sabato 24 gennaio 2015

Problemi di base - 212

spock

Perché la pace chiamerebbe la guerra?

Perché è giusta la guerra giusta?

Chi fa la rotta, il pilota o la zavorra?

Se i padri debbono essere severi con i figli, perché i figli non possono esserlo con i padri?

Se gli italiani sono furbi, perché i tedeschi li fregano sempre?

Viene prima la Bce o vengono prima le banche d’affari?

Viene prima lo scandalo o il rigore?

Perché Edipo sarebbe colpevole?

Perché innocente?

spock@antiit.eu

L’amicizia è l’amore di Dio

Un’antologia come un atto d’amore, degli studiosi weiliani Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito. Con le lettere della filosofa a Joë Bousquet, il poeta di Carcassonne grande invalido di guerra, e ad Antonio Atarès, un fuoriuscito anarchico spagnolo, poeta solitario, internato allo scoppio della guerra, dapprima in Francia poi in Algeria. Con Bousquet, obbligato all’immobilità a letto, che Simone Weil era andato a trovare a Carcassonne, il rapporto è molto intellettuale e anzi filosofico, ma intenso. Scrivendo all’amico che gliela aveva presentata, Bousquet non finisce più di complimentarsi con se stesso, per avere potuto conversare con “Émile Novis”, il nome della filosofa nella Resistenza. Con lui Simone spiega anche il suo proprio problema: non di “sfiducia verso me stessa”, ma “un miscuglio di disprezzo, odio e repulsione”, per un dolore costante ormai da dodici anni “attorno al punto centrale del sistema nervoso”. Con Atarès il rapporto è a distanza, e tuttavia quasi personale, seppure nei limiti dello scambio epistolare. Non c’era mai stato un incontro fra i due, Simone Weil aveva saputo di Atarès da Nicolas Lazarevith, uno dei redattori de “La Révolution prolétarienne”, che era stato internato anche lui in paio di mesi nello stesso capo del fuoriuscito spagnolo, e ne aveva fatto il simbolo della solitudine, uno che non riceveva né visite né pacchi né lettere.
Una forma di amicizia simile in entrambi i casi, di comunione nella disgrazia, al confine con la generosità che è il segno di Simone Weil, fino al dispendio di sé. Ma con Atarès c’è di più: con lo sconosciuto Simone Weil vive in realtà quello che di persone non ha mai potuto, una sorta di passione. “Tu ed io”, mette a punto Simone in una delle prime lettere, “ciò che diamo l’uno all’altro e ciò che riceviamo l’uno dall’altro, sono pensieri e sentimenti sotto forma di lettera….Ma al di fuori di ciò, non pensiamoci mai, né l’uno né l’altro, perché questo non entra per niente nei nostri rapporti personali”. E invece no.
Il nerbo del libro è però la riproposta, in una nuova traduzione  (dopo quella ricompresa nell’antologia tradotta da Orsola Nemi per Rusconi sotto il titolo “Attesa di Dio”), del lungo saggio “Forme dell’amore implicito di Dio”. Uno dei cinque, composti tra il 1941-1942, che Simone Weil lasciò al padre domenicano Joseph_Marie Perrin, suo consigliere spirituale, prima di partire per l’America e Londra - sotto il titolo “Amicizia pura”, Canciani e Vito hanno in realtà composto un’antologia degli scritti degli anni di guerra che Simone Weil visse da sfollata a Marsiglia. È un argomento che Simone tratterà in una lunga lettera al padre Perrin, la sua ultima da Marsiglia, perché è all’origine di un lungo litigio tra i due.
La fede di Simone Weil qui è incontrovertibile – è anche la traccia che hanno seguito i due papi regnanti nello loro comune enciclica, un anno e mezzo fa, “Lumen Fidei”. Dio è universale, l’amore è universale, la chiesa dev’essere di tutti. “Il comandamento «ama Dio»” si applica ancora prima che Dio “venga in persona a prendere la mano della sua futura sposa”. Prima, “si può chiamarlo amore indiretto o implicito di Dio”. Di ragionamento in ragionamento la conclusione è: “Non c’è nella vita umana regione che sia dominio della natura. Il soprannaturale è presente dappertutto in segreto”. Di conseguenza “Il cristianesimo non s’incarnerà finché non si sia annesso il pensiero stoico,  la pietà filiale per la città del mondo, per la patria di quaggiù che è l’universo”.
Simone Weil, Amicizia pura, Castelvecchi, pp 190 € 16,50

venerdì 23 gennaio 2015

La pace di Firenze

Un capolavoro delle diplomazie. E anche di genio politico: Il giorno in cui la Banca centrale europea sconfessava (in teoria) Angela Merkel, la cancelliera era attesa a Firenze da un’accoglienza di stile rinascimentale. Con sicura lusinga dell’opinione pubblica in Germania. Con una sorta di “scoperta” dell’Italia, che lavora seriamente. E soprattutto, non detto, con l’abbandono della politica di rigore che la Germania ha imposto a mezza Europa, ora che la stessa economia tedesca ha bisogno di rilanciarsi.
Un favore alla Merkel ricambiato profusamente. A Renzi e all’Italia: ai vertici europei e al G 7, che Merkel presiede pro tempore, non dovranno più andare col cappello in mano.
Il famoso Concilio di Firenze che doveva unire le due chiese, la romana e l’ortodossa, ebbe poca fortuna nel Quattrocento: tante  belle decisioni senza seguito. La pace di Firenze tra Italia e Germania, e tra i leader dei due schieramenti politici europei, il socialista-progressista e il popolare, invece non può che dire bene all’Europa.  

Ombre - 252

Riuscitissimo colpo di teatro di Renzi – e di Angela Merkel il giorno che la Bce la sconfessava – a Firenze. Con l’accoglienza principesca, che tanto lusingherà la Germania, e la promozione dell’Italia dopo cinque anni di sospetti e accuse. Ma noi siamo tutti per Fassina, che non si sa chi sia. Si dice l’antipolitica, ma è antipatria, con le trombe mediatiche.

Arriva il quantitative easing  di Draghi, tardi per l’Italia, e con una furbata. I titoli acquistati restano quasi tutti in carico alle banche centrali nazionali, mentre gli interessi si dividono tra le stesse pro quota del capitale sottoscritto della Bce. In chiaro: le banche centrali di paesi a rischio si assumono i rischi, mentre l’interesse su questi titoli, più alto, se lo prendono le banche d’oltralpe. Non c’è furbizia latina, i tedeschi sono inarrivabili. 

“L’arbitro aiuta la Roma”: si arrende all’evidenza anche il “Corriere dello sport”, il giornale dei tifosi romanisti,  con questa grande prima pagina, dopo aiutini in serie degli arbitri alla squadra del cuore. Ma per i tifosi conta solo la Juventus, che ruba e corrompe, i romanisti a Roma non parlano d’altro. Il tifo è una forma di odio?

Fabio Fazio fa parlare Renzo Piano da Parigi. Interpellandolo architetto, e celebrandone la residenza ormai francese “da molto tempo”. Senza menzionare che è senatore a vita. Hanno già abolito il Senato?

Dunque i vigili felloni la notte di Capodanno a Roma non erano mille. E nemmeno cinquecento. Ma ci sono: “Sono una trentina”, assicura il sindaco Marino, “ventotto per la precisione”. Per la precisione non colpevoli di niente, solo d avere presentato un certificato medico.

Sono italiane 14 delle 131 banche vigilate dalla Bce. Più del 10 per cento. Troppe. Ci vogliono alleanze e fusioni. La Bce è nata per far “lavorare” le banche d’affari.
Poi magari, tra cinque anni, ci vorranno scorpori e specializzazioni.

Sono italiane 14 delle 131 banche vigilate, etc., etc. Troppe. Ma perché gli altri fratelli europei nascondono le loro banche alla vigilanza della Bce?

Elogia alto Aldo Grasso “la ritualità formalizzata cui i protagonisti si appoggiano. Come ci hanno insegnato i greci, il logos viene spettacolarizzato rispetto alla realtà delle cose”. Il logos è “Anno zero”, i protagonisti sono Santoro e Giuliano Ferrara.

Grasso ha ragione, Ferrara è extralarge. Ma il predecessore non fu il Cavaliere, del famoso duello Cavaliere-Santoro? Ex cavaliere è vero, come scrive ogni poche righe il suo giornale.

“Sfido chiunque a rispondere a una domanda come questa: quanto vale la vita di una persona? O come questa: quando è giusto salvarla e quando no? Chiedo se sia possibile usare parole come «dipende» senza vergogna”. Ora sì, per Greta e Vanessa, ma per Aldo Moro? All’epoca la scrittrice non era nata, ma è una domanda a cui ancora non si risponde.

Silvia Avallone sarebbe partita in missione umanitaria in Siria con un contatto facebook? Umanitaria in favore dei rapitori che hanno trattato Greta e Vanessa bene, con le camere da bagno e carceriere donne. Perché gli scrittori devono dire sciocchezze?

Sei italiani, quattro giornalisti e due avventurose cooperanti, sono stati rapiti in Siria. Dalla resistenza siriana contro Assad, cui erano state inviate da due siriani di Bologna, uno studente e un pizzaiolo. Ma gatta non ci cova.

La differenza tra Cofferati e Paita l’ha fatta in Liguria, alle primarie democrat, l’etnia. La diversa capacità etnica, o impegno, di mobilitazione. Per Cofferati i turchi, per Paita i cinesi. Più affidabili.

“Alcuni degli autori hanno reagito duramente” alla raccolta di vignette nel volume “Je suis Charlie” che il “Corriere della sera” ha pubblicato, a scopo benefico, devolvendo il ricavato al settimanale. Il quotidiano assicurava che i diritti dei disegnatori che non era riuscito a contattare sarebbe stati pagati ugualmente. Ma gli autori voleva essere pagati prima.
Farne satira? Peggio che insultare Maometto, i vignettisti sono taglienti.

Peggio ha reagito il papa, che dice “provocatori” i morti in Francia. In volo sulle Filippine ha voluto intrattenere i giornalisti lungamente in tema. Condannando naturalmente gli assassinii: “Non si può uccidere in nome di Dio”, etc., ma giustificandoli: Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede. Forse per questo Hollande non lo ha invitato alla marcia a Parigi, non perché è massone.

Cosa Nostra è già pentita

Il pentitismo tra fratelli. Un’anticipazione sotto tutti i punti di vista, della giustizia e delle mafie – ma già nel 1950, gli anni del racconto, negli Usa non si facevano nomi al telefono. Simenon ne conosce i motivi - qui un amore - e i canonici sviluppi: la polizia in lotta con la mafia a chi arriva prima, l’odio tra fratelli, la vendetta contro le famiglie. La mafia non aveva ancora il nome di Cosa Nostra, Simenon la chiama “organizzazione”, ma è come se.
Una storia al trotto, come in Maigret, senza accelerazioni, Né colpi di scena, ma con passo “che ci trascina”, come Valéry chiedeva di un buon romanzo, “e perfino ci risucchia verso la fine”. È anche un’anticipazione di un filone che sarebbe stato fortunatissimo vent’anni dopo negli stessi Usa, nei racconti di Puzo, Talese, Mailer, nei film Leone, Coppola e tanti altri.
La suspense è sempre tesa. È il mondo degli uomini di paglia gestori di supermercati, bar-caffetterie, ristoranti, posti dove i contanti circolano ampiamente. Senza casellario penale e senza impronte digitali. Dai quali si pretende di tanto in tanto un servizio, oltre alla percentuale sugli incassi: un pedinamento, una spiata, un “avvertimento”, un assassinio. La mafia come Mefistofele, che dà quello che si vuole in cambio dell’anima. In un ambiente corrotto: il pizzo lo pretendono anche i politici, e gli sceriffi.
Un dramma italiano in America – non manca la mamma, e la vecchia nonna. Ma un’America molto diversa da quella posticcia inventata da un altro grande europeo, Scerbanenco, un’America vera. Nella Florida e il Sud Usa del viaggio che dal Connecticut Simenon aveva fatto in macchina una anno prima, descrivendolo in “L’Amérique en auto”.

Georges Simenon, I fratelli Rico, Adelphi, pp. 172 € 18

giovedì 22 gennaio 2015

Letture - 201

letterautore

Amore – “È un sentimento religioso”, Federico-Hemingway convinto fa dire al vecchio conte Greffi, “dei tempi di Metternich”, risuscitato giusto per questo, sul finale di “Addio alle armi”.

Anglo-indiani – Patrick Leigh Fermor li dice “estranei”. Sia in India che in Inghilterra, e in famiglia, nelle copie miste. Avendo personalmente sperimentato questa condizione: nato e cresciuto a Londra da una madre nata in India, dove anche la sorella maggiore era nata, e un padre funzionario in India che aveva diritto alla vacanza in Inghilterra ogni tre anni, tornava in Inghilterra. I genitori si erano separati quando lo scrittore aveva sette anni, e  il rapporto col padre dice “da semi-estranei, malgrado sforzi determinati da entrambe le parti”. Mo non per la separazione, perché il padre, vivendo in India, scriveva, parlava e pensava in forme estranee. Il comune veicolo linguistico – nel caso di Patrick Leigh Fermor anche carnale - non supplisce alle altre differenze.
Gli scrittori anglo-indiani di maggiore rinomanza, Naipaul, Rushdie, confermano la conclusione di Leigh Fermor: estranei alle comunità di origine e anzi rifiutati, ospiti a Londra. Il veicolo linguistico allontana, divide, spersonalizza, invece che rafforzare: la lingua è viva in rapporto a una forma di vita.
Lo stesso si vede in piccolo in Italia, con gli scrittori – in maggioranza scrittrici: Edith Bruck, Helga Schneider, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek,  Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, tra gli altri, forse anche Jhumpa Lahiri, in aggiunta a Amara Lakhous e Younis Tawfik – di varia origine che hanno scelto l’italiano per esprimersi.

Critica – Molti saggi in Francia, e qualcuno anche in Italia, sul romanzo islamico di Houellebecq prima che uscisse, e prima delle stragi parigine. Niente dopo, neppure una riga. Si può presumere che in Francia i critici lo abbiano letto in bozze, anche se le bozze sono state disponibili solo una settimana prima dell’uscita – il romanzo è stato approntato in pochi giorni. Lo stesso per i critici italiani, qualcuno sarà stato in grado di leggerlo in originale. Ma perché non parlarne dopo? Di un romanzo che – quali che siano i suoi pregi letterari – si impone per l’attualità politica. La critica è preordinata alla lettura. È una forma di consigli per gli acquisti. Ma passivamente?

Mito – Valéry, che ne è creatore moderno, era scettico: “I nostri avi si accoppiavano nelle tenebre a ogni enigma, e gli facevano strani figli”, annota in una delle “Varietà”. Il mito è il tema su cui più torna, ma come se gli sfuggisse – da ultimo nella “Letterina sui miti”: “Mito è il nome di tutto ciò che non esiste e non sussiste che avendo la parola coma causa”. Una qualsiasi, anche la semplice  chiacchiera? “C’è sempre una supposizione che dà un senso al linguaggio più strano”. La parola che “è quel mezzo di moltiplicarsi nel niente”:…. : “Tanto la parola ci popola e popola tutto che non si vede come fare per astenersi dalle immaginazioni di cui niente succede…”.
Molto prima aveva già annotato:  “Una consonanza, tavolta, fa un  mito. Grandi dei nacquero da un calembour, che è una specie di adulterio”.
Però conclude: “I miti sono le anime delle nostre azioni e dei nostri amori. Noi non possiamo agire che muovendoci verso un fantasma. Non possiamo amare che ciò che noi creiamo”.

Pasolini – Ci sono due Pasolini. Uno è quello delle stitiche conferenze sulla lingua e i dialetti, in falsetto con Moravia nelle Case della cultura e ai Lunedì delle signore nei primi anni 1960. Delle nasalità di cui è farcito “Ragazzi di vita”, l’opposto del dialetto, che è carnale per essere tribale. Del birignao alle promozioni: “Utilizzerà la musica nei suoi film?” “Solo Bach. Solo quella è musica”. Quale Bach? “Che ruolo attribuisce alla parola nel cinema?” “Il dialogo è suono di fondo”.  Della conferenza sulla lingua basata su reperti del tipo Citati che sentì “esatto” invece che “sì” quella volta che prese il treno, col corredo del Bel Paese dove il sì suona, Calvino che in commissariato ascoltò il verbale, quella volta che gli rubarono la macchina, il prontuario Rai delle parole da evitare, Moro che infligge se stesso.
È stato il padre che rifiutava, dispotico, fascista. Contro gli studenti nel ‘68 e contro tutti: i lettori, che imboniva di retorica, gli amanti, che voleva bruti, la politica, la destra pretendendo d’imporre alla sinistra, e alla fine se stesso. Non una vittima, il poeta come Kavafis sapeva, che cantava “la diversità che mi fece stupendo”. O la leaderistica sarà stata il segno del tempo, “privo d’ironia”, che il poeta vantava, una pace prolungata si alimenta di minute inquietudini, infantili trasgressioni. Dannunziane, si direbbe, in piccolo, in ritardo, ma bisognerebbe sapere chi era D’Annunzio, che pure era pieno di se stesso ma non avrebbe detto: “Amo la mia pazzia di acqua e assenzio,\ amo il mio giallo viso di ragazzo,\ le innocenze che fingo e l’isterismo\ che celo nell’eresia o lo scisma\ del mio gergo, amo la mia colpa”.  
Susanna, la madre dolce che cancella il marito, è il tremulo nibbio di Leonardo e Freud, lo è nei geroglifici in Egitto. Nella leggenda cristiana il nibbio è solo femmina, fecondata dal vento, novella Vergine. Se l’omosessualità, forzatamente senza figli, è narcisista, la moltiplicazione delle marchette è un martello pneumatico contro se stessi, una forma di autocrocefissione, la morte oscena. Non si sa di un erotismo goduto infernalmente, neppure in Sade. Non nell’esercizio esasperato dell’omosessualità, la retorica del genere è mite. Voleva essere il Poeta della Vita, di ciò che è. E la realtà, essendo beffarda, gli ha restituito odio e umiliazione.

Risorgimento – Quello letterario finì presto. Con non molte opere. Anzi, si può dire che non cominciò: registra una sola opera, le “Confessioni di un ottuagenario”, pubblicata tardi, come un residuato - anche se a ogni rilettura viva, il sentimento risorgimentale c’era, ed era potente. Nievo e le sue “Confessioni” furono solo preceduti dalle “Mie prigioni”. E seguiti da qualche – non granché – epopea garibaldina.
L’Antitalia ha invece debuttato presto in letteratura: Roma è corrotta e spregiudicata già nel 1883, anno di uscita di “L’eredità Ferramonti”, di Gaetano Chelli. Due anni dopo Matilde Serao recidivava, con “La conquista di Roma”. Presto imitati da molti, compreso il siculo-napoletano De Roberto, “I viceré”, 1891-4, forse il più cattivo. Fino a “I vecchi e i giovani” di Pirandello, una sorta di anteprima del “Gattopardo”. Questo si può dire dunque genere meridionale.

Romanzo – Valéry lo appaia al sogno per il fatto che  “tutti gli scarti gli appartengono”, a entrambi.
Valéry aveva del resto del buon romanzo un concetto semplice, che “il sussegursi ci trascini e perfino ci risucchi verso una fine”.

Soap opera – Nacque negli anni 1940 alla radio (alla radio americana): storie (romanzi, racconti, commedie, seriali) pagate dalle industrie del sapone, che erano cinque e in aspra concorrenza. Concepite per le ascoltatrici, che erano quelle che compravano i saponi, in orari di ascolto domestico, nel mentre che si facevano i lavori in casa, la mattina dopo la colazione. Nulla è cambiato, eccetto gli sponsor?

letterautore@antiit.eu

I Balcani senza annoiarsi

Il libro che doveva completare “Tempo di doni” e “Fra i boschi e l’acqua”, il racconto – cinquant’anni dopo - del lungo periplo a piedi attraverso i Balcani, sulla strada per Costantinopoli, dell’autore diciottenne nel 1933-34, è pubblicato postumo . Sulla base del lavoro che a più riprese Patrick “Paddy” Leigh Fermor aveva intrapreso di questa parte finale del suo racconto, attraverso la Macedonia, la Bulgaria e la Romania, e mai si decideva a licenziare. L’occhio esterno del viaggiatore curioso era ostacolato dal fatto personale, la  storia d’amore che poi ebbe con la romena principessa Balasha Canatcuzene, per cinque anni fino allo scoppio della guerra – arruolato, “Paddy” si distinse nella guerra a Creta contro i parà tedeschi?
Una memoria di riporto – gran parte dei taccuini di questa parte del viaggio li aveva perduti – e su realtà meno invoglianti, spesso inerti, steppe, brume, facce e persone inarticolate, e comunque sorpassate senza lasciare traccia. Anche il Danubio è più limaccioso che pulsante. Il vocabolario più ricercato, dettagliato, variato del solito, stiracchiato, su una realtà che lo ispira, meno avventurosa, aneddoticamente, dell’Ungheria, dei Carpazi, della Transilvania dei primi due libri, e tuttavia sempre fertile. Come se fosse vita vissuta, oggi per settanta-ottant’anni fa.
Con i soliti pezzi di bravura, brevi narrazione all’interno del lungo racconto. La vita movimentata dei monasteri ortodossi, centri di ospitalità e stazioni di posta,  visti “come castelli del Medio Evo”, aperti alle donne come agli uomini, di passaggio o per studio.. Le ripetute cerimonie di benvenuto degli igumeni, con l’offerta di una cucchiaiata di sorbetto,o di marmellata d rose, di un cubo imbiancato di rahat lukum, un bicchierino di slivo, una tazza di caffè turco, e un bicchiere d’acqua. La stazza degli igumeni, tutti alti, come ogni alto religioso in carriera: “(Igumeni e) metropolitani sono tutti alti, gli arcivescovi ancora più alti, i patriarchi enormi”. Col gusto fine dei particolari, di popolazioni, anche residuali, di poche decine di persone, delle lingue, dei linguaggi fisici, lle tate apparizioni femminili, dei vecchi padroni turchi. Di usi e linguaggi turchi sempre ricondotti alla “Grecia”, che è l’anima già dei “Paddy” giovane, quella di Bisanzio, di Costantinpoli. Con momenti di revulsione “contro la balcanica rozzezza”. Con la dote del viaggiatore, di non annoiarsi mai: “La mia soglia della noia era così alta che non esisteva affatto. Ero inannoiabile”. Compresa la controindicazione: l’eccesso di curiosità, per tutto, anche per le pulci. E due ritratti non convenzionali dei genitori, a parti rovesciate rispetto alla realtà: freddo col padre, persona stimabile, geologo di fama, generosissimo con la madre, bohémienne, “stimolantissima compagnia
Manca la parte su Costantinopoli, che Leigh Fermor non riuscì a fermare sulla carta. Se non per pochi appunti. C’è invece un libro a parte, un centinaio di pagine, sul “Monte Athos”, dove lo scrittore soggiornò per tre settimane tra gennaio e febbraio del 1935. Nulla di eccezionale, un baedeker dei tanti monasteri, in uno dei quali, l’11 febbraio, lo festeggiano per i vent’anni. Partecipa ai riti e fa molti ritratti di monaci, ma ogni senso religioso latita. Non salta nemmeno un convento, ma la suagiornata è scandita dalla lettura, la mattina, la notte, la sera, di Byron, del “Don Juan” in particolare, ma anche del “Childe Harolds Pilgrimage” e ogni altra opera. Curiosamente, si sente più affine ai monaci bulgari che incontra, e di più a quelli del convento russo (“coi Russi si perdona tutto, non so perché”, “così gentlemen, anche i contadini, così strani processi mentali, e tanto sense of humour!”), che non alla Grecia che poi adotterà, di cui obietta alla cucina, alle chiusure mentali, alla faciloneria.
Qui rivela che, almeno per la Montagna Sacra, si era preparato. Non l’adolescente inesperto partito all’avventura era, ma uno che aveva occasione socialmente di frequentare i maggiori esperti di arte bizantina, Thomas Wittemore, David Talbot Rice, Ogilvie-Grant, e lo scrittore Robert Byron. Correda il libro un indice dei luoghi, le persone, le cose (temi, oggetti, migrazioni, sensazioni).
Patrick Leigh Fermor, The broken road , John Murray, pp. XXI+ 363 € 9,99

mercoledì 21 gennaio 2015

Secondi pensieri - 203

zeulig

Gianni Agnelli – È un mito. Singolarmente, totalmente, irrelato alla realtà, sotto tutti gli aspetti, sociali e personali. È il caso del mito che copre e non esprime la realtà. Che nel suo caso è punto per punto antitetico al mito.
È l’uomo di successo, padrone e manager. Mentre ha ereditato un’azienda che era la quarta più grande al mondo, e l’ha portata al fallimento – a piatire un’acquisizione da parte della Ford, della Mercedes, della General Motors. Nelle scelte intermedie tra questi due estremi sempre dalla parte dell’errore, senza esservi costretto e di sua iniziativa: provvidenza pubbliche, sottogoverno, scelte quasi sempre sbagliate dei manager, nessuna propensione all’investimento e al rischio. Una deriva da lui avviata senza necessità subito dopo l’accesso al vertice dell’azienda, nel 1966, e dopo pochi anni, nel 1973, consacrata a benchmark della ditta con la scelta di Romiti, uomo del sottogoverno, alla guida pratica, gestionale.
È politicamente un liberale progressista.  Mentre fu instabile, anche opportunista, e sempre inattendibile.
Personalmente è insieme l’angelo custode e il principe azzurro, idealizzato: bello malgrado l’handicap fisico, elegante, generoso, brillante, sorridente, discreto, sereno, con molto senso dell’umorismo. Mentre fu assente e controproducente in famiglia, e incostante negli affetti e le amicizie. Uno che si annoiava presto.  
La formazione del mito si collega alla credulità. Esprime un bisogno diffuso e per questo reattivo, compiaciuto-compiacente. Ma noncurante della realtà propria, del personaggio e\o gli eventi che si mitizzano.

Classicità – Può non essere remota. Delle canzoni per esempio. Sono state subito classiche le romanze di Tosti. E numerose melodie napoletane quando l’Italia si applicava a “costruire” il mito di Napoli. Classico è già Pino Daniele, come lo sono stati in vita De André e Gaber, Presley e i Beatles, e lo è Celentano. Lo sarà il papa Francesco, ne ha le stigma.  Lo sono gli oggetti di uso comune in campagna fino a ieri: zappe, forconi, roncole, accette, palmenti, frantoi – la campagna è tutta classica nella condizione urbana dominante.
La classicità va in una con antichizzazione. Che in alcuni casi è determinata dal cambiamento repentino di tecnologie (procedimenti e materiali): la macchina da scrivere si è antichizzata in pochi decenni. Le canzoni come la moda seguono gli umori. E ora si antichizza di tutto, il modernariato prima e il contemporaneo per qualche motivo improvvisamente dismesso – il personal computer, i primi telefonini, le prime stampanti. Il modernariato ora di uso comune si censive negl anni 1970 come una peculiarità americana, delle “buone vecchie cose” appena dismesse.
Ma non tutto l’antico o antichizzato è classico. Classico è il passato – anche se presente, ma per qualche aspetto remotizzato – con una identità.  Un’identità che gli venga attribuita per consenso generale. È il consenso che fa l’identità: identità per se stesse anche forti sono trapassate senza memoria, altre deboli sono incombenti. L’antichità, per morte intervenuta o gradimento universale, è necessaria per creare il nimbo distintivo, protettivo.

Cristianesimo –  È una religione della Salvezza ma si vuole della Colpa. Di peccati che sempre sono insoverchiabili, allo stesso santo, tanto sono numerosi e sottili. Effetto della chiesa, del potere sacerdotale?
Lo stesso istituto della confessione con assoluzione è parte della religione della Colpa. Obbliga a sentirsi in colpa.

La colpa viene ad assumere per il cristiano la complessità (sottigliezza) e l’inafferrabilità del rituale. Si esteriorizza cioè per liberarsene, non potendo essa nella sua interminabile sinuosità restare nel foro interiore, che o la rimuove o se ne fa annientare.

Il senso posticcio della Colpa è nel persistente peccato della carne, che ingombra la chiesa da tempo. In tutte le sue gradazioni. La chiesa da tempo è fissata sulle colpe della carne, dopo averla creata. La concupiscenza non è un delitto e quindi non è una colpa, nella forma solitaria e in quella condivisa: nella stessa dottrina della chiesa la lussuria è un vizio e non un peccato, e come l’acedia e la vanità, vecchi vizi ora abbandonati, potrebbe anch’essa venire dequalificata. Anche a considerarla un peccato, la chiesa non avrebbe però su di essa oggettivamente alcuna giurisdizione, essendosi trincerata nella castità. Ma è parte della liberalizzazione dell’epoca, delle donne, dei sessi, degli istituti familiari, e la chiesa vi si lascia irretire.

Si dicono le religioni monoteiste simili. Ma il cristianesimo se ne distingue per questo. È sulla Colpa che si fonda la chiesa – riprodotta in piccolo anche nelle chiese protestanti.

Maternità – La Medea di Euripide dice tre volte meglio la guerra che i dolori del parto. E non aveva letto la Bibbia. Poi i figli li uccide. E dà fuoco alla città.

Morte – È un concetto, più che il fatto: il concetto della morte, di cui tutto si può permeare estendendolo, come fine di ogni cosa.
L’evento è fisico, il fatto è mentale. In contrasto con la realtà che ognun sperimenta ordinariamente, in qualità di ascendente, discendente, collaterale, amico, nemico, conoscente anche solo occasionale: che la persona non muore. Né l’animale, la pianta, la pietra, l’ambiente, con i quali un rapporto si sia stabilito anche episodicamente.Vive, si può dire come il “Ka” degli antichi egiziani, il doppio, come una personalità, quale che sia, sia pure falsata, mentre il corpo muore.
L’evento fisico è minore, per quanto traumatico possa essere. È uno tra i tanti, anche se connotato luttuosamente, come una perdita. In realtà il morto continua a vivere in tutti i luoghi, gli istanti, le azioni, le parole che ha pronunciato – che solo hanno preso vita, anche nel corso naturale della vita stessa. Rivive in una memoria che non è soltanto un fatto soggettivo, di una speciale sensibilità, ma dei luoghi, degli eventi, sia pure una semplice conversazione, dei tempi che scandiscono il tempo (anni, stagioni, epoche, notte, giorno).
È sempre penetrata dalla vita, anche se la scandisce inesorabilmente, senza rimedio possibile. Anche come concetto: metafisicamente (concettualmente) è la vita che è, la morte non è, è un ciclo e un modo di essere della vita.

Progresso – Quello materiale può essere rapidissimo – quarant’anni fa i potentati della penisola arabica, ora i più ricchi del mondo e i più avveniristici, erano pescatori poveri e cammellieri. Quello civile (politico, giudiziario, redistributivo) è lento. Quello culturale non c’è: è sempre, anche se in vario modo, ermeneutica, esplorazione dell’esistente.

zeulig@antiit.eu 

Dalla parte dei talebani

Terzani vuole farci digerire l’imam Omar e i talebani, incommestibili. Ma con un giornalismo di prima mano, del cronista che va, vede, fiuta, immagina, ricostruisce – un caso unico e forse un’eccezione. Ancora vivo in questa riedizione dopo una dozzina d’anni. Con molte novità non disseppellite, e molte verità. “Un afghano si affitta, ma non si compra”. La vita impossibile in Afghanistan, paese semidesertico, per essere senza colpe un crocevia. La nobiltà dell’Afghanistan, il paese del Grande Gioco, con “70 diversi tipi d’uva, 33 tipi di tulipani, 7 grandi giardini folti di cedri”.  I troppi “falsi di guerra” – che Marc Bloch aveva indagato già nella prima Grande Guerra: il gas nervino trovato nel campo di Al Qaeda a Jalalabad, il campo di Al Qaeda trovato a Jalalabad, i talebani che mozzano anso e orecchie a tutti quelli che non hanno la barba “islamica” della giusta lunghezza. Del resto, non si tratta dopo quindici ani di guerra per ridare l’Afghanistan ai talebani? 
Il suo viaggio semi-privato, tra il 2001 e il 2002, ormai in pensione dallo “Spiegel” e anche dal “Corriere della sera”, Terzani lo fa purtroppo per difendersi da Oriana Fallaci, che l’aveva ferito insultandolo, sullo stesso “Corriere della sera”, dopo l’11 settembre. Anche questo è indigeribile, ma in altro modo: il giornalismo aperto e avventuroso di Terzani è zavorrato dal birignao toscano e fiorentino, della comune città, della comune infanzia, delle comuni frequentazioni. Di un cosmopolitismo malato di provincialismo acuto. Per dire la pochezza di questi orizzonti: Terzani parte da un rifiuto degli Usa (Washington non è diversa da Pyongyang), Fallaci da un’immedesimazione, senza più. Ma pazienza.
Per questo forse, per il duello con Fallaci, l’inviato prensile Terzani è qui più “corretto” del necessario, seppellito anzi nel conformismo progressista. La rivolta islamica, altrimenti inspiegabile,  propone come sfida alla globalizzazione. Che riduce al dominio americano nel mondo grazie ai B-52. Una delle frasi fatte più dure a morire del secondo Novecento, e tutt’oggi – Terzani echeggia Foucault di un quarto di secolo prima, infatuato del khomeinismo, che vedeva anch’esso come una sfida al capitalismo, all’ordine, al pensiero unico (“È forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più folle e più moderna di rivolta”). Ma il suo punto centrale resta: c’è da chiedersi perché questa rivolta, questo “rifiuto” come si labella, suscita entusiasmo, fino al terrore e al sacrificio di sé, in tutto il mondo islamico e non solo.
Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Tea, pp. 179 € 9

martedì 20 gennaio 2015

Le cannoniere aprono l’Europa

La Cina “autoaffermativa” di Ki Jinping verrà a fare le manovre navali nel Mediterraneo. Insieme con Putin. Nel quadro del “nuovo modello di relazioni tra grandi potenze” che Xi ha dato come programma alla Cina.
Simbolicamente, è il rovescio delle “aperture” che l’Europa impone due secoli fa all’Oriente, presentandosi nei suoi porti con le flotte armate. Ma, contemporaneamente, la Gran Bretagna riapre la base navale nel Golfo Persico che aveva chiuso nel 1968, con la fine dell’impero. La aprirà a Bahrein, che è già la base della V flotta della Marina Usa, stazionata tra il Golfo e l’Oceano Indiano. A Bahrein, o più in alto, davanti a Bassora, vuole aprire un base il presidente francese Hollande, sull’onda dell’emozione per gli attacchi terroristici a Parigi, dotandola della portaerei atomica. E dunque si torna alla politica bruta di potenza, alle cannoniere? È il tramonto del multilateralismo kissingeriano che sottende la globalizzazione?
No, le marine si muovono in un quadro globalizzato. Sulla base cioè di intese di fondo anti-disastro.
La Cina esclude esplicitamente ogni intenzione di antagonizzare la Nato, forte della convinzione che una sfida cementerebbe l’Alleanza e la rafforzerebbe. Né ha ambizioni intercontinentali, non ha nemmeno il bombardiere strategico, l’equivalente del B.52. Vuole “avvicinare” l’Europa: è il progetto di riapertura della Via della Seta, terrestre attraverso il Kazakistan e la Russia, e marittima. L’intesa con Putin rientra nell’“apertura” dell’Europa.
La Cina non è nemica ma concorrente a tutto campo.

Platone a Teheran, all’orecchio di Khomeini

“Fin dai primi tempi dell’islam, e soprattutto per gli sciiti dall’assassinio di A lì, l’uccisione di un musulmano per opera di un altro musulmano – e Dio sa se ce ne sono state – conserva sempre la forza dello scandalo religioso, e che significa ugualmente scandalo politico e giuridico”. Ora i morti mussulmani per mano di mussulmani non sono soltanto la guardia giurata Ahmed con le mani in alto freddata sul marciapiedi di “Charlie Hebdo”. Sono centinaia ogni giorno, migliaia, nelle scuole, i mercati, le piazze, le campagne indifese. Questo “Taccuino”, voluto vent’anni fa da Renzo Guolo e Pierluigi Panza, benché critici, come “«autentica» radicale alternativa all’Occidente”, presagisce solo un barbaro bagno di sangue, all’insegna dello “stato islamico” ma a nessun effetto, per primo tra i mussulmani, con i sunniti a caccia di sciiti, e tra le diverse confessioni sunnite. In Afghanistan, Irak, Siria, Nigeria, Pakistan, Libia, fronti islamici in forma di bande pullulano come sciami di mosche sanguinarie. Al seguito di guide e rais formati spesso e sempre finanziati e armati dall’Occidente che dicono di combattere: dai potentati  della penisola arabica, dagli Stati Uniti, alla Francia, dalla Gran Bretagna.
Il “modello alternativo” all’Occidente è residuato sovietico, una forma di propaganda, ora pure insulsa e stucchevole. Foucault, benché vigile, ne fu vittima negli anni 1978-1979, quelli di queste corrispondenze. Il “Taccuino” raccoglie gli articoli del filosofo inviato speciale a Teheran per il “Corriere della sera” da fine settembre 1978 a fine febbraio 1979. Sei saggetti, redatti sulla base di un accordo tra il quotidiano e  una non precisata Équipe Foucault. Di scrittura rapida, giornalistica. Sapida a volte, di figurazioni plastiche. “Il re e il santo” per esempio, il despota in armi e l’esule inerme. Ma di singolare indigenza politica: Khomeini non era Francesco, e non era un “santo”, o allora un santo in armi. Mentre era già a tutti noto che era un ayatollah tra i tanti, più attivo che dotto, esule volontario da un decennio a Kerbela, che si trova nell’Irak dell’odiato Saddam, uno peggio dello scià, specie con gli imam, recuperato e montato dai servizi segreti francesi, che lo installarono con li amplificatori poco fuori Parigi, abbastanza per controllarlo e garantirne l’incolumità, ma in piena disponibilità dei media.
Il modello alternativo
Ma non c’è solo l’oggetto misterioso Khomeini. Preciso e acuto sulle colpe dello scià, già ampiamente note, Foucault è confuso sull’Iran, sulla sua “civiltà millenaria”, che riduce al neo colonialismo delle compagnie petrolifere. E sull’islam di cui non sa nulla – dell’islam come di ogni religione. Del “governo islamico” che tratta in più punti: “Si dice spesso che le definizioni di governo islamico sono imprecise”, scrive in una delle prime corrispondenze: “Esse mi sono invece sembrate di una limpidità molto familiare, e devo dire abbastanza poco rassicurante”.  Ma se lo fa definire “un’utopia”, in alternativa a “un ideale”. Personalmente, concludendo, “come «volontà politica» mi ha impressionato”. Il “governo islamico” che non trova e lo disorienta era già bell’e fatto, da sempre, lì vicino, in Afghanistan. Non un esempio di buon governo.
Sa di Ali Shariati, l’imam morto giovane, che aveva studiato alla Sorbona, e una legge islamica teorizzava giusta, per donne e uomini ugualmente, ricchi e poveri. Ma lo confonde con Khomeini, uomo di potere e non di dottrina. È stato a Qom, ma non ne ha capito l’intima natura, di centro teologico di alta intelligenza e pratico modo di vita – la “saggezza dell’ayatollah”, a Qom e nella remota provincia che è il cuore dell’Iran, era già disponibile negli studi e i ricordi, anche divertiti, di Roberto Scarcia e Giorgio Vercellin.
Come già dieci anni prima, col Maggio 1968, seppure non allineato, Foucault si vuole movimentista - “ più s’incasina meglio è”. Sulla traccia di Sartre suo insospettato modello, il maître-à-penser che si lasciava insolentire in pubblico da Cohn-Bendit. La piazza lo affascina. Era anche l’uso dei movimentisti negli anni 1970, quelli della deriva terrorista in Italia e in Europa, di “puntare” sulle rivoluzioni, per non fare autocoscienza.  Per i garofani nel 1984 tutti in massa in Portogallo, dove la rivoluzione era fatta dai colonnelli. Foucault si è perso i garofani, ma per l’insurrezione di popolo contro lo scià si è sintonizzato rapido ed è andato anche lui a vedere. Entusiasta dapprima: “È forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più folle e più moderna di rivolta”. A fine febbraio 1979 è perplesso. Lo scià è partito il 16 gennaio, Khomeini è arrivato l’1 febbraio, il 17 sono cominciate le esecuzioni sommarie, il 19 è stato fondato un partito unico della Repubblica islamica, Un po’ troppo per l’uomo “che non fa politica”.
Il 26 febbraio 1979 Khomeini era già l’uomo del destino, e Foucault si disillude, con un’incollerita profezia: “L’islam – che non è semplicemente religione, ma modo di vita e appartenenza a una religione e a una civiltà - rischia di costituire una gigantesca polveriera formata da centinaia di milioni di uomini. Da ieri ogni stato mussulmano può essere rivoluzionario dall’interno, a partire dalle sue tradizioni secolari”. Dove intanto “rivoluzionario” va letto “rivoluzionato”, così aveva scritto Foucault: “Ogni Stato mussulmano può essere rivoluzionato dall’interno”. Ma anche con questa precisazione non è la zampata finale del leone che molti lusinga. Non vuole dire niente. Se non che Foucault è singolarmente sprovveduto di fronte al fatto religioso. E all’Iran. La civiltà iraniana, benché islamica, non ha nulla in comune con quella araba del Golfo, ancorché sciita, o afghana, o pakistana, o tra Nord e Sud Sahara. Mentre che ogni Stato possa essere rivoluzionato dall’interno, questo si sa da un paio di secoli di nazionalismo, oltre che dai duci e i führer.
L’1 aprile Khomeini proclama la Repubblica islamica. Il 15 aprile Foucault protesta con Mehdi Bazargan, primo ministro di Khomeini (sul “Nouvel Observateur”, ma la lettera aperta è aggiunta al “Taccuino”) per le  esecuzioni sommarie, molto rispettosamente. Dopodiché non parlerà mai più dell’Iran. Né si riprenderanno questi suoi scritti, nella pur fittissima pubblicazione di ogni suo pur minimo detto e scritto. Saranno ripresi vent’anni fa in questa edizione italiana, con i saggi critici di Renzo Guolo e Pierluigi Panza, e in una pubblicazione americana, con le critiche di Maxime Rodinson, eminente islamista, e Simone de Beauvoir. In francese non c’è, neanche nella tante voluminose raccolte di “Detti e scritti”, la devozione fa aggio (gli stessi curatori dell’edizione americana, Janet Afary and Kevin B. Anderson, vogliono l’Iran un “un punto di svolta” del pensiero foucaultiano, in tema di illuminismo, omosessualità, e spiritualità politica…)..
Non grandi scritti, in effetti, oltre che sbilanciati a favore di un Khomeini che non conosce. Sono importanti perché hanno fatto l’opinione del “Corriere della sera”, e quindi dell’Italia. Nessun guizzo, un laser che scalfisca il risaputo. Panza mette in rilievo il carattere regressivo che ogni rivoluzione ha per Foucault. Ma non c’è nemmeno il misoneismo: c’è un’affrettata, entusiasta, intollerabile lettura degli eventi in cui per una volta lo studioso si è voluto addentrare. Con molta ignoranza, anche se voluta e esibita. E poca curiosità, anche soltanto giornalistica.
Dovendo fare l’inviato speciale, il filosofo si lascia anche prendere dalla semplificazione giornalistica. Ma senza l’intuito della novità, del senso dell’evento mentre si produce. Finendo per intrappolarsi nel vieto e falso dualismo Occidente-Oriente che faceva la guerra fredda. Anche i fatti semplici che viene a sapere – “fino al’attuale dinastia, i mullah nelle moschee predicavano col fucile a fianco” – li trascura. Da giornalista non giornalista, senza cioè il fiuto della realtà delle circostanze e degli avvenimenti. Insensibile a ogni sollecitazione di chi ne sapeva di più: esuli iraniani, anche studiosi.
Foucault ebbe le tentazione di assoggettare la sua metodologia microfisica della storia (della verità) agli avvenimenti in vivo, in realtà di assoggettarseli alla sua metodologia, e ha fallito. Li assoggetta alle sue proprie emozioni, e alla complessità di un mondo  che vede ma non conosce, per primo nella lingua e nella storia, e nelle attitudini, modi, mentalità. La ricognizione delle forme di potere che trova a Teheran sotto lo scià fa con le categorie sovietiche, di una sociologia istituzionale: le forze armate, la polizia (le polizie), e il partito che non c’è. L’Iran lo affascina, e questo è tutto. Guolo gli rimprovera tanti errori, che poi sono uno: teorico delle assenze (“assenza del soggetto costituente, “assenza di modelli”, “assenza di senso”), appena sbarcato a Teheran trova senso, modelli e soggetti. Ma lui lo sa, e non si difende: “Sento già gli europei ridere; ma io, che so ben poco dell’Iran, so che hanno torto”. Platone avrà detto la stessa cosa, quando il tiranno di Siracusa gli mostrò il suo volto.
La religione? non esiste
La religione è peraltro la grande assente delle sue genealogie. In tutte le sue forme. I suoi dotti interlocutori iraniani gli parlano come se lui fosse un’autorità in materia di sociologia delle religioni, mentre Foucault semplicemente non le considera, in tutti i suoi scavi archeologici e genealogici, se non come dato di fatto. Qui ne concepisce il ruolo politico, a proposito dello “stato islamico”. Con giuste perplessità.
L’equivoco iraniano – dell’Iran più che di Khomeini – è alla base di una serie di tragedie, guerre, persecuzioni, di un ecatombe interminabile, tra morti e profughi, tra l’islam e l’Occidente, e all’interno dell’islam. L’Iran khomeinista è stato presto peraltro esso stesso vittima di questo radicalismo politico – anche se si sa proteggere dal terrorismo. Dov’è l’alternativa planetaria? Dove la forza di liberazione che Khomeini ha scatenato? C’è il disordine, fomentato per ragioni di potere, di capitribù, capibanda, sceicchi e santoni.
Michel Foucault (a cura di Renzo Guolo e Pierluigi Panza),Taccuino persiano

Cosa (non) copre Mafia Capitale

Sotto il nome di Mafia Capitale e sotto le figure di Carminati e Buzzi, facilmente sinistrabili, la Procura di Roma nasconde due sistemi di illecito normale di proporzioni enormi. Uno è il settore pelosissimo del volontariato, o terzo settore: dell’assistenza pubblica data in appalto – il business della povertà. L’altro è quello immobiliare, in deroga o in eccesso della norma che prevede l’ampliamento di un 20 per cento delle cubature esistenti, a fini residenziali (la norma era intesa a favore dei piccoli proprietari). Uscendo di casa, nel quartiere giardino di Monteverde, si trovano di quest’ultimo filone a ogni passo esempi mostruosi. Quasi tutti in ex conventi, o in aree del Vicariato. Le cubature non sono aumentate del 20 per cento, come consente la legge, ma del 400-500 per cento. Così i via Innocenzo X, ora sotto sequestro. Il giardino è stato cancellato per una mega-edificio. I vigili della ex XVIma circoscrizione , ora XII, avvertiti, non ci trovarono nulla d’illecito. La Circoscrizione, stabilmente di sinistra come tutti noi, disse che non era di competenza. Alla fine, su sollecitazione di un consigliere comunale Sel, i lavori furono bloccati. Finché il costruttore Guarnera non trovò il compagno Buzzi e la pratica si risolse.
Lo stesso avviene in via Vincenzo Monti,stesso quartiere, stessa circoscrizione. Dappertutto dove gli ex conventi vengono riadattati, mostruosi palazzi sorgono su quel 20 per cento di cubature in più. Nel quartiere di Monteverde i giardini, anche con alberi di alto fusto, vengono sradicati come nulla fosse. Bisogna solo pregare in un ritorno delle vocazioni, che i conventi si riempiano di nuovo: non c’è altro mezzo per limitare la corruzione.

lunedì 19 gennaio 2015

Il calo-petrolio non fa male

Il calo del petrolio aumenta la spesa – la propensione al consumo, e agli investimenti – e non la riduce.
Una sorta di panico viene diffuso dalle banche d’affari, che sono le fonti della nostra informazione economica, forse per pigrizia mentale, forse a fini speculativi, che non ha fondamento. Si calcola un effetto positivo del calo-petrolio solo sul’economia italiana, e molto limitato, di uno 0,5 per cento di pil – con uno 0,3 per cento per la Spagna, altra grande importatrice di idrocarburi.  Sull’eurozona si calcola un effetto zero. Ma con un effetto molto negativo per le altre grandi economie europee, attorno all’1 per cento di decrescita del pil - per gli Usa si sale addirittura a un meno 1,8 per cento.
Si computa statisticamente il calo del prezzo del greggio tra i fattori  deflattivi, tra i tanti prezzi cioè in diminuzione, e il petrolio incide su molti fattori di costo e quindi su molti prezzi. E quindi, indirettamente, di scoraggiamento, o rinvio, dei consumi. Mentre il contrario è vero: il calo del greggio stimola e incrementa la propensione al consumo. Per l’energia, che non è un bene durevole, ma di consumo immediato, il calo dei prezzi non scoraggia e non rinvia, funziona al contrario. Proiettando in ragione d’anno i corsi attuali del greggio, rispetto al prezzo massimo di 115 dollari a barile, si avrebbe per l’economia italiana un risparmio di 28 miliardi della bolletta energetica, una vantaggio produttivo enorme, specie per le piccole e medie imprese, e di bilancio familiare. Il calo del greggio anticipa e accelera in qualche modo i consumi e gli investimenti.
Un mercato politico
Ma fa tanto male il calo del petrolio, come si legge? Alle compagnie petrolifere, ai paesi esportatori, al povero Putin, ai poveri re e emiri del Golfo, agli assetti finanziari mondiali? Questa “crisi” - movimento rapido e acuto dei prezzi – conferma che il mercato del petrolio ha un assetto politico prevalente su quello di mercato, che solitamente si risolve nel gioco della domanda e dell’offerta.
Gli assetti finanziari sono flessibili, guadagnano sia dall’aumento e dal calo. Il calo del petrolio lo gestiscono, se non Putin, i re e gli emiri del Golfo. Per tagliare la produzione del petrolio alternativo, dagli scisti bituminosi, un settore energetico ad altissimo costo, anche per l’ambiente, in cui il Nord America si è impantanato. Ufficialmente a fini di diversificazione strategica dell’approvvigionamento, di riduzione della dipendenza dai paesi esportatori. In realtà per un boom artificioso: Oltre la metà, il 54 per cent, dei 105 mila nuovi pozzi di petrolio trivellati nel 2013, erano in Nord America. Un artificio che i paesi arabi del Golfo hanno sostenuto, grati della protezione militare americana, ma fino a un certo punto: fino a quando gli altissimi rendimenti che il caro-petrolio ha loro garantito non è entrato in conflitto con il controllo del mercato e dei prezzi stessi, che i paesi del Golfo stavano per perdere. Sono paesi che devono tutto politicamente agli Stati Uniti, ma che sanno mercanteggiare – sanno come s fa il mercato.

Il mondo com'è (202)

astolfo

Caporetto – Il sinonimo dei tanti morti inutili nella grande guerra è, come era, in Slovenia.
Anche quell’anno, dopo Caporetto, l’inverno fu caldo: non nevicò fino a tre giorni prima di Natale.

Colonialismo – L’Europa è stata in larga parte islamica, sotto governo islamico, molto più a lungo di quanto il Nord Africa e il Medio Oriente siano stati sotto colonizzazione europea, e non ne ha ricavato niente. Solo la Spagna, al tempo del regno di Granada, degli illuminati emiri di Andalusia, con scienziati, medici, filosofi, poeti, musici. Non la Sicilia. Non gli sceiccati costieri della Calabria o la Liguria. Non  i Balcani in quattro o cinque secoli. Il colonialismo europeo introdusse coltivazioni, ingegneria, comunicazioni, commerci, e il diritto positivo, codificato e uguale per tutti. Questo ha creato una mentalità – quella del diritto è nelle ex colonie britanniche ancora viva, dal Pakistan alle Malvine. Il colonialismo è sfruttamento. Ma anche, nell’ottica europea, anche dopo la la politica di potenza del secondo Ottocento, investimento.  

Cosmogonia – È forse il genere (poetico, narrativo, figurativo) più durevole, oltre che più antico. La fisica della materia ne è piena, del Big Bang , delle Stringhe, dei Buchi Neri, etc. Tutte teorie vaste, affascinanti e non risolutive. Neanche approssimative. Come se slittassero su un mondo a parte, quello del pensiero e delle parole, che non è quello delle cose.

Europa Homo Europaeus era per Valéry un secolo fa, nei primi mesi della guerra, in una delle annotazioni confluite in “Varietà”, “definito non dalla razza, né dalla lingua né dai costumi, ma dai desideri e dall’ampiezza della volontà”. Era la conclusione di questa catena di osservazioni: “Dappertutto dove domina lo spirito europeo, si vedono apparire il massimo di bisogni, il massimo di lavoro, il massimo di capitale, il massimo di rendimento, il massimo di ambizione, il massimo di potenza, il massimo di modificazioni della natura esterna, il massimo di relazioni e di scambi”. Una sfida e una tensione costanti.
Era un apice, notava ancora Valéry, che inesitabilmente avrebbe segnato una controtendenza – e non per le rovine della guerra civile. Il successo dell’Europa è “una rottura d’equilibrio molto straordinaria. Ma le sue conseguenze sono più straordinarie ancora: ci fanno prevedere un cambio progressivo in senso inverso”. Un effetto fisico, di bascula: più l’Europa cresce, minore è lo spazio di crescita, più forti si fanno le spinte contrarie.
Era europeo mezzo mondo nel 1918, ora l’Europa non sa dove sta.

Leva obbligatoria – Si fa valere – si è fatta valere, prima dell’abbandono – come unificatrice. Il solo elemento unificatore, nazionale, politico, linguistico, per molti strati della società italiana. Il che è vero, ma unificatore nel senso della sottomissione, della gerarchia rigida. Ha formato l’Italia in un certo modo, nel culto dell’Autorità, del potere, anche piccolo e minimo. Alla subordinazione, alla rete incessante dei favori, dell’esercizio del potere, anche minimo.
Sempre rifiutata. Dai massisti subito quando la Francia di Napoleone pretese d’introdurla fino in Calabria, come una riduzione in schiavitù, del lavoro e della stessa vita. E oscuramente sempre avversata, anche nei momenti di maggiore patriottismo, come la Grande Guerra.
L’abbandono, la renitenza, l’imboscamento, l’automutilazione sono il leitmotiv di “Addio alle armi”, che pure è un romanzo sentito, partecipato, “italiano”, alla Grande Guerra. In uno di tanti colloqui col cappellano che punteggiano il racconto, dove nota più volte che l’esercito italiano mandava “troppi uomini” al fronte, che la guerra intendeva di carne umana, il narratore-Hemingway argomenta: “È nella sconfitta che diventiamo cristiani”. E quindi, intende, capiamo l’inutilità di questa guerra. Mentre le masse vanno al fronte rassegnate: “Furono sconfitte all’inizio. Furono sconfitti quando li presero nelle loro stalle e li collocarono nell’esercito. È per questo che il contadino ha saggezza, perché parte sconfitto dall’inizio”.

Manicomi aperti - Basaglia fu anticipato da Paul Nitsche, psichiatra tedesco formatosi prima della Grande Guerra (1877-1948). Praticò presto, prima della guerra, e teorizzò in un volume nel 1929, una psichiatria non punitiva e non carceraria ma riabilitativa, attraverso l’occupazione e il lavoro, meglio se produttivo.  metodo
Di Nitsche non si parla perché morì ghigliottinato nel 1948. Dopo un ungo processo come criminale di guerra. Era nazista. E fu a capo del programma di eutanasia (eliminazione) dei disabili.

Monachesimo – Foucault lo vuole l’erede delle scuole filosofiche antiche: si andava a scuola da Platone come ci si rinchiude nel cenobio a riflettere. Forse sì, ma allora ha finito presto di essere una scuola. Forse per essersi diffuso troppo, degradando a una sorta di Caritas. E ha imbarcato soprattutto poveri di spirito. In parte per non avere – non poter avere – maestri (abati, igumeni) all’altezza.

Nobiltà – Si costruisce a ritroso, andando verso le origini. Riguardata al contrario, nella discendenza, la genealogia quasi sempre invece non è esaltante. La radici sono solitamente migliori  – più solide, valide, valorose, attive, produttive, eroiche – poi la genealogia tende a degradare.
La nobiltà del titolo invece cresce con i quarti: tanto più si affermano i titoli di nobiltà, tanto più se ne assottiglia la sostanza.

Russia – È rimossa, ma è stata l’ultima potenza europea. Ha dominato fino a ieri le menti di mezzo mondo, seppure brutta e feroce. L’Urss è l’ultima potenza europea, erede della Russia contro l’Orda d’Oro che non s’arresta: Tashkent fu presa nel 1865, Samarcanda nel 1868, Bukhara, la città di Avicenna, il primo filosofo occidentale, riconquistata nel 1920, con la deposizione dell’emiro.

Stalin – Fu inflessibile contro i kulaki e col partito, ma stava col popolo: un “bravo” dittatore sa che non può mettersi contro il popolo, e più se è erede degli zar. Sempre gli zar furono migliori del loro tempo, Pietro il Grande, Caterina II. Lo zar Alessandro a Vienna era più democratico di Metternich e del re di Prussia. Già nel Cinquecento, con l’opričnina, lo zar si metteva col popolo. Anche come tattica: l’opričnina portò i boiari impauriti a chiedere aiuto allo zar, che così poté ammazzarli tutti nel suo palazzo.
Il precedente giusto è Ivan il Terribile, come già Eizenstein ha immaginato. Ma con la grande furbata di farsi fare la guerra, da quel demente di Hitler. Grandi elogi si celebrano nella storia diplomatica del “farsi fare la guerra” che si vuole fare, una sorta di scaramanzia: Bismarck con Francesco Giuseppe nel 1866, e con Napoleone III nel 1870, l’Intesa col kaiser e Francesco Giuseppe nel ‘14, Stalin con Hitler.

astolfo@antiit.eu 

Voyeuristi esibizionisti e contenti

La summa del convivere “in pubblico” contemporaneo. Droni, videocamere, microfoni, media, new media, social media, viviamo ormai in un dentro-fuori, anche in camera da letto, anche nel bagno. Sorvegliati con strumentazioni ad hoc, ma di più esposti autonomamente, come un bambino che si scopra la pancia.
Un piccolo-grande voyeurismo-esibizionismo. È il panottico di Fourier, l’utopia che non si dice più. Carceraria o forse liberatoria. Ne discute col liquido Bauman, il sociologo canadese David Lyon, animatore di un New Transparency Project e di un Surveillance Studies Centre, che premette alla conversazione un saggio deprecatorio, con vecchio passo antimonopolista e anticapitalista.
Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida, Laterza, pp. XXVII-159 € 16

domenica 18 gennaio 2015

La sanità pubblica è privata

Eccetto che per il Pronto Soccorso, e per l’alta chirurgia, per la quale però impone attese di mesi e anche di anni, la sanità pubblica si è marginalizzata. È come una macchina mangiasoldi che gira a vuoto. Non proprio ma quasi, perché coi suoi altissimi costi si è messa fuori gioco.
Il ticket per le analisi è spesso più esoso del costo dell’analisi stessa, per cui il paziente trova più conveniente pagarsi l’analisi. Le casse mutue e perfino le assicurazioni trovano più conveniente praticare alcune attività in proprio, fuori dal sistema sanitario nazionale. Le fisioterapie da alcuni mesi, e le cure riabilitative. La diagnostica e la piccola chirurgia già da anni.
Molte cliniche trovano più conveniente lavorare in convenzione con soggetti privati. Cha garantiscono i pagamenti. Il che consente di calmierare i tariffari per i servizi offerti.
Lo stesso Pronto Soccorso peraltro più spesso che non si fa pagare.
La sanità pubblica è praticamente tornata al ruolo che aveva prima del 1970 e del Ssn, di copertura dell’urgenza, e dell’alta chirurgia. Ma con un’offerta insufficiente rispetto alla domanda (necessità, bisogno), benché a costi decuplicati.  

Recessione – 31

Quello che bisognerebbe sapere e non si dice:
L’economia va peggio, non meglio. L’economia europea, di cui quella itaiana è parte. La crescita del pil italiano quest’ano la Banca d’Italia ha ridotto alo 0,4 per cento, dall’1,3 per cento che si prospetava asei mesi fa.

Tre milioni e mezzo di aziende ha problemi di liquidità per mancati o ritardati incassi – nessuno paga nessuno.

3,6 milioni di giovani in età di lavoro, in gran parte donne, non cerca più un’occupazione o un’attività Sono il 15 per cento della forza lavoro.
L’analoga percentuale è al 2,2 per cento in Gran Bretagna, all’1,2 in Germania, al 5 per cento in Spagna, che pure ha una disoccupazione molto più alta (in Spagna qualcosa si muove).

Si imputa la deflazione al ribasso del petrolio. Mentre è vero il contrario: il calo dei prezzi dell’energia migliora la propensione al consumo, ma non basta a contrastare l’effetto deflattivo dell’austerità.

Il ribasso del greggio è peraltro dimezzato in euro, per la contemporanea svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, moneta di riferimento dei mercati internazionali, del 20 per cento in due mesi. Da qui l’impatto limitato in Europa del calo del greggio rispetto alla propensione al consumo, elevatissima invece negli Usa. L’Europa è sempre in austerità.

La Caritas ha aperto in tre anni cinquanta supermercati della carità. I parroci certificano il bisogno delle famiglie,. Cui la Caritas dà un tesserino speciale, con cui fare la spesa gratis. Di tutti i generi alimentari eccetto il “fresco”.

Il Comune di Roma paga alla Caritas cinquemila pasti l giorno per i poveri – ne pagava duemila ancora al tempo di Veltroni, nel 2007.

Quante varietà nell’intelligenza

Nel 1914 il dubbio era di parte. “Sapere e Dovere dovranno dunque essere sospetti?...Le grandi virtù dei popoli tedeschi hanno generato più mali di quanti vizi abbia mai creato la pigrizia Abbiamo visto, visto coi nostri propri occhi, il lavoro  coscienzioso, l’intenzione più solida, la disciplina e l’applicazione più serie adattate a spaventosi disegni”.  L’Europa nel 1914? Un “forno portato all’incandescenza”.
Sono note datate ma vive, l’intelligenza di Valéry ha questo tratto fatato che non invecchia. Senza essere invasiva: si scorrono queste riflessioni del poeta saggista come di compagno di strada, suggerimenti in simpatia. “Il sapere, che era un valore di consumo, diviene un valore di scambio, una derrata”. L’uomo europeo “non è definito dalla razza, né dalla lingua né dai costumi…. Ma dal desiderio e dall’ampiezza della volontà”. “Avevo vent’anni, e credevo alla potenza del pensiero”. “La materia è viva, c’è una febbre eterna nei corpi”. La Letteratura è un fatto di Corte. Dalla Città ci arrivano commedie, dalla Campagna favole. “Una consonanza, talvolta, fa un mito”. Sul mito la raccolta di Agosti è una miniera.
Una lunga passeggiata, rinfrescante e corroborante, nei luoghi più vaghi dello spirito, volendo farsi compagnia da soli.
Paul Valèry, Varietà, SE, pp. 342 € 32