Giuseppe Leuzzi
E.M.Forster, italofilo,che visse la sua
migliore vita in Italia e più al Sud, ha “l’eterna avidità del Sud”, nel racconto
di Ravello, “La storia di un panico”.
Molti segni di croce all’entrata in campo del
Borussia Dortmund a Torino contro la Juventus. Dei giocatori tedeschi, ripetuti,
con variazioni personalizzate. Nessuno della squadra italiana. Ci prendono
anche la superstizione?
Il Bue Sky M, mercantile moldavo con 800 clandestini
a bordo, è abbandonato in tempesta al largo del Salento, dagli scafisti in
fuga, velocità nove nodi, rotta di collisione con la costa, collisione prevista
in venti minuti. Il sottotenente di vascello Antonello Papa e quattro
sottufficiali della Guardia costiera si offrono di farsi trasbordare sul ponte
del mercantile da un elicottero, operazione doppiamente rischiosa, per il vento
e le onde, sia per l’elicottero nello stallo sia per gli sganciamenti dei
soccorritori sul ponte. L’operazione riesce, la nave, governata, entra in porto
con minimi disagi.
Una storia da film. Ma non ne sapevamo nulla, o
quasi. Giusto che un elicottero della Marina aveva calato sulla nave moldava un
equipaggio pilota, un’operazione di routine.
Fava è di Taranto. E il fatto è successo a
Gallipoli. La storia è stata ricostruita e raccontata dal “Financial Times”, il
giornale finanziario di Londra.
Che ci fa un avvocato calabrese a Milano?
Dopo gli
imprenditori gli avvocati? La caccia al meridionale continua implacabile a
Milano. Liquidati i grandi imprenditori siciliani, perfino Cuccia, Milano è
passata alla caccia dei pesci piccoli ‘ndranghetisti, manovali del crimine, anche
semplici manovali. Passa ora ai professionisti incensurati?
Il Csm
appena insediato per prima cosa ha allontanato da Milano il giudice milanese
Robledo. Perché, per quale colpa? Per avere parlato con un avvocato. Tutti i giudici
parlano con gli avvocati – altrimenti gli avvocati che ci starebbero a fare? Ma
quello di Robledo è uno pericoloso: è calabrese. Per quale altro motivo sarebbe
stata ascoltata la conversazione tra i due?
È vero. L’avvocato
Aiello opera da sempre a Milano (è avvocato dela Lega…). Ma veniva inquisito
dalla procura di Reggio Calabria in quanto “calabrese a Milano” – intercettato,
pedinato. La quale ha scoperto che una
volta ha parlato al telefono col giudice Robledo. La Procura di Reggio non ha
trovato nulla contro l’avvocato Aiello, e allora ha ripiegato su questa telefonata.
Con successo, come si vede: poi si dice che la ‘ndrangheta non viene perseguita
a Reggio Calabria.
Sempre
Napoli è implacabile con la Calabria. I giudici che indagano (intercettano, pedinano,
fotografano) l’avvocato Aiello sono Cafiero de Raho a Reggio Calabria, e la sua
corrispondente Ilda Boccassini a Milano, due napoletani felici di esserlo.
I
giudici del Csm devono essere anche loro napoletani. Come quelli di Milano. I
giudici napoletani si distinguono per essere implacabili, anche quando
commettono reati, acclarati. Come il giudice Esposito junior alla Procura di
Milano. O lo stesso capo della Procura Bruti Liberati, che “si dimenticò”
provvidenzialmente un dossier d’accusa – provvidenzialmente per l’accusato. O
Francesco Greco, ottimo elegante velista, famoso per avere sempre ripulito,
spesso senza nemmeno una simulazione di indagine, reati accertati della Milano
bene - della Rizzoli Corriere della sera, della Pirelli-Telecom, della Saras.
Autobio
“Fuori” è stato il mio mondo. Fuori in campagna.
Nei campi che entrano in paese. Sula strada e nelle piazze. E anche in collegio,
le ore fuori solo hanno contato. In compagnia sempre, di corsa o al passo o in
lunghi conversari, di amicizia e rivalità, l’unico pensiero, costante, tutto il
giorno, tutti i giorni. Del cibo nessun ricordo, delle lunghe sedute obbligate
a tavola alle ore canoniche, se non di silenzi, e di attese nervose del fuori.
Che non è fuori ma dentro. Una presenza
costante, continua, di campi distesi, valloni e dirupi, ogni centimetro di
terra fertile essendo una coltivazione, ripulita, curata, ricostruita, ogni
giorno, a ogni ora del giorno. Da presenze magari mute ma vigili. Dove oggi si
fatica a farsi strada, anche in piano, tra le felci invasive e la a sterpaglia,
nella trascuratezza e forse l’abbandono. Che potrebbe essere un buon segno,
l’abbandono degli stenti per l’abbondanza, del bisogno per l’agiatezza, della
fatica per il tempo libero. Se non che timore e tristezza si registrano a ogni
incontro o colloquio, e sfiducia, abbandono. Più spesso di figli che vivono
della pensione del padre, sociale o d’invalidità, modesta, modestissima. E
coltivano il risentimento. La città sempre mettendo al centro, miraggio di
amici e parenti, come se fosse un frutto tutto polpa. Vissuta (immaginata,
vista) in periferia. Di necessità, per risparmio. E per bisogno di spazio. Di
luoghi aperti. Informi.. Che si popolano della propria sostanza, della vita
grumosa di paese, vischiosa, intensa. E regolare, regolata. Nei rumori, i
soffi, gli ansiti. Nei gesti, le smorfie, gli accenni, lampi a volte degli occhi
fissi, le andature ritrose.
Perché il centro – la città è già occupato e
denso. Intangibile peraltro, di una sua densità inattingibile. Ci vogliono generazioni
per fare farsi un varco. Che è sempre missione e non conquista: un
riconoscimento, sia pure generoso e bonario. Un mondo che converrebbe vivere
come spettatori e godere e non si può, l’ansia dell’emigrato è di penetrare. Si
poteva essere turisti, sia pure colti, sia pure residenziali, potendo vivere di
rendita, ma non si può, bisogna entrare nella città, che ha carni però molli e
inerti. È un altro fuori, e quasi una condanna.
“Delianova paese del West” è immortalato da Giorgio
Bocca su “L’Europeo” già l’11 settembre 1955. Per una serie di delitti, culminati
nell’assassinio del maresciallo dei Carabinieri Sanginiti. Originati da una
vicenda di gelosia, o storia d’amore tradita.
“Cappello chiama cappello”, soleva dire l’avvocato
Rossi dall’altro del balcone dove aspettava fumando il pranzo, la mattina della
domenica, quando nella piazza sottostante le persone si raggruppavano in
conversazione all’uscita dalla messa. Fatalmente per ceto, una
gerarchia formandosi d’istinto per gruppi omogenei, per abbigliamento, età,
funzione: i
cappelli coi cappelli, i berretti coi berretti, e le teste scoperte con le
teste scoperte.
Un modo di dire probabilmente di Napoli, dove
l’avvocato aveva fatto i suoi studi. In teoria, poiché molti galantuomini
tornavano dagli studi in città dandosi titoli
che non avevano per non deludere le famiglie. I fratelli soprattutto, che non
avevano beneficiato degli “studi”, degli anni giovanili spesati in città.
“Era appena
ieri”, un mondo d’improvviso remoto ripropongono le vecchie foto di Biagio
Germanò, che per mezzo secolo percorse la contrada, nell’archivio sapientemente
ricostruito dalla figlia a Scido, come se fossero istantanee. Vive nell’attimo,
repentinamente: in una smorfia, un ghigno, un sorriso, un taglio di luce, uno sguardo
rubato. Foto perlopiù di maniera, scolaresche, prime comunioni, matrimoni,
processioni. Di un fotografo che non era
già più l’artifex, l’artista in lavallière,
con baffoni e spesso anche la barba grave, che si vede scomparire nei vecchi filmati
in un mondo suo, dentro un panno nero, dove ci cattura con arti stregonesche.
Correggendo poi e fissando l’immagine a modo suo - anche se non senza certi
criteri, anzi secondo certi canoni, ripetitivi. .
O non sarà la memoria, il
riconoscimento, a catturare l’istante, a ridargli vita? No, Biagio è svelto,
una volta organizzata la posa, e lascia l’evento alla celebrazione, alla persona,
alla luce del momento, al caso. Una modestia fruttuosa, ora ricompensata dall’attenzione.
Ritratti perlopiù, ma anche scene d’insieme, nelle quali si dilettava e eccelleva,
universi sempre “colti nel segno”:
individualizzati, unicizzati, diversi, espressivi. Di sé, di un contesto, di
un’epoca. Di certi valori che lievitano ora come una scoperta. Le persone che
si fanno ritrarre sono in posa, nel’occasione sempre di una cerimonia. E le pose
non sono variate: c’è quella della comunione, col comunicando sull’inginocchiatoio,
del battesimo, con i padrini a ventaglio attorno all’infante, del compleanno,
del ritratto da mandare agli amanti e ai parenti lontani, del fidanzamento, del
matrimonio. E le cerimonie: il corteo di matrimonio, qualche volta quello
funebre, la processione, e la coppia, prima o dopo il matrimonio, lui in piedi
accanto alla donna seduta, la mano sulla spalla.
Oggi il tratto e la scena si vogliono espressivi
più che centrati o concentrati. Si andava dal fotografo risoluti, nota Joseph
Roth in uno dei suoi elzeviri,”Vecchie e nuove fotografie”, mentre oggi si
preferisce la “posa disinvolta”, come se fosse “catturata” involontariamente. Resterà la memoria della cancellazione della memoria?
“There is no sense of ease like the ease we
felt in those scenes where we were borne, where objects became dear to us
before we had known the labour of choice, and where the outer world seemed only
an extension of our personality”. È solo il “Mulino sulla
Floss”, romanzo delle sorelle (peraltro molto amato), ma giusto per mettere le
mani avanti –“quando il mondo ci sembrava una proiezione della nostra personalità”.
Avviene con la letteratura del buon ricordo.
Da
quando bambino leggeva il giornale inventandoselo agli analfabeti di casa, “da
allora niente mi ha divertito di più che spiegare agli altri ciò che io stesso
non comprendo”, scriveva Indro Montanelli ai trent’anni. “È un piacere, che non
mi ha più abbandonato”. È detto con la cifra più sopportabile di Montanelli,
l’ironia, seppure sempre in
selfie.
Ma fa giustizia della letteratura del ricordo. E più dei ricordi della prima
età, della famiglia, del paese, sempre favolosi. È sempre l’età dell’oro. Ma si
tende a cancellare più le sofferenze, oppure le gioie? Dipende dall’umore.
leuzzi@antiit.eu