno, bancario, avido, inflessibile, totalitario.
Orwell va riletto quale Hobbes contemporaneo, filosofo compassionevole della politica, nella guerra civile continentale del Novecento: “Ogni giorno distruggiamo parole”, spiega Syme, il linguista di regime, “dozzine di parole, centinaia di parole. Tagliamo il linguaggio all’osso”, per restringere il campo del pensiero: “Alla fine, attraverso il pensiero, renderemo letteralmente impossibile il crimine, perché non ci saranno parole per esprimerlo”.
La distopia di Orwell è attuale, altroché. Lo è stata per un verso in mezza Europa fino al 1989, e lo è da allora, blanda ma inesauribile, in tutta Europa: mai tanta censura all’intelligenza.
George Orwell, 1984, Oscar, ril., pp. 336 € 12

lunedì 5 gennaio 2015

Problemi di base - 210

spock

Ma dove li trova il sindaco Marino, assessori e vigili urbani?

E Marino?

Dice: sono le primarie. Degli incapienti?

Dice: però è onesto. Però?

È meglio uno magro (disappetente) o uno grasso (mangione), che ne direbbe Shakespeare?

E l’onestà, è assottigliarsi?

Roma a Pignatone, che bollito ne verrà?

spock@antiit.eu