“Fin dai primi tempi
dell’islam, e soprattutto per gli sciiti dall’assassinio di A lì, l’uccisione
di un musulmano per opera di un altro musulmano – e Dio sa se ce ne sono state –
conserva sempre la forza dello scandalo religioso, e che significa ugualmente
scandalo politico e giuridico”. Ora i morti mussulmani per mano di mussulmani
non sono soltanto la guardia giurata Ahmed con le mani in alto freddata sul marciapiedi
di “Charlie Hebdo”. Sono centinaia ogni giorno, migliaia, nelle scuole, i
mercati, le piazze, le campagne indifese. Questo “Taccuino”, voluto vent’anni
fa da Renzo Guolo e Pierluigi Panza, benché critici, come “«autentica» radicale
alternativa all’Occidente”, presagisce solo un barbaro bagno di sangue, all’insegna
dello “stato islamico” ma a nessun effetto, per primo tra i mussulmani, con i
sunniti a caccia di sciiti, e tra le diverse confessioni sunnite. In
Afghanistan, Irak, Siria, Nigeria, Pakistan, Libia, fronti islamici in forma di
bande pullulano come sciami di mosche sanguinarie. Al seguito di guide e rais
formati spesso e sempre finanziati e armati dall’Occidente che dicono di
combattere: dai potentati della penisola
arabica, dagli Stati Uniti, alla Francia, dalla Gran Bretagna.
Il “modello alternativo”
all’Occidente è residuato sovietico, una forma di propaganda, ora pure insulsa
e stucchevole. Foucault, benché vigile, ne fu vittima negli anni 1978-1979,
quelli di queste corrispondenze. Il “Taccuino” raccoglie gli articoli del
filosofo inviato speciale a Teheran per il “Corriere della sera” da fine settembre
1978 a fine febbraio 1979. Sei saggetti, redatti sulla base di un accordo tra
il quotidiano e una non precisata Équipe
Foucault. Di scrittura rapida, giornalistica. Sapida a volte, di figurazioni
plastiche. “Il re e il santo” per esempio, il despota in armi e l’esule inerme.
Ma di singolare indigenza politica: Khomeini non era Francesco, e non era un
“santo”, o allora un santo in armi. Mentre era già a tutti noto che era un
ayatollah tra i tanti, più attivo che dotto, esule volontario da un decennio a
Kerbela, che si trova nell’Irak dell’odiato Saddam, uno peggio dello scià,
specie con gli imam, recuperato e montato dai servizi segreti francesi, che lo
installarono con li amplificatori poco fuori Parigi, abbastanza per controllarlo
e garantirne l’incolumità, ma in piena disponibilità dei media.
Il modello alternativo
Ma non c’è solo l’oggetto
misterioso Khomeini. Preciso e acuto sulle colpe dello scià, già ampiamente
note, Foucault è confuso sull’Iran, sulla sua “civiltà millenaria”, che riduce
al neo colonialismo delle compagnie petrolifere. E sull’islam di cui non sa
nulla – dell’islam come di ogni religione. Del “governo islamico” che tratta in
più punti: “Si dice spesso che le definizioni di governo islamico sono imprecise”,
scrive in una delle prime corrispondenze: “Esse mi sono invece sembrate di una
limpidità molto familiare, e devo dire abbastanza poco rassicurante”. Ma se lo fa definire “un’utopia”, in
alternativa a “un ideale”. Personalmente, concludendo, “come «volontà politica»
mi ha impressionato”. Il “governo islamico” che non trova e lo disorienta era
già bell’e fatto, da sempre, lì vicino, in Afghanistan. Non un esempio di buon
governo.
Sa di Ali Shariati, l’imam
morto giovane, che aveva studiato alla Sorbona, e una legge islamica teorizzava
giusta, per donne e uomini ugualmente, ricchi e poveri. Ma lo confonde con Khomeini,
uomo di potere e non di dottrina. È stato a Qom, ma non ne ha capito l’intima
natura, di centro teologico di alta intelligenza e pratico modo di vita – la “saggezza
dell’ayatollah”, a Qom e nella remota provincia che è il cuore dell’Iran, era
già disponibile negli studi e i ricordi, anche divertiti, di Roberto Scarcia e
Giorgio Vercellin.
Come già dieci anni
prima, col Maggio 1968, seppure non allineato, Foucault si vuole movimentista -
“ più s’incasina meglio è”. Sulla traccia di Sartre suo insospettato modello, il
maître-à-penser che si lasciava
insolentire in pubblico da Cohn-Bendit. La piazza lo affascina. Era anche l’uso
dei movimentisti negli anni 1970, quelli della deriva terrorista in Italia e in
Europa, di “puntare” sulle rivoluzioni, per non fare autocoscienza. Per i garofani nel 1984 tutti in massa in
Portogallo, dove la rivoluzione era fatta dai colonnelli. Foucault si è perso i
garofani, ma per l’insurrezione di popolo contro lo scià si è sintonizzato
rapido ed è andato anche lui a vedere. Entusiasta dapprima: “È forse la prima
grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più folle e più
moderna di rivolta”. A fine febbraio 1979 è perplesso. Lo scià è partito il 16
gennaio, Khomeini è arrivato l’1 febbraio, il 17 sono cominciate le esecuzioni
sommarie, il 19 è stato fondato un partito unico della Repubblica islamica, Un
po’ troppo per l’uomo “che non fa politica”.
Il 26 febbraio 1979
Khomeini era già l’uomo del destino, e Foucault si disillude, con un’incollerita
profezia: “L’islam – che non è semplicemente religione, ma modo di vita e appartenenza
a una religione e a una civiltà - rischia di costituire una gigantesca polveriera
formata da centinaia di milioni di uomini. Da ieri ogni stato mussulmano può essere
rivoluzionario dall’interno, a partire dalle sue tradizioni secolari”. Dove
intanto “rivoluzionario” va letto “rivoluzionato”, così aveva scritto Foucault:
“Ogni Stato mussulmano può essere rivoluzionato dall’interno”. Ma anche con
questa precisazione non è la zampata finale del leone che molti lusinga. Non
vuole dire niente. Se non che Foucault è singolarmente sprovveduto di fronte al
fatto religioso. E all’Iran. La civiltà iraniana, benché islamica, non ha nulla
in comune con quella araba del Golfo, ancorché sciita, o afghana, o pakistana,
o tra Nord e Sud Sahara. Mentre che ogni Stato possa essere rivoluzionato dall’interno,
questo si sa da un paio di secoli di nazionalismo, oltre che dai duci e i führer.
L’1 aprile Khomeini proclama
la Repubblica islamica. Il 15 aprile Foucault protesta con Mehdi Bazargan,
primo ministro di Khomeini (sul “Nouvel Observateur”, ma la lettera aperta è
aggiunta al “Taccuino”) per le esecuzioni sommarie, molto rispettosamente.
Dopodiché non parlerà mai più dell’Iran. Né si riprenderanno questi suoi
scritti, nella pur fittissima pubblicazione di ogni suo pur minimo detto e
scritto. Saranno ripresi vent’anni fa in questa edizione italiana, con i saggi
critici di Renzo Guolo e Pierluigi Panza, e in una pubblicazione americana, con
le critiche di Maxime Rodinson, eminente islamista, e Simone de Beauvoir. In
francese non c’è, neanche nella tante voluminose raccolte di “Detti e scritti”,
la devozione fa aggio (gli stessi curatori dell’edizione americana, Janet Afary
and Kevin B. Anderson, vogliono l’Iran un “un punto di svolta” del pensiero foucaultiano,
in tema di illuminismo, omosessualità, e spiritualità politica…)..
Non grandi scritti, in
effetti, oltre che sbilanciati a favore di un Khomeini che non conosce. Sono importanti
perché hanno fatto l’opinione del “Corriere della sera”, e quindi dell’Italia. Nessun
guizzo, un laser che scalfisca il risaputo. Panza mette in rilievo il carattere
regressivo che ogni rivoluzione ha per Foucault. Ma non c’è nemmeno il misoneismo:
c’è un’affrettata, entusiasta, intollerabile lettura degli eventi in cui per
una volta lo studioso si è voluto addentrare. Con molta ignoranza, anche se voluta
e esibita. E poca curiosità, anche soltanto giornalistica.
Dovendo fare l’inviato
speciale, il filosofo si lascia anche prendere dalla semplificazione
giornalistica. Ma senza l’intuito della novità, del senso dell’evento mentre si
produce. Finendo per intrappolarsi nel vieto e falso dualismo Occidente-Oriente
che faceva la guerra fredda. Anche i fatti semplici che viene a sapere – “fino
al’attuale dinastia, i mullah nelle moschee predicavano col fucile a fianco” –
li trascura. Da giornalista non giornalista, senza cioè il fiuto della realtà
delle circostanze e degli avvenimenti. Insensibile a ogni sollecitazione di chi
ne sapeva di più: esuli iraniani, anche studiosi.
Foucault ebbe le
tentazione di assoggettare la sua metodologia microfisica della storia (della
verità) agli avvenimenti in vivo, in realtà di assoggettarseli alla sua
metodologia, e ha fallito. Li assoggetta alle sue proprie emozioni, e alla
complessità di un mondo che vede ma non
conosce, per primo nella lingua e nella storia, e nelle attitudini, modi,
mentalità. La ricognizione delle forme di potere che trova a Teheran sotto lo
scià fa con le categorie sovietiche, di una sociologia istituzionale: le forze
armate, la polizia (le polizie), e il partito che non c’è. L’Iran lo affascina,
e questo è tutto. Guolo gli rimprovera tanti errori, che poi sono uno: teorico
delle assenze (“assenza del soggetto costituente, “assenza di modelli”,
“assenza di senso”), appena sbarcato a Teheran trova senso, modelli e soggetti.
Ma lui lo sa, e non si difende: “Sento già gli europei ridere; ma io, che so
ben poco dell’Iran, so che hanno torto”. Platone avrà detto la stessa cosa,
quando il tiranno di Siracusa gli mostrò il suo volto.
La religione? non esiste
La religione è peraltro la grande assente delle sue
genealogie. In tutte le sue forme. I suoi dotti
interlocutori iraniani gli parlano come se lui fosse un’autorità in materia di
sociologia delle religioni, mentre Foucault semplicemente non le considera, in
tutti i suoi scavi archeologici e genealogici, se non come dato di fatto. Qui ne concepisce il ruolo politico, a proposito
dello “stato islamico”. Con giuste perplessità.
L’equivoco iraniano –
dell’Iran più che di Khomeini – è alla base di una serie di tragedie, guerre, persecuzioni,
di un ecatombe interminabile, tra morti e profughi, tra l’islam e l’Occidente, e
all’interno dell’islam. L’Iran khomeinista è stato presto peraltro esso stesso
vittima di questo radicalismo politico – anche se si sa proteggere dal
terrorismo. Dov’è l’alternativa planetaria? Dove la forza di liberazione che
Khomeini ha scatenato? C’è il disordine, fomentato per ragioni di potere, di capitribù,
capibanda, sceicchi e santoni.
Michel Foucault (a cura di Renzo Guolo e
Pierluigi Panza),Taccuino persiano