Conan Doyle – Ha, ancora a fine Ottocento, evidente soprattutto nelle storie
di Sherlock Holmes, il vecchio stile conversativo che la letteratura si portava
dietro dal Rinascimento, prolisso e pieno di preamboli. Evidente a contrasto
con la rapidità che si richiede al giallo. Che invece Sherlock Holmes in vari
modi interpreta: misterioso il giusto, e poi uno che pensa, parla e fa fulmineo,
muovendosi come un ninja e quasi ubiquo. Anche perché la velocità
connotava il Fine Secolo, nei trasporti, nelle comunicazioni. Conan Doyle il
medico scozzese è uomo del suo tempo, ma si voleva scrittore come aveva
imparato a leggere.
D’Annunzio – Anglodipendente più che francofilo. Mario Praz lo riconduce
alla poesia, la saggistica e la sensibilità inglesi, tracciandone gli echi e i
calchi. Soprattutto nella introduzione alla raccolta, cinquant’anni fa, di
“Poesie, Teatro, Prose” per i classici Ricciardi. Con un’infinità di
riferimenti, nella filiera decadente, a Pater-Swinburne, ma anche a Shelley (e
Keats) e a Whitman. Per letture dirette o mediate da Adolfo de Bosis, Enrico Nencioni
e altri letterati suoi amici. E più dalla pubblicistica francese, il “Diario”
dei fratelli Goncourt, e alcune traduzioni – che Praz identifica come fonti per
i comuni errori.
Debito –
Usava tra i letterati e artisti indebitarsi. Fino a D’Annunzio era quasi una
regola. Poi tutto è cambiato, e anche l’artista si vuole uno regolare, in pace
col fisco e gli amici. In economia il debito è durato più a lungo. Fino a
Keynes, si può dire – che per l’Italia significa ani 1970-1980. È da poco che è
demonizzato. Il problema sono i creditori. Che normalmente vogliono prolungare
il debito. La Germania è una novità, che vuoe che glielo paghiamo tutto subito.
Rabelais
ne fa l’elogio, ai capitoli Terzo e Quarto del “Terzo Libro”: Panurge, a cui
Gargantua rimprovera di avere mangiato il suo grano in germoglio, si lancia in
un “Elogio dei debiti”. “Ma”, gli chiede Pantagruele, “quando ne sarete
fuori?”. “Alle calende greche”, risponde Panurge, “Dio me ne guardi di non
averne. Non troverei allora più nessuno che mi presti un denaro. Chi la sera
non lascia levito, al mattino non potrà fare il pane. Dobbiate sempre qualcosa
a qualcuno”.
Rabelais
trasse l’idea dal Berni, ha scoperto Giovanni Macchia per molteplici indizi –
nell’introduzione alla traduzione di Augusto Frassineti, 1970. Uno dei
“capitoli” di Francesco Berni (“Capitoli e sonetti burleschi”), Il XXVI, è “In
lode del debito”: chi s’indebita vive bene, e senza faticare. Ma il canone
l’aveva meglio stabilito prima, al cap. XXI (“Capitolo primo della peste – A
messer Pietr Buffet cuoco”): “Accatta e fa’ pur debito, se sai,\ Che non è
creditor che ti molesti”.
Rabelais
ne fa il motore dell’armonia dell’universo: il debito è la Grande Anima del
Tutto. Ne farà l’elogio anche Charles Lamb, in uno di “Saggi d’Elia”: “La
specie umana è composta di due razze d’uomini, gli uomini che prendono a
prestito, e gli uomini che danno a prestito… L’infinita superiorità dei primi,
che io decido di chiamare la gran razza,
traspare dalle loro figure, dal portamento, e da un certo senso istintivo di superiorità”.
Elezioni
–
Comprare i voti, come alle primarie del Pd, si faceva già al tempo di Poe, che
probabilmente ne morì. L’autunno 1849 era tempo di elezioni. L’uso era di
irretire possibili elettori convogliandoli in locali detti coops, pollaio, stalla. Poe fu probabilmente uno dei polli di
queste bevute elettorali, alle quali non resse. Fu trovato la sera del 3
ottobre abbandonato per terra in una pozza sotto la pioggia. Ricoverato, morì
quattro giorni dopo in ospedale di delirium
tremens.
Pasolini – Ma ce n’è uno anche
reazionario e inappetibile. Col protagonismo strapaese, molto malapartiano –
accorto, opportunista, giornalistico (ma non beffardo). Nel 1968, per esempio,
in cui non fece solo che schierarsi con la Celere. Superfiale a volte,
disinvolto: “Il Terzo mondo, fuori dalla retorica, è stupido”, poetava. Per il
motivo “che la comodità allontana dalla natura,\dove il modello di
comportamento è dato dai sublimi asinelli,\dove i vecchi vanno a sedere
scoperto,\e quanto ai ragazzi il loro unico ideale è essere servizievoli”. In
Siria? Mostruosamente falso – il sesso vi sarebbe “solo funzionale, il modello
del coito è quello dell’asino”.
Bisogna volere bene ai poeti, ma il panflettista
sconcerta. Figlio di un padre che amava la madre “senza
reciprocità”. Con una esistenza quindi posticcia, come il friulano appreso per
poetare, o il romanesco. Ero comunista, voleva si dicesse nel suo coccodrillo,
perché ero conservatore. Jan Palach non gli piacque, lui che piangeva su ogni
destino. Era andato a Praga, e inaugurava la rubrica su “Tempo” – erede proprio
di Malaparte - al tempo dell’invasione e non ne ha fatto cenno. O si può dire
di lui quello che “non sa nulla, ma lo sa meglio”, come si diceva a Praga?
Non
si sa che pensarne, di uno che scrive: “Dopo Venezia, Bologna è la città più
bella d’Italia, oggi a Bologna c’è il congresso del partito Comunista... Soltanto
a Natale e Pasqua c’è nei gesti della gente tanta letizia e ansia di qualcosa
che si riconferma come nuovo”. A Natale e Pasqua però “la letizia è sciocca”, a
Bologna “buona e sincera”.
L’assassinio
del fratello imputava ai “fascisti di sinistra”, il comodo scarico
dell’ipocrisia.
Proust - ”Molto di
Proust c’era già nel “Fanciullo nella casa” di Walter Pater, nota Mario Praz,
in uno degli articoli che dedica a Vernon Lee in “Il patto col serpente”. Praz
insiste molto sull’incidenza di Pater nella sensibilità e la stessa opera di
Proust..
Roma – Ha istruito e ispirato mezza pittura europea. Secondo
Diderot la migliore: “Le più belle composizioni dei pittori, le più rare
sculture degli statuari, le più semplici, le meglio disegnate, quelle che hanno
il più bel carattere, il colore più vigoroso e più severo, sono state fatte a
Roma, o al ritorno da Roma”.
Sogno – Prima di Freud e
del surrealismo, i sogni erano una macchina da letteratura, per essere carichi
di mistero, anche quelli beati. Di contorni spesso, ma sempre di una sostanza
che s’intende “più” del reale, dell’immaginazione quotidiana. Se non altro per
essere differente, di proporzioni, di forme, di combinazioni.
Il caso più noto è quello di Stevenson, nei
ricordi della moglie: “Nelle ore piccole del mattino fui svegliata da grida
d’orrore di Louis. Pensando che avesse un incubo lo svegliai”. Era vero, era il
sogno dello “Strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde”. Che però non fu scritto
come nel sogno. Stevenosn si arrabbiò con la moglie: “Perché mi hai svegliato?
Stavo sognando un bellissimo racconto da far accapponare la pelle”. E per tre
giorni si concentrò a scrivere di furia il racconto, come lo ricostruiva nel
sogno. Ma non funzionava: lo lesse alla moglie, che non ne fu impressionata, e
allora o bruciò. Poi lo riscrissi con calma nella forma attuale.
Se ne è sempre fatto l’elogio, in poesia e
anche in prosa – Dante certo, a partire dalla “Vita Nuova”, e un’infinità di
altri autori, se non tutti. Ma di più nel romanticismo, che ne teorizzò
variamente la funzione creativa. La “camera oscura” della mente chiama il sogno
De Quincey, il “mangiatore d’oppio inglese”. Che lo associa all’oppio per una
doppia funzione “creativa”: sognare con l’oppio. Ma lui non ci riuscì, i suoi
“Suspiria” sono frammenti non notevoli. Anche Poe: “Eureka” non è il suo
miglior racconto. Coleridge pretese di avere composto “Kubla Khan” con visioni
di sogno sotto l’effetto dell’oppio – poi gli studiosi hanno scoperto che
assemblava, migliorava, “visioni” scritte da altri. Una visione tra oppio e
sogno che ha fatto epoca è di Baudelaire – ne parla Calasso, “La folie Baudelaire”. Ann Radcliffe
s’ingozzava la sera di cibi pesanti per favorire gli incubi. Allo steso effetto
Füssli, il pittore, si nutriva di carne
cruda.
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