sabato 7 marzo 2015

Problemi di base - 218

spock

Definire l’indefinito?

Quanto definita è una definizione, e quanto indefinita?

La creatura, che è stata creata e vuole creare, quanto è darwininana?

Un’evoluzione senza creature?

L’uomo i filosofi vogliono artigiano e poeta, d’azione e pensieroso, naturale e artificiale, soggetto e oggetto, corpo e anima. E gli uomini come vogliono i filosofi?

Perché è impossibile tradurre la filosofia tedesca, capirla cioè?

I giudici baresi del clan Emiliano sono antifascisti o fascisti? “Fatti insufficienti sempre provocano pericolo” - Spock, “Star Trek: The original Series”

spock@antiit.eu

L’odio della Fiat

Una buon notizia, le assunzioni alla Fiat. Ma trova poco spazio, giusto le poche righe obbligate, peraltro poco convinte. Anche nei giornali del gruppo.
Al “Corriere della sera” la Fiat – la famiglia – è stata la sola a mettere soldi veri nell’aumento di capitale 2014, ed è ora la sola disponibile a un’altra ricapitalizzazione. Ma Milano, e il giornale stesso, non la vogliono. Meglio fallire (il fallimento del “Corriere della sera”….) che la Fiat.
Un odio che fa il paio con quello della Cgil. La Cgil è stata un sindacato del Pci. Qualcuno si ricorda ancora Berlinguer che ai cancelli della Fiat nell’autunno del 1980 ne chiedeva l’occupazione. Ma ora, dopo venticinque anni dalla caduta delle illusioni?
Sembra incredibile che si possa odiare chi crea lavoro. No solo a Melfi, ma anche a Torino-Grugliasco, con la resurrezione della Maserati. Di cui si preferisce non parlare. Ma è quello che accade.
La Volkswagen fa in Germania le macchine per la Germania e l’Europa, la Fiat non può farle in Italia. I lavoratori tedeschi direbbero i giornali e la Cgil schiavi assermentati?
Per le macchinone tedesche ripetuti sperticati elogi, della Maserati poco o niente. I tedeschi pagano meglio? No, i giornalisti italiani non si vendono. Cioè: si vendono gratis - non sono passionali?
Se non che, il cappello ideologico non essendoci più, cos’è questa passione? La stupidità è violenza, sempre e comunque.

L’odio dei torinesi - Berlusconi 17

Da quando teneva il santino dell’Avvocato sul comodino, in vent’anni Berlusconi ha maturato un odio feroce contro “i torinesi”: la Fiat e i suoi padroni. Un addendo su questo aspetto è necessario, la berlusconeide di questo sito sarebbe monca senza. E anche la storia del capitalismo italiano.
Le berline e supercar tedesche esibite per sé e le sue numerose famiglie, nonché per i ministri dipendenti, con relativi sottosegretari. Il taglio di ogni sovvenzione al gruppo torinese, anche dei contributi per la ricerca. L’altero mutismo, dall’alto di palazzo Chigi, quando il gruppo torinese rischiò il fallimento. I bastoni fra le ruote, successivamente, per la chiusura di Termini Imerese – niente prepensionamenti né ammortizzatori sociali. Dopo aver sferrato l’attacco basso, il più risentito e cattivo: contro la Juventus, faccia e cuore dei torinesi. Col suo presidente di Lega, un giornalista convertito manager, e i giudici di comodo in Federazione, coi suoi giornalisti, specie quelli della Rai, e col suo arbitro-modello, che convocava settimanalmente e fece pagare dal suo sponsor.
Un odio non ingiustificato. All’Avvocato Berlusconi non piaceva, e lo snobbò. E quando Berlusconi ci riprovò, nel 2001, gli fornì un ministro degli Esteri che combinerà il disastro del G 8 di Genova. Il disprezzo è stato continuo del suo giornale, “La Stampa”. E delle banche con cui i torinesi fanno circolo a Milano. Geronzi provò a mettere pace, ma a rischio della sua propria carriera: gli Agnelli e Bazoli non ne vollero sapere, come già Cuccia. Pur con le pezze al culo, la Fiat per la prima e unica volta della sua storia sfidò il governo, i governi Berlusconi.
Ma anche in questa sfida, al tirare delle somme, Berlusconi esce sfiancato. La Juventus è sempre in piedi mentre lui deve cercare qualche “filippino” per il Milan. E la sua uscita dalla scena politica si fa allinsegna dellAvvocato - del suo “ci vuole la sinistra per fare qualcosa di destra”

La libertà della disfatta

Una favola alla Malaparte, sempre sulla guerra, ma composta, senza eroi né diavoli, e poche immagini esagerate. La favola della disfatta, e del coraggio di vivere. Un alpino di Bergamo, attendente, distaccato a Scilla a difendere l’Italia dall’invasione alleata, porta il suo tenente morto alla famiglia a Napoli. A dorso di un asino disperso. In una cassa di fortuna che si è fabbricata, zavorrata di fieno e carbonella per tenere il corpo asciutto, quasi mummificato..
Una traccia di racconto: un soggetto da cinema dilatato a trattamentone. Con una moralità: “Sempre, in ogni tempo, la disfatta rappresenta per le popolazioni più misere, più infelici, una sorta di meravigliosa e terribile occasione alla libertà, a una vita nuova più ricca e dignitosa”. 
Curzio Malaparte, Il compagno di viaggio, excelsior 1881 (remainders), pp. 98, ill. € 4,72

venerdì 6 marzo 2015

Ombre - 258

Rimproverano in Francia a Marine Le Pen il comizio a Roma con Lega e Casa Pound: troppo estremista. Le Pen, dunque, meno estremista della Lega.

È più osceno Berlusconi o chi lo intercetta? Sia pure un colonnello della Finanza (lo stesso che si vendeva le informazioni a giornaliste compiacenti?)

E i giudici baresi del giudice barese Emiliano: non c’è per loro il reato di stalking?
E per i colonnelli della Finanza, che intercettavano quando non c’era nessuna indagine?

Questo Emiliano che ha aperto Bari alle mafie (bische, sale giochi, spaccio) vuole ora la presidenza della Regione Puglia: dove deve arrivare il partito dei giudici? Devono controllare la Regione Puglia, cioè la sanità e le strade, cioè il business.

La prescrizione a diciotto anni, cioè un processo di (almeno) diciotto anni, che riforma! Per arricchire gli avvocati, e lasciare giudici e carabinieri a poltrire.
La giustizia del Pd la fa un avvocato, Ermini.

Pompe e trombe per il quantitative easing di Draghi e Merkel, che arriva lunedì con due anni – almeno - di ritardo. Il Nobel americano Engle, l’economista premiato nel 2003 per gli studi sui tassi d’interesse e le dinamiche di mercato, denuncia “ritardi e ambiguità”. Ma c’è solo Eugenio Occorsio a sentirlo.

Ci curiamo troppo e male: “La medicalizzazione è sostenuta da interessi economici, dalla disinformazione (cinismo esagerato) da parte dei mass-media e dei social network, e dalle esagerate promesse di ricercatori e clinici. È il trionfo del mercato contro l’interesse degli ammalati”. Silvio Garattini lo confida al bollettino della Casagit, la mutua dei giornalisti. Farne uno scoop, no? I media sono disattenti?

L’Italia esporta prodotti alimentari per 30 miliardi, la Germania per 56. Si mangia meglio in Germania? Ci sono più ulivi, vigne, ortaggi, frutteti agrumeti?

Standard and Poor’s declasssa l’Italia, abusivamente. Morgan Stanley chiede i danni allo Stato italiano per i prestiti in essere: due miliardi e mezzo. Lo Stato paga, senza nemmeno perdere un giorno.
La cifra enorme, e il fatto, abnorme sotto tutti i punti di vista, non fanno notizia.

Mario Monti, il presidente del consiglio pagatore, ne ha sentito parlare. La Consob, consultata, non sa se Morgan Stanley è azionista di Standard and Poor’s. Ma non lo sanno tutti?
E pensare che Monti, come già Draghi, Prodi, Enrico Letta, è stato consulente o “direttore” delle banche d’affari che gestiscono le agenzie di rating, se non della stessa Morgan Stanley.

Diciotto pagine di pubblicità in un giorno solo di Unipol sui maggiori quotidiani valgono una messa. Di pubblicità finanziaria, quella che costa di più. Per non comunicare nulla, sotto il diluvio di numeri.
I giorni non si comprano, si pagano.

Questo Lino Saputo di Montelepre, che si vuole uno dei canadesi più ricchi, e si è comprato il Bologna, che aspettano i giudici bolognesi per metterlo dentro per mafia? Non può essere mica un concorrente onesto. O il Bologna è una bufala, tipo il Parma?

L’artista, trinitario scaleno

L’autore è creatore. L’analogia non è nuova, ma l’autore di Dorothy Sayers è anche trinitario, e spiega la Trinità, il mistero dei misteri religiosi: una triade governa il processo creativo, Idea, Energia (la carica creativa) e Potere (la capacità di modellare). Non impersuasivo, e per di più divertente.
“Suppongo che di tutti i dogmi cristiani la dottrina della Trinità goda la peggiore reputazione di oscurità e lontananza dall’esperienza comune”, la scrittrice non bara. Con “l’effetto per chi la contempla di cecità, per assenza o per eccesso di luce”. Ma questo è quello che si propone, di “dimostrare” la Trinità. Non solo in Dio ma anche nello scrittore – che fa Dio.
Un saggio fuori tempo, fuori misura anche – sicuramente fuori dalla speditezza di lord Wimsey, il gentleman per caso detective per cui Sayers è famosa. Ma divertente, seppure non facile. E ad ogni piega vero, seppure paradossale. È anche tortuoso, ma si vorrebbe non averlo finito. Per l’assunto bislacco, e per le tante scoperte – riconoscimenti, ritrovamenti.
Non è un divertimento. La Trinità Sayers affronta da conoscitrice della materia, figlia di pastore. Dal credo di sant’Attanasio alla Theologia Britannica, la Theologia Germanica, sant’Agostino naturalmente, san Tommaso d’Aquino, e i molti aristotelici di Oxford. Dove si laureò in lingue e letterature medievali – nel 1913 una donna non poteva laurearsi, il titolo le fu riconosciuto dopo la guerra. Ragazza madre, poi sposata a un divorziato, Atherton Fleming, un giornalista, femminista, insegnante (anche in Normandia), pubblicitaria (accreditata di slogan ancora famosi), drammaturga, filologa (tradusse la “Divina Commedia”, “la mia cosa migliore”, con tre volumi di “dantesca”), pedagoga (il suo manuale “The Lost Tools of Learning”, 1947, è stato a lungo libro di testo negli Usa), un’attività non smise mai: la controversia religiosa. Elisa Grimi, “The Dragon Lady”,  la ricorda combattiva al Socratic Club di Oxford ancora nel 1948, in una celebre contesa con Elizabeth Anscombe attorno a “Miracoli”, il trattato filosofico con cui C.S. Lewis, filosofo in cattedra e presidente del Club, intendeva consacrarsi – una contesa al termine della quale Lewis abbandonerà di colpo la filosofia per buttarsi nella fantasy, con le “Cronache di Narnia”, l’Harry Potter degli anni 1950. Ma è anche un divertimento.
Niente beghinismo. “Dio è misterioso”, esordisce, “e così, per quel che vale, è l’universo, e ogni altro uomo e ogni altro sé, e la biscia sul viottolo in giardino; ma nessuno di questi è così misterioso da corrispondere a niente nell’umana conoscenza”. Si usa far discendere da Dio tutte le cose. Dorothy Sayers vuole fare il cammino inverso: ascendere a Dio, anzi al Dio più misterioso, della Trinità, attraverso il suo lavoro. Di scrittrice. Quindi creatrice, anche lei. Sfidando il giapponese della barzelletta: “Onorevole Padre, benissimo. Onorevole Figlio, benissimo. Ma Onorevole Uccello non lo capisco”.
Lo fa per analogia. Stabilito preliminarmente che tutta la conoscenza, di Dio e dell’ultimo essere, dell’ultima parola, è analogica: Dio si conosce per analogia, il linguaggio è analogico. Non però un archetipo platonico: la Trinità è qualcosa derivata dall’esperienza. Di autore: “L’esperienza dell’artista prova che la dottrina trinitaria dell’Idea, Energia, Potere è, piuttosto alla lettera, cosa intende essere: una dottrina della Mente Creativa”. Idea, Energia, Potere è il processo creativo quale Sayers  individua d’acchito. Tre categorie – momenti della creazione - arbitrarie e fattuali. Come le tre unità drammatiche di Aristotele, che sono “affermazioni di fatti”  non “editti arbitrari”. In compagnia di molti ricostituenti exempla.
Analogamente, se l’autore è Dio, Dio è lo scrittore. L’analogia si realizza in forma di autobiografia. Nella creazione Dio scrive la sua autobiografia. E come l’autobiografia (lo scrittore non può darci due autobiografie, non può cioè mostrarsi come due persone con due vite differenti), la creazione è unica. Potere, power, ha in inglese connotazione simile all’Energia, e in italiano all’organizzazione politica e sociale, ma qui è la capacità di rileggersi (analizzarsi, emendarsi) e di comunicare agli altri.
Tutto-padre e tutto-figlio
Unica avvertenza: la Trinità dello scrittore è “scalena”: “La co-parità della Trinità Divina è rappresentata in pitture e negli emblemi massonici come un triangolo equilatero; ma la trinità dello scrittore è raramente altro che scalena, e talvolta è fantasticamente irregolare”. Con l’avvertenza, per di pi più, del “Credo” di sant’Attanasio – di cui fa molto caso, a partire dall’esergo: “Un Padre, non tre padri; un Figlio, non tre figli; uno Spirito Santo, non tre spiriti santi”. Che detto della divinità sembra strano, ma dell’autore no. Il tutto-padre è quello che con l’Idea ha già risolto – a volte è anche un critico, l’ “erudito secco-come-polvere”, a volte quello famoso che “ha l’idea più meravigliosa di un libro, se solo avesse il tempo di sedersi e scriverlo”. Un patripassiano. E così il tutto-figlio, che si riempie di se stesso (Swinburne, gli eufuisti, “Meredith al suo peggio”, in parte Joyce, “la verbosità attaccapanni”, con due pagine di Anna Livia Plurabelle e il Liffey, il fiume, che a Dublino chiamano anche Anna Liffey…).
Un trattatello ricco di umori, e di intelligenza critica. A partire dalla “lettura” della nostra ricezione. Di “Amleto” che “sappiamo a memoria”, e delle novità. Non per altro, per “il potere di associazione delle parole”. L’analogia con la creazione artistica è deliziosa. Fluida, magnetica. Molto fattuale peraltro: è come il paradiso del Dio dei teologi, “immanente e trascendente”.
L’analogia accompagna di persuasive verità, in forma di linguaggio corrente. “L’universo non è un lavoro finito”. E se è un dramma, possiamo recitarlo, anche bene,  senza averlo “letto”, senza sapere di che si tratta – succede agli attori del cinema, e anche del teatro (una famosa attrice lo fece per decenni, Mrs. Pritchard, l’“ispirata idiota” di Jonson). Per il creatore è diverso: la creazione è un “atto d’amore”, e “l’amore è la più crudele delle passioni” – oggi “inflazionata di ogni sorta di associazioni, dalle più banali alle più tremende”, ma anche qui l’analogia aiuta: è anzitutto l’amore di se stessi.
Molto si tratta di teatro, la passione più vera, inappagata, dell’autrice non ne resta nulla, giusto la menzione di alcuni drammi radio per la Bbc sulla vita di Gesù. Con un capitolo sul problem solving o la detective-story. Ma con insorgenze, da conversatrice amabile. Immaginazione è fantasia? “L’immaginazione creativa è la nemica della fantasia, e il suo antidoto”. Il potere della parola è evocativo (T.S.Eliot), associativo (Joyce), trasfigurativo (Sayers – ma comune: un passo non rilevante del suo “Nove Sarti” fa ascendere al Libro di Giobbe, al Libro di Isaia, ai Salmi di David, e a Milton, Keats, Browning, Tennyson, Camile Doyle, T.S.Eliot, Donne, nonché agli angeli del soffitto della chiesa in parrocchia…). E c’è un potere cieco della parola, denso: “Quando Salomone o chi per lui scrisse il “Cantico dei cantici” non intese scrivere un epitalamio del Cristo con la sua chiesa”, e tuttavia. O la fenomenologia: “Cominciamo a sospettare che l’approccio puramente analitico ai fenomeni ci sta portando solo più e più in là nel’abisso della disintegrazione e della casualità”. E se “è vero, come i panteisti dicono, che il creatore è semplicemente la somma di tutte le sue opere”, allora Shakespeare è il tomo con tutte le sue opere?
La teologia alla fine non c’entra – c’è all’inizio per rompere le difese? È giusto un vangelo per autori. Di una messia un po’ caustica. Soprattutto per aver agganciato i lettori fedeli all’amo indigesto della teologia – non siamo tutti laici e anzi agnostici?
Dorothy Sayers, The Mind of the Maker, HarpeOne, pp. 229 € 12

L’età del falso

Vince MasterChef, nell’ultima gara all’ultimo respiro coi due concorrenti rimasti,  il cuoco che “Striscia la notizia” ha anticipato due sere prima. Senza scandalo per nessuno. Anzi, Sky che organizza l’evento si frega le mani per lo scandalo facendo finta di minacciare querele, e un milione e mezzo si spettatori, a pagamento, si gode la finta gara. Gara che non è dal vivo, come si lascia intendere, ma pre-registrata – con una o due varianti sul vincitore finale. Uno spettacolo in forma di finta gara.
Lo stesso per il festival di Sanremo. Dove il “voto popolare” è comprato dagli autori e le case discografiche, e il vincitore, anche lì, si sa prima della gara. Lo stesso al Grande Fratello, all’Isola dei Famosi, e ad altre gare, più o meno di sopravvivenza, più o meno a quiz. E a tutti i reality, a partire dal “Truman Show” di Jim Carrey. Sono spettacoli ma con la pretesa di essere eventi veri. E come tali sono goduti. 
L’esito della “gara” a Masterchef non era un segreto. Da tempo. Ma nessun giornale lo ha detto, pur pullulando di redattori gastronomici e della comunicazione.

L’età del lamento

Se fa freddo fa troppo freddo - improvviso, eccessivo, insostenibile. Se caldo troppo caldo – umido, arido, afoso. Si muore anche, di freddo e di caldo. Morire non è una novità, ma nuovo è l’allarme. Senza contare che ogni linea di temperatura implica un mutamento climatico – “dove andremo a finire?”
Per l’Italia è una novità. Fino a non molti anni fa le previsioni del tempo erano burocratiche, dell’Aviazione. Ora abbondano i siti meteorologici, giorno per giorno, ora per ora, paese per paese, e i media fanno del tempo la notizia principale.
Si direbbe una buona notizia: segno che non ci sono problemi urgenti. E invece no, è un’altra pietra della demoralizzazione. Che si accompagna al non fare, alla burocratizzazione: una costosissima inerzia.
L’Anas non libera le strade come dovrebbe, da frane o neve: dichiara lo stato di isolamento, e va a scaldarsi con l’aperitivo. O d’estate: ci vogliono tre pattuglie per spegnere un piccolo focolare lungo la strada, dello sbadato  che ha buttato la cicca accesa. Si chiami il 112 per segnalare l’inizio d’incendio: pronto arriva il milite. Arrivano in coppia, uno controlla il fuoco, l’altro chiama l’Anas. L’Anas interviene per chiamare i pompieri. Infine, ma un’oretta è passata, arrivano i pompieri, quando bastava una pala.

giovedì 5 marzo 2015

Secondi pensieri - 208

zeulig

Anamorfosi  - Deforma ma non occulta, e anzi allarga la prospettiva.  Come modo di ricerca e come paradigma compiuto.
Una rappresentazione da specchio anamorfico non (necessariamente) deforma la realtà, che è sempre deforme – non geometrica, non logica: è il reale filtrato dalle passioni, che più spesso sono solo un modo d’essere che un atto, più o meno volontario. O la costruzione di un labirinto, per curiosità, per vezzo, per sfida. Di cui non è prigionieri in realtà, ma in cui anzi si vaga a piacere.

Citazione –È l’effetto dell’isolamento. Si parla con la lettura, per non parlarsi da soli.
La riflessione (filosofia) è solitaria. Si dialoga sempre, ma sempre con gli assenti, e più con i morti, con le citazioni. Le corrispondenze tra i filosofi sono sempre piatte, se non per il “lato umano”.

La filosofia è fatta di citazioni. È una ruminazione, il filosofo si può dire un ruminante. Anche quando parla con gli “esempi”. Le manca il petit fait vrai di Stendhal, di cui Barthes dice che “fa sentire il reale” – il Barthes delle “Mitologie” quotidiane: il dettaglio che fa l’emozione.

Critica - La critica non avvince se non da un punto fermo. Se non afferma una cosa: una forza, un partito, un gruppo, un’idea condivisa.

Decadenza – È malarica, contagiosa. Il discorso sul declino della civiltà genera una reazione conservatrice, di rigetto: la decadenza vuole potersi compiangere, o resistere, sia pure all’ultimo sangue.

Il discorso della crisi non è rigenerante - inventivo, euforizzante. È un epicedio, da prefiche. Una forma di eutanasia.

Materia - L’Arnheim di Musil, i bibliotecari deliranti di Borges: la meraviglia è indotta dalla materia più esanime – persone che non sono. La meraviglia non è nella materia ma nella sua rappresentazione. È per questo che la materia non esiste? Non si trova, resta oscura.

Metafisica nordica - “Metafisica nordica” è titolo ne 1938 di Oskar Becker, un filosofo nazista. Ne parla in forma di critica a “Essere e tempo”, l’opera capitale-rivelatrice, dieci anni prima, di Martin Heidegger, come non abbastanza fondatrice di una, appunto, metafisica nordica. Ma Heidegger non obiettò, limitandosi ad aggiungere che i tedeschi sono “un popolo metafisico”. Inafferrabile?
Nella sua celebrazione di Gerhard Gentzen, “Il genio perduto della logica” - il matematico tedesco morto giovane a Praga, di fame, dopo esere stato arrestato dall’Armata Rossa nel 1945 - Eckhart Mentzler-Trott dice Becker di “fisico estremamente delicato, natura quasi timida”. Apprezzato nel dopoguerra, professore in cattedra e poi emerito a Bonn, proprio per avere ammesso di essere stato nazista. Becker era anche polemico, oltre che timido: dopo la notte dei Cristali il 9 novembre del 1938, il pogrom di Stato antiebraico, protestò con la rivista di “Storia della matematica”, con la quale collaborava, perché aveva un redattore ebreo. Si era laureato nel 1922 con Husserl, che poi sarà radiato dall’insegnamento in quanto ebreo, con la tesi “Esistenza matematica”. Era stato poi assistente di Heidegger, uno dei discepoli mandati in cattedra da Husserl. Infine professore a Bonn.  Nella “Metafisica nordica” oppone il “ricercatore nordico” al mondo magico del “negro del Congo”, e “gli uomini produttivi nordici” alla “interpretazione-esistenza del mondo del deserto mediorientale”. Benché apprezzato nel dopoguerra per la dirittura morale, il professor Becker non era molto esplicito. 
Inoltre, benché assistente a lungo di Heidegger, apprezza nello stesso saggio la tecnica, che il suo maestro aveva esecrato: “La tecnologia fondata sulla scienza naturale nrodica ha conquistato il mondo”. Ma anche Heidegger  in quegli anni la apprezzava (“l’aereo che ha portato Hitler all’incontro con Mussolini fa la storia”), tornerà a esecrarla dopo la guerra, in quanto yankee.

Parola - È immaginaria, poiché non si può pensare, e quindi parlare, che per immagini – metafore, analogie. Da Dio al gatto di casa.

Terrore – È modernamente autoindotto, prima che reale. Effetto della comunicazione impositiva, attraverso la massa che fa aggio sul giudizio. E dell’indagine preponderante sul giudizio analitico stesso. Una delle forme della guerra che non c’è – non sappiamo - di Baudrillard.
L’Is che certamente, come già i talebani, ha una sua realtà terroristica, la magnifica però, pochi anni dopo i bruti barbuti afghani, con tecniche molto Madison Avenue, anche se non proprio sofisticate. Opera di consulenti d’immagine e pubblicitari. La mano si vede dai suoi video. Una sfilata di pick-up, tutti della stessa marca e colore. Tutti puliti, come nei film di guerra (di propaganda) inglesi cinquanta-sessant’anni fa. Colori vivaci, rosso arancio dei condannati, nero lucido per i boia, bianco latte per gli inservienti, riconoscibili, e di tonalità studiata per non “sbattere”.nell’immagine. La guerra dell’Is appare mediatica.
È certo peraltro che società di consulenza sono pagate (dagli sceicchi?) per sceneggiare i video – non molto, la tecnica non è granché. Società di consulenza sono pagate (dai servizi americani e inglesi) per recuperare i video dispersi nel web e proporli all’analisi. Cioè ai media. Che non si fanno scrupolo d magnificarli, anche ripetitivamente. Come sempre, il vero nemico è interno.

Traduzione – L’intraducibile è incomprensibile, l’incomprensibile è falso – ambiguo, artefatto, volutamente errato, illusorio.
Non traducibile è il pensiero unico – singolare, innovativo (rivoluzionario, di scoperta: la scoperta si fa nel riconoscimento): è non significante. Perché è ipocrita, essendo affarismo?

zeulig@antiit.eu

La scuola dei genitori

Alzarsi presto, fare in fretta (quaderni, merende, calzini, magliette, scarponcini, zaini, colori, penne, cancellini), avere il pupo pronto per l’ora giusta, che sempre tende a scartare, e correre, si è sempre un minuto in ritardo. E invece, sorpresa, ora a scuola il bambino va volentieri, e anche i genitori. Anche d’inverno, quando fa freddo e piove, si ritrovano pigiati sotto la modesta tettoia dell’ingresso, anche prima dell’ora. Ben portanti, curati, sorridenti, distesi, pronti alla conversazione. Più spesso due genitori per ogni bambino invece che uno per tre o quattro, come usava per ridurre l’incomodo. Brillanti, in genere piacevoli. Che i bambini volentieri trascurano, facendosi risucchiare dalla scuola come da un automa.
La conversazione continua poi gaia, per i più al caffè, anche i giorni di pioggia. Non necessariamente sui bambini, anzi non sui bambini. Un po’ sulla scuola, ma si sa che la scuola pone sempre problemi. La scuola è un social forum, si direbbe, dei genitori. Il mondo cambia: sono la generazione dell’aperitivo. Ora anche del brunch. Che non serve per mangiare, cioè sì, anche per mangiare facendo finta di non mangiare, il bamboccione è disappetente, ma soprattutto per la conversazione.

La morale in poesia e in immagine

Un colportage anticipato, a ridosso della stampa (quasi) in serie. La diffusione era sempre ristretta, e non era propriamente popolare, anzi, gli emblemi di Alciato sono in latino. Ma inavvertitamente, per amore di novità, l’umanista ambrosiano operava per portare le arti liberali - la poesia, la filosofia pratica, la religione, la mitologia - alla portata del maggior numero, con illustrazioni e didascalie. L’opera ebbe 150 edizioni, qualcuna di più in poco più di un secolo, tra Cinque e Seicento. Con traduzioni in italiano, in francese, in spagnolo, in tedesco e in inglese.
Alciato, professore di diritto ma umanista a tutto campo, fu personaggio molto famoso in vita in tutta Europa. Insegnò per tre-quattro anni a Avignone, dove molti intellettuali europei si recarono ad ascoltarlo, insignito infine da Leone X del titolo di conte palatino. Fu poi avvocato a Milano, la sua città, tornò ad Avignone per un paio d’anni, poi insegnò a Bruges, e infine a Pavia – dove però stava malvolentieri, e per vari anni si assentò, per insegnare a Bologna e a Ferrara. Era una personalità molto nota tra gli umanisti europei, apprezzato dallo stesso Calvino, autore di una prefazione a un suo scritto pubblicato a Parigi nel 1530. Alciato era pubblicato ovunque, a Basilea, a Lione, a Parigi. E ad Augusta, dove nel 1531 furono stampati questi “Emblemata”.
Con gli “Emblemi” Alciato volle gareggiare con Erasmo, col quale era in corrispondenza, con i suoi “Adagia”, arricchendo le moralità, in brevi distici, in latino, di illustrazioni. Ma non aveva la vivacità di Erasmo, era un collezionista, di versi altrui. A Milano, mentre ancora studiava, collezionò due libri di epigrafie latine, “Monumentorum veterumque inscriptionum collectanea”. A Erasmo aveva anche fatto avere un trattatello antimonastico, “Contra vitam monasticam”, che poi volle indietro, per paura della reazione anti-Riforma (ilo scritto sarà pubblicato in Olanda a fine Seicento).
Si gareggiava nel Cinquecento, e ancora nel Seicento, in emblemi e blasoni. Genere non nuovo, usava già nel Medio Evo. Arricchito, dopo l’umanesimo, con la mitologia classica. La raccolta Alciato pubblicò nel 1531 in 104 emblemi, ognuno illustrato da una xilografia. Che nelle edizioni successive arricchì, fino ai 190 di quella veneziana del 1546 – una postuma, padovana, nel 1621, fu accresciuta a 212. Questa edizione riprende quelle del 1531 e del 1534. In forma di regalo, un’edizione fastosa e critica insieme, la stessa del 2009, curata da Mino Gabriele, lo studioso di iconografia e iconologia, in collana economica.
Mario Praz, che ne fu cultore, ha scritto diffusamente degli emblemi, cui più di tutto si appassionava, negli “Studi sul concettismo”. Il genere per eccellenza, lo dice, dell’“oraziano utile dulci, la base teoretica di tutta la letteratura fino ai giorni nostri”. Con fine pedagogico, morale – e come tale sarà fatto proprio anche dai gesuiti: gli emblemi sosterranno “la tecnica ignaziana di applicare i sensi per aiutare l’immaginazione a raffigurarsi in minuti dettagli il trasporto religioso, l’orrore del peccato e il tormento dell’inferno, le delizie di una vita pia”. Ma questo è già il fine di Alciato. “Esse rendevano accessibile a tutti il soprannaturale materializzandolo”, aggiunge Praz: “La fissità dell’immagine emblematica era infinitamente suggestiva”.
Andrea Alciato, Il libro degli emblemi, Adelphi, pp. LXXVI-745, ill., € 22
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mercoledì 4 marzo 2015

Letture - 206

letterautore

Bloomsbury – È l’eredità di Oscar Wilde, operosa e molto trasgressiva, ma senza scandalo. È un sodalizio di Cambridge, più tardi trasferito a Bloomsbury, a Londra vicino all’università. Di menti solide, Forster, Keynes, Moore. Radicate nella stagione fertile e anticonformista di Cambridge, tra Bertrand Russell, Whitehead, Lytton Strachey, e lo stesso Wittgenstein. E poi a Londra con la fertile e ramificata famiglia degli Stephen, Virginia (Stephen) Woolf e Vanessa (Stephen) Bell. Innovatore presunto delle lettere inglesi, col flusso di coscienza, la psicologia, e la sintassi, nonché la frivolezza esibita. Ma unito al fondo da un decadentismo affettato - da non-decadentismo. E più vero nel taciuto radicamento: che è Wilde, nelle giuste proporzioni, di allusioni senza scandalo. Per l’omosessualità e la licenza intellettuale. E soprattutto privato: di persone e personaggi più repressi, e autorepressi, che liberati.
Si vede alla scrittura. Le migliori (Forster, V.Woolf) sono inattuali, irrecuperabili – datate, deboli. Inerti, se non come divertimento. Tutto, sempre, artefatto, molto. Molto Inghilterra, molto di maniera, con la puzza al naso della non puzza al naso. Moderata e allusiva ma dura, come per l’omosessualità.

Esilio - È sempre una sofferenza, una privazione. La patria ha una sua consistenza, per quanto discutibile. Si vede dagli iraniani emigrati a Parigi, da due scrittrici in particolare, Abnusse Shalmani e Goli Tarachi. Che, benché onorate in Francia, dove hanno ricevuto notorietà e stima, Tarachi a settant’anni, tuttavia vi risiedono  disagio. Anche, anzi specialmente, quando sono oggetto di buona volontà, di disponibilità. È sempre l’afflizione di Ovidio confinato nel Mar Nero. Fatto rivivere da Vintila Horia nel 1960, un altro che alla Francia doveva quasi tutto (compreso il premio Goncourt, che poi lo stalinista Sartre lo costrinse a rifiutare), e Christoph Ransmayr una trentina d’anni dopo.
Diversa l’emigrazione. L’emigrato si integra volentieri. L’elenco è ormai lungo degli immigrati che dopo pochi anni sanno e vogliono esprimersi in italiano: Helga Schneider, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, Amara Lakhous, Younis Tawfik, Talye Selasi, Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, e numerosi altri scrittori, soprattutto del Nord Africa e dell’Est Europa, che hanno scelto, come già Edith Bruck,  l’italiano da immigrati recenti. Fino a Jumpha Lahiri, che da autore di successo in inglese negli Usa, ha scelto l’Italia e l’italiano, come spiega nell’emozionante “In altre parole”.

Furto – È il meccanismo principe del mercato dell’arte. Le copie non solo, ma il vero e proprio furto. Specie delle istituzioni museali, grandi ricettatori. Il British Museum ha 3.200 pezzi “di incerta provenienza”, scrive Fabio Cavalera in un agghiacciante reportage sul “Corriere della sera”. E 75 mila monete di “fonte inappropriata”. La storia della turpitudine, se non della criminalità, va riscritta.
Si rubava due volte in guerra: Hitler rubava, inglesi e americani compravano. Le istituzioni non i mercanti.

Germania – La prima controversia nazionale nel Novecento non fu quella famosa tra gli storici venticinque anni fa, nel 1986-7, sul nazismo, ma avvenne cinquant’anni prima , nel 1934, all’interno del regime nazista ma altrettanto furibonda, fra i partigiani della “razza tedesca” e quelli della “razza nordica”. Teorico della prima era Fritz Merkenschlager, biologo, membro del partito nazista e delle Sa, mentre la razza nordica, cui tenevano le SS, era teorizzata da Hans Günther. A Jünger e Carl Schmitt fu chiesto di schierarsi. Merkenschlager, per il quale essi tenevano, perdette la contesa. Fu arrestato e detenuto per tre anni, senza capi d’accusa né condanne – poi liberato per essere arruolato in guerra nella Wehrmacht.

“Metafisica nordica” è titolo nel 1938 di Oskar Becker, filosofo nazista. La teorizzò in forma di critica a “Essere e tempo”, l’opera capitale-rivelatrice dieci anni prima di Martin Heidegger, come non abbastanza fondatrice, di una, appunto, metafisica nordica. Heidegger non obiettò, limitandosi ad aggiungere che i tedeschi sono “un popolo metafisico”.
Becker oggi è dimenticato. Nella sua celebrazione di Gerhard Gentzen, “Il genio perduto della logica”, Eckhart Mentzler-Trott dice Becker en passant di “fisico estremamente delicato, natura quasi timida”. Fu apprezzato nel dopoguerra, professore confermato e poi emerito a Bonn, per aver ammesso di essere stato nazista. Ma era polemico, da quello che racconta poi Mentzler-Trott, non timido: dopo la notte dei Cristalli il 9 novembre del 1938, il pogrom di Stato antiebraico, protestò con la rivista di “Storia della matematica”, con la quale collaborava, perché aveva un redattore ebreo.
Becker è uno che si era laureato nel 1922 con Husserl, che poi sarà radiato dall’insegnamento in quanto ebreo, con la tesi “Esistenza matematica”. Poi assistente di Heidegger, uno dei discepoli mandati in cattedra da Husserl. Infine professore a Bonn.  Nella “Metafisica nordica” oppone il “ricercatore nordico” al mondo magico del “negro del Congo” e “gli uomini produttivi nordici” alla “interpretazione-esistenza del mondo del deserto mediorientale”. Benché apprezzato nel dopoguerra per la dirittura morale, il professor Becker non era molto esplicito.  
Inoltre, benché assistente a lungo di Heidegger, apprezza nello stesso saggio la tecnica che il suo maestro esecrava: “La tecnologia fondata sulla scienza naturale nordica ha conquistato il mondo”. Ma anche Heidegger in quegli anni apprezzava la tecnica (“l’aereo che ha portato Hitler all’incontro con Mussolini fa la storia”, la motorizzazione della Wehrmacht). Tornerà a esecrala dopo la guerra, in quanto yankee.

Joyce – Perché la chiave di “Finnegans Wake” non sarebbe Lucia? Lucia Joyce era psicotica, con James parlavano in una lingua chiusa a loro due. Lo dice Carson McCullers, che di mondi proibiti se n’intende. All’interramento di James Lucia dice: “Ora è sepolto nella terra, e sente tutto quello che si dice. Furbo, no?” Senza ombra d’incesto, è l’amore filiale, una forma di esclusione, e in questo caso un dolore, non un desiderio proibito.

Recensioni – Emmanuel Carrère firma il blurb per il nuovo libro di Marco Missiroli, e Missiroli fa un capolavoro su “Sette” del nuovo libro di Carrère su Gesù e la fede – non si capisce se acquistata o perduta, m questo è irrilevante. Unisce i due la Scuola Holden, è vero.

Talk-show – Usano le interviste agli scrittori sui libri appena pubblicati. Che fanno aumentare le vendite, ma sono spettacolo freddo. Si suppone che qualcuno abbia letto il libro di cui si parla. Se non il conduttore qualcuno per conto suo. Ma non è la stessa cosa. Il libro è stato protagonista in televisione solo con Bernard Pivot e “Apostrophes”, perché Pivot leggeva i libri di cui discorreva, tre e anche quattro a settimana, ne sapeva il senso, il contesto e le sottigliezze, e aveva letto i precedenti libri degli autori che invitava. Non succede lo stesso nei programmi di Rai Tre, di Fazio o Di Gregorio come prima di Augias, o della 7. L’autore famoso, Eco, etc., fa audience ma la trasmissione sarà sempre impacciata e fredda. Ci vuole anche una certa sensibilità: saper parlare di libri non è la stessa cosa che parlare di un film, per esempio, o di un evento sportivo.
Non è una novità. “Ciò che è di grande e disastrosa importanza è la provata incapacità di persone supposte istruite di leggere”, lamentava Dorothy Sayers, la giallista, in un lungo saggio del 1941, “The Mind of the Maker”. E continuava: “È risaputo fra gli insegnanti che una larga percentuale di bocciature deriva dal «non leggere la domanda»”. Per quanto il redattore-collaboratore che propone il libro e prepara la scheda sia stato esauriente e perspicace, il conduttore non può padroneggiare la materia. Peggio ancora: non sa ascoltare, o non può. Che in una conversazione è letale. Succede spesso da Fazio, come succedeva con Biagi, che l’intervistato sollevi parlando un tema o riveli un fatto sorprendente e il conduttore non se ne accorga. Deve calcolare la lunghezza della riposta, introdurre un’interiezione qualsiasi, conteggiare il minutaggio residuo, rimemorizzare la scaletta.
Ma, poi, non è la stessa cosa perché nessuno, nei talk-show televisivi, ha letto il libro di cui si parla.

letterautore@antiit.eu

Meglio Boccaccio di Petrarca

Una riscrittura che misura a contrariis la potenzialità narrativa del pastiche, pedante e non creativa. Fin dal titolo, raddoppiato, con la morale incorporata. Un’operazione doppiamente pedante, il volgare Petrarca nobilitando nel latino (di pedanteria tripla, per il latino inespressivo? La traduzione di Antonietta Bufano migliora molto…).
La riscrittura è della novella di Boccaccio che chiude il “Decameron”: le angherie inflitte dal marchese di Saluzzo per saggiare l’obbedienza della sposa. Che nell’originale conserva la sua immoralità, mentre Petrarca la vuole esemplare. Chaucer, che affermava di avere appreso la novella dallo stesso Petrarca a Padova, l’ha incorporata nei “Tales” con ben altra vivacità.
Petrarca, De insigni obedentia et fide uxoria, free online, con trad..

martedì 3 marzo 2015

Il mondo com'è (207)

astolfo

Antisemitismo – Si legava tra le due guerre in Europa alla rivoluzione. A un qualche complotto sovietico, comunista, per rovesciare l’ordinamento libero europeo. Non però in Germania, dove all’ebraismo si rimproverava il liberalismo, postrivoluzionario (dell’Ottantanove) e postnapoleonico, di cui si era avvantaggiato. Il liberalismo si riteneva non confacente alla Germania, alla tradizione e alla nazionalità. Questo  un tema ricorrente, molto esplicito, degli scrittori della “rivoluzione conservatrice”, compreso fino a un certo punto Thomas Mann, che si trascura.

È spesso anticristiano più che antisemita – al modo della “Volontà di potenza” e altre annotazioni di Nietzsche, che invece era anti-antisemita. In molto antisemitismo tedesco, per esempio, da Wagner e Schopenhauer a Heidegger. In Heidegger si vede nei “Contributi alla filosofia” e in altri volumi che, come i “Contributi”, ha voluto  postumi: la sua violenza è antigiudaica in quanto anticristiana. Il cristianesimo è condannato in quanto “orientale”, “mediorientale”, “giudeo”, ma sotto tiro è il cristianesimo.

Fascismo – Jünger lo fa liberale: “Il fascismo è senza dubbio solo una derivazione tardiva del liberalismo, un processo semplificato e abbreviato, una versione, diciamo così, stenografica  della costituzione statale liberale divenuta, per il gusto moderno, troppo ipocrita, verbosa, troppo pignola”. Per questo, anche, il fascismo era da rifiutare, da parte dei conservatori tedeschi: “Il fascismo non fa per la Germania, o tanto poco quanto le si addice il bolscevismo: entrambi attraggono, certo, ma senza essere soddisfacenti, ed è lecito sperare che il nostro Pese trovi una  propria e più rigorosa soluzione”.
Jünger ne parla nel breve saggio “Sul nazionalismo e sulla questione ebraica”, scritto nel 1930 per il numero di settembre dei “Süddeutsche Monatshefte”, uno speciale intitolato “La questione ebraica”, col contributo di alcuni intellettuali ebrei. Jünger vedeva “lo spazio liberale” come la peste: “Lo spazi liberale ricopre un’estensione molto più vasta di quanto generalmente si creda”. Allargandosi appunto al fascismo.

Grecia-Germania – S’immaginano Merkel e Schaüble sofferenti per i trucchi greci sul bilancio, che tanti lutti minacciarono alle banche tedesche fiduciose. Ma finalmente a loro agio ora che la Grecia si vuole combattiva. A lungo la Germania, da metà Settecento e fino a Thomas Mann e ai suoi filosofi del Novecento, si è identificata con i greci, intesi come popolo di guerrieri, per l’onore e per la lotta in sé: “agonali” li voleva il diffuso sentimento di grossi calibri del pensiero,  Schmitt, Jünger, Heidegger. Sull’autorità di Nietzsche (di questo, di più, in Giuseppe Leuzzi, “Gentile Germania”, in libreria e in ebook). Sull’autorità in realtà di Alfred Baeumle, cattedratico nazista, editore della raccolta “La volontà di potenza”.

Impero – Non fu greco, fu romano. Non fu – non è - tedesco, è stato ed angloamericano. Si fonda sull’unità d’intenti e di interessi – sull’interesse - e non sull’agonismo costante, contro tutto e contro tutti. I greci, che indulgevano al polemos, lo spirito battagliero, si facevano soprattutto le guerre tra di loro.
In questo senso è anche cristiano (cattolico) e islamico. In quanto unisce. La sua forza può anche essere l’irenismo: la chiesa ha anche praticato la guerra, e la guerra di tutti contro tutti, dei genovesi per esempio e dei crociati in genere contro i greci di Costantinopoli, anche loro buoni credenti, ma allora in perdita
Succede lo stesso ora al mondo islamico, tra sunniti e sciiti, e tra sunniti. La Germania avrà fallito tutti i tentativi, seppure determinati, organizzati, di farsi impero per avere privilegiato la bellicosità e la distruzione.

Mosca – È stata a lungo un luogo non luogo. Dove le cose avvenivano senza eco, e quindi non avvenivano. Dei comunisti italiani, per esempio, che vi si erano rifugiati, e sparivano senza una traccia – una voce, un biglietto, un’accusa  (“venivano a prenderli di notte”, questo solo si sapeva e si sa). Teatro di rivolgimenti, e anche di un colpo di Stato non molto tempo fa, nel 1991, ma afono. Capitale da quasi un quarto di secolo di un paese libero e liberista, affarista, avventurista anche, di cui poco o nulla si sa. Se non che le donne vivono ben diciotto anni più degli uomini, meno attaccate alla vodka. L’aspetto più drammatico dell’assassinio di Nemtsov, così teatrale, è che è caduto nel nulla.
Ha al centro la fortezza del cesaro-papismo, necessariamente lugubre, per quanto ben tenuta e intonacata in chiaro.  Vi conduce un’urbanistica ariosa, di strade che si ampliano man mano che s’avvicinano al centro e all’affollamento. Stazioni lunghe hanno i treni metropolitani, che si riempiono e si svuotano in pochi secondi - è straordinario come le folle scompaiono a Mosca - e incroci stradali con sottopassaggi per evitare i semafori. È stata, è, anche una città da romanzi: sarà avventurosa sotto il cipiglio, nel non detto e non visto.
Robert Byron ha visto a Mosca nel 1933 “una specie di Cinecittà, in cui i ruoli sono assegnati”, tra il Bene e il Male. Ma è stata semrpe la città del sospetto, prima ancora del sovietismo, e della guerra fredda. Era città di spie ai tempi di Lenin, e anche degli zar. Perché il paese di cui è capitale è segreto? O Mosca, come la Russia, sconta ancora il pregiudizio, un residuo di eurocentrismo?

RazzismoMolto “Mein Kampf” Hitler tirò fuori da “The passing of the Great Race”. Non di una corsa, automobilistica o podistica, ma della “razza grande”, nordica, dell’eugenista esimio Madison Grant, che fece le leggi per l’immigrazione negli Usa, a danno dei latini, gli slavi e gli asiatici neri, contro la misgenation e per la morte misericordiosa degli “imperfetti”.

Totalitarismo – È italiano. Il conio se ne fa risalire a Giovanni Amendola, che poi sarà promotore e protagonista dell’“Aventino”, l’abbandono del parlamento da parte dei deputati non fascisti dopo l’assassinio di Matteotti e prima delle leggi speciali, “leggi fascistissime”, nel corso del 1925, con la sospensione di fatto dello Statuto.
Nel 1923 Amendola disse il fascismo completamente diverso dalle forme note di dittatura, e con ambizioni totalitarie, di dominio sulla vita culturale e associata. In questo senso, con valenza positiva, fu subito dopo assunto da Giovanni Gentile. E da Carl Schmitt messo al centro del “Le categorie del ‘politico’”, 1927.  Jünger ha “La mobilitazione totale”, nel 1930.
Nel senso di Amendola, pur non citandolo, Hannah Arendt affronterà il fenomeno nell’immediato dopoguerra nel voluminoso “Le origini del totalitarismo”:  come una forma di potere politico nuova rispetto a quelle dittatoriali note, della tirannide, del dispotismo. Con alcune differenze, però, rispetto ad Amendola. Una aggiuntiva: il totalitarismo come movimento di massa, nella civiltà e la cultura di massa. E una limitativa: il totalitarismo come irruzione del nuovo e della tecnica, con la distruzione della tradizione. Che se si attagliava al sovietismo, era invece in contrasto col fascismo e il nazismo, che al contrario si radicavano nella tradizione, esclusiva, nel nazionalismo.

astolfo@antiit.eu

Quand on est con on est con

Una signora magiara a Santa Cecilia arguisce con le amiche che il maestro Orozco-Estrada non può dirigere Čajkovskij: “Queste sono musiche dell’Est, lui è sudamericano, che può saperne? È un’altra sensibilità”. Orozco-Estada fa l’andantino semplice del Concerto n.1 della giusta misura, come voleva Čajkovskij, non il lento di Barenboim né il sincopato di Toscanini.
Ma l’argomento non è nuovo. Imperiosa emerge l’eco della signora che cinquant’anni fa, poco meno, al Comunale di Firenze aveva anch’essa da ridire: “Ma è un indiano, come può capire la musica nostra?”, diceva. Riferendosi a Zubin Mehta al debutto.
Quand on est con on est con, cantava allora Brassens. Per questo immortale: non si può essere una cosa e un’altra.

Il giornale in ritirata

Si scorre come passeggiando allo zoo: in un mondo diverso e alieno, per quanto bene ci venga presentato, e malgrado la nostra domenicale, modesta, curiosità. L’avvio è fulminante, che invoglia il lettore: “Quando un paese si sviluppa e si rafforza, ha giornali e giornalisti che crescono insieme a lui. Quando il paese declina e s’indebolisce, anche la stampa perde energia e rischia di essere inutile”.  Lo svolgimento non c’è: il problema non è del tipo l’uovo o la gallina, ma Pansa non se ne cura. Ma si può prendere la sua come la storia (involontaria?) della (vera) reazione – un abbozzo di storia.
Si poteva, si potrebbe, scrivere molto di “Repubblica”, di cosa è stato e non è stato (il “Monde” italiano), di Scalfari, dei fondatori, che sempre sono scommettitori (Pansa non lo è), dei compagni di ventura come Pansa, e dei suoi “dirigenti”, come usò infine chiamarli, quando vennero dal Pci (certo, non dal Pci, da “Paese Sera” e dall’ “Unità”), di cui invece non si parla. Pansa ha scelto l’aneddotica, e le cose viste. Con un punto importante: che Berlinguer gli fece la famosa intervista alla vigilia delle elezioni del 1976, per dire che preferiva “l’ombrello Nato” a quello di Mosca, per opportunismo elettorale, candidandosi al governo. E molti compiacimenti personali.  
I giornali sono argomento che a Pansa piace, ci aveva già scritto due libri, “Il malloppo” e “L’intrigo”. Non si può fargliene una colpa: è stato grande giornalista, sempre nei migliori giornali,  “la Stampa”, “il Messaggero”, il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “Panorama”, “l’Espresso”, ne ha molti ricordi, e ce li racconta. Molto in soggettiva. Non c’è solo Berlinguer, acuto e opportunista. Pansa ridà l’onore a Angelo Rizzoli. E spessore a Spartaco Vannoni. Dice anche una parte dell’indicibile: il settarismo del Pci, che si applica a lungo e più volte anche nei confronti di “Repubblica”, e di Scalfari. Si poteva dire di più.
Dei personaggi evocati spesso manca l’essenziale. Dell’egotismo di Scalfari, uomo solo, anche tra gli amici di una vita – a partire forse dallo stesso Calvino, compagno di liceo. Della passione per il gioco di Caracciolo e Alessandro Perrone, protagonisti ancora nei primi anni 1970 delle tavolate di poker più azzardate di Roma. Della “passione” di Scalfari per De Mita, su cui Pansa si interroga, ma senza sfiorare il segreto – un trasporto del tutto incongruo col naturale dandysmo di Scalfari.
Insolute Pansa lascia le cause e le modalità, su cui torna spesso, della vendita di “Repubblica” a De Benedetti. Caracciolo e Scalfari l’hanno fatto per arricchirsi? No, “non esiste”. Caracciolo e De Benedetti lo lasciano intendere nei loro libri-intervista, ma senza dire come,  mentre Scalfari ha taciuto. I venditori sono stati pagati in realtà con una “scatola vuota”, la Cartiera d’Ascoli,  titoli di una società inesistente. E non si chiarisce se la cessione non fu invece dovuta, l’esito della cambiale da tre miliardi sottoscritta dai “Gemelli” nel 1978, quando non avevano i soldi per la ricapitalizzazione di “Repubblica”, a De Benedetti che glieli prestava.
Insolute Pansa lascia le cause e le modalità, su cui torna spesso, del passaggio di “Repubblica” a De Benedetti. Caracciolo e Scalfari l’hanno fatto per arricchirsi? No, “non esiste”. Caracciolo e De Benedetti lo lasciano intendere nei loro libri-intervista, ma senza dire come,  mentre Scalfari ha taciuto. I venditori sono stati pagati in realtà con una “scatola vuota”, la Cartiera d’Ascoli,  titoli di una società inesistente. E non si chiarisce se la cessione non fu invece l’esito della cambiale da tre miliardi sottoscritta dai “Gemelli” nel 1978, quando non avevano i soldi per la ricapitalizzazione di “Repubblica” e De Benedetti glieli prestò.
Scalfari si avvicinò a De Mita quando De Mita divenne il segretario della Dc. E in quanto tale il dominus degli enti pubblici, comprese le banche. Da De Mita Scalfari si aspettava molto (probabilmente la liberazione dal nodo De Benedetti), attraverso i suoi banchieri e finanzieri: Tanzi, Ventriglia al Banco Napoli e canddiato alla Banca d’Italia, Geronzi al Banco di Roma, e altri minori, avrebbero dovuto districare i “Gemelli” dall’abbraccio di De Benedetti. Un segreto che non è segreto, per chi avesse lavorato in quegli anni alla redazione Economia di “Repubblica”, e doveva sostenere come miglior “tecnico” nelle nomine di vertice sempre il banchiere di De Mita, nella triade di candidati che l’ineffabile Guido Carli sornione proponeva – il banchiere che non era Dc poteva fare il vice-presidente.
Ma il senso è quello, soprattutto leggendo il libro “a babbo morto”, a un anno dall’uscita: malinconico. Di un che di remoto, seppure prossimo, per la lontananza del giornalismo, e quindi dei suoi protagonisti, come trincerati a beccarsi dietro una cortina di disattenzione  - di cui sembrano ignari – calata all’improvviso. Come di vecchie belle donne che si atteggiassero a sciantose. Il lettore ala fine si chiede perché leggere di giornalismo e giornalisti. Un mondo oscuro più che libero, e liberatore. Tanto più se non compra (più) il giornale. Pansa è un dei migliori giornalisti: il giornalismo è al meglio autoreferente, un orto chiuso? Molti dei personaggi di questo libro li incontriamo ogni giorno in tv, e ci chiediamo il perché.
La “storia” Di Pansa non è irriverente, e il potere di “Repubblica” non è invisibile, come il sottotitolo suggerisce – è stato visibile e ora è inesistente. Del “Gruppone” reggono i giornali locali. Un’idea che Caracciolo ereditò dall’Eni, da Franco Bristico, direttore  per la comunicazione dell’Eni, quando nel 1974 cercò un sostegno finanziario per “l’Espresso” – lo ottenne tramite l’Anic, la capogruppo chimica dell’ente petrolifero.
Giampaolo Pansa, la Repubblica di Barbapapà, Rizzoli remainders, pp. 303, ril. € 6,65 

lunedì 2 marzo 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (237)

Giuseppe Leuzzi

E.M.Forster, italofilo,che visse la sua migliore vita in Italia e più al Sud, ha “l’eterna avidità del Sud”, nel racconto di Ravello, “La storia di un panico”.

Molti segni di croce all’entrata in campo del Borussia Dortmund a Torino contro la Juventus. Dei giocatori tedeschi, ripetuti, con variazioni personalizzate. Nessuno della squadra italiana. Ci prendono anche la superstizione?

Il Bue Sky M, mercantile moldavo con 800 clandestini a bordo, è abbandonato in tempesta al largo del Salento, dagli scafisti in fuga, velocità nove nodi, rotta di collisione con la costa, collisione prevista in venti minuti. Il sottotenente di vascello Antonello Papa e quattro sottufficiali della Guardia costiera si offrono di farsi trasbordare sul ponte del mercantile da un elicottero, operazione doppiamente rischiosa, per il vento e le onde, sia per l’elicottero nello stallo sia per gli sganciamenti dei soccorritori sul ponte. L’operazione riesce, la nave, governata, entra in porto con minimi disagi.
Una storia da film. Ma non ne sapevamo nulla, o quasi. Giusto che un elicottero della Marina aveva calato sulla nave moldava un equipaggio pilota, un’operazione di routine.
Fava è di Taranto. E il fatto è successo a Gallipoli. La storia è stata ricostruita e raccontata dal “Financial Times”, il giornale finanziario di Londra.

Che ci fa un avvocato calabrese a Milano?
Dopo gli imprenditori gli avvocati? La caccia al meridionale continua implacabile a Milano. Liquidati i grandi imprenditori siciliani, perfino Cuccia, Milano è passata alla caccia dei pesci piccoli ‘ndranghetisti, manovali del crimine, anche semplici manovali. Passa ora ai professionisti incensurati?
Il Csm appena insediato per prima cosa ha allontanato da Milano il giudice milanese Robledo. Perché, per quale colpa? Per avere parlato con un avvocato. Tutti i giudici parlano con gli avvocati – altrimenti gli avvocati che ci starebbero a fare? Ma quello di Robledo è uno pericoloso: è calabrese. Per quale altro motivo sarebbe stata ascoltata la conversazione tra i due?
È vero. L’avvocato Aiello opera da sempre a Milano (è avvocato dela Lega…). Ma veniva inquisito dalla procura di Reggio Calabria in quanto “calabrese a Milano” – intercettato, pedinato.  La quale ha scoperto che una volta ha parlato al telefono col giudice Robledo. La Procura di Reggio non ha trovato nulla contro l’avvocato Aiello, e allora ha ripiegato su questa telefonata. Con successo, come si vede: poi si dice che la ‘ndrangheta non viene perseguita a Reggio Calabria.
Sempre Napoli è implacabile con la Calabria. I giudici che indagano (intercettano, pedinano, fotografano) l’avvocato Aiello sono Cafiero de Raho a Reggio Calabria, e la sua corrispondente Ilda Boccassini a Milano, due napoletani felici di esserlo.
I giudici del Csm devono essere anche loro napoletani. Come quelli di Milano. I giudici napoletani si distinguono per essere implacabili, anche quando commettono reati, acclarati. Come il giudice Esposito junior alla Procura di Milano. O lo stesso capo della Procura Bruti Liberati, che “si dimenticò” provvidenzialmente un dossier d’accusa – provvidenzialmente per l’accusato. O Francesco Greco, ottimo elegante velista, famoso per avere sempre ripulito, spesso senza nemmeno una simulazione di indagine, reati accertati della Milano bene - della Rizzoli Corriere della sera, della Pirelli-Telecom, della Saras.

Autobio
“Fuori” è stato il mio mondo. Fuori in campagna. Nei campi che entrano in paese. Sula strada e nelle piazze. E anche in collegio, le ore fuori solo hanno contato. In compagnia sempre, di corsa o al passo o in lunghi conversari, di amicizia e rivalità, l’unico pensiero, costante, tutto il giorno, tutti i giorni. Del cibo nessun ricordo, delle lunghe sedute obbligate a tavola alle ore canoniche, se non di silenzi, e di attese nervose del fuori.
Che non è fuori ma dentro. Una presenza costante, continua, di campi distesi, valloni e dirupi, ogni centimetro di terra fertile essendo una coltivazione, ripulita, curata, ricostruita, ogni giorno, a ogni ora del giorno. Da presenze magari mute ma vigili. Dove oggi si fatica a farsi strada, anche in piano, tra le felci invasive e la a sterpaglia, nella trascuratezza e forse l’abbandono. Che potrebbe essere un buon segno, l’abbandono degli stenti per l’abbondanza, del bisogno per l’agiatezza, della fatica per il tempo libero. Se non che timore e tristezza si registrano a ogni incontro o colloquio, e sfiducia, abbandono. Più spesso di figli che vivono della pensione del padre, sociale o d’invalidità, modesta, modestissima. E coltivano il risentimento. La città sempre mettendo al centro, miraggio di amici e parenti, come se fosse un frutto tutto polpa. Vissuta (immaginata, vista) in periferia. Di necessità, per risparmio. E per bisogno di spazio. Di luoghi aperti. Informi.. Che si popolano della propria sostanza, della vita grumosa di paese, vischiosa, intensa. E regolare, regolata. Nei rumori, i soffi, gli ansiti. Nei gesti, le smorfie, gli accenni, lampi a volte degli occhi fissi, le andature ritrose.
Perché il centro – la città è già occupato e denso. Intangibile peraltro, di una sua densità inattingibile. Ci vogliono generazioni per fare farsi un varco. Che è sempre missione e non conquista: un riconoscimento, sia pure generoso e bonario. Un mondo che converrebbe vivere come spettatori e godere e non si può, l’ansia dell’emigrato è di penetrare. Si poteva essere turisti, sia pure colti, sia pure residenziali, potendo vivere di rendita, ma non si può, bisogna entrare nella città, che ha carni però molli e inerti. È un altro fuori, e quasi una condanna.

“Delianova paese del West” è immortalato da Giorgio Bocca su “L’Europeo” già l’11 settembre 1955. Per una serie di delitti, culminati nell’assassinio del maresciallo dei Carabinieri Sanginiti. Originati da una vicenda di gelosia, o storia d’amore tradita.

“Cappello chiama cappello”, soleva dire l’avvocato Rossi dall’altro del balcone dove aspettava fumando il pranzo, la mattina della domenica, quando nella piazza sottostante le persone si raggruppavano in conversazione all’uscita dalla messa. Fatalmente per ceto, una gerarchia formandosi d’istinto per gruppi omogenei, per abbigliamento, età, funzione: i cappelli coi cappelli, i berretti coi berretti, e le teste scoperte con le teste scoperte.
Un modo di dire probabilmente di Napoli, dove l’avvocato aveva fatto i suoi studi. In teoria, poiché molti galantuomini tornavano dagli studi in città  dandosi titoli che non avevano per non deludere le famiglie. I fratelli soprattutto, che non avevano beneficiato degli “studi”, degli anni giovanili spesati in città.

 “Era appena ieri”, un mondo d’improvviso remoto ripropongono le vecchie foto di Biagio Germanò, che per mezzo secolo percorse la contrada, nell’archivio sapientemente ricostruito dalla figlia a Scido, come se fossero istantanee. Vive nell’attimo, repentinamente: in una smorfia, un ghigno, un sorriso, un taglio di luce, uno sguardo rubato. Foto perlopiù di maniera, scolaresche, prime comunioni, matrimoni, processioni. Di un  fotografo che non era già più l’artifex, l’artista in lavallière, con baffoni e spesso anche la barba grave, che si vede scomparire nei vecchi filmati in un mondo suo, dentro un panno nero, dove ci cattura con arti stregonesche. Correggendo poi e fissando l’immagine a modo suo - anche se non senza certi criteri, anzi secondo certi canoni, ripetitivi. .
O non sarà la memoria, il riconoscimento, a catturare l’istante, a ridargli vita? No, Biagio è svelto, una volta organizzata la posa, e lascia l’evento alla celebrazione, alla persona, alla luce del momento, al caso. Una modestia fruttuosa, ora ricompensata dall’attenzione. Ritratti perlopiù, ma anche scene d’insieme, nelle quali si dilettava e eccelleva, universi sempre “colti nel segno”: individualizzati, unicizzati, diversi, espressivi. Di sé, di un contesto, di un’epoca. Di certi valori che lievitano ora come una scoperta. Le persone che si fanno ritrarre sono in posa, nel’occasione sempre di una cerimonia. E le pose non sono variate: c’è quella della comunione, col comunicando sull’inginocchiatoio, del battesimo, con i padrini a ventaglio attorno all’infante, del compleanno, del ritratto da mandare agli amanti e ai parenti lontani, del fidanzamento, del matrimonio. E le cerimonie: il corteo di matrimonio, qualche volta quello funebre, la processione, e la coppia, prima o dopo il matrimonio, lui in piedi accanto alla donna seduta, la mano sulla spalla.
Oggi il tratto e la scena si vogliono espressivi più che centrati o concentrati. Si andava dal fotografo risoluti, nota Joseph Roth in uno dei suoi elzeviri,”Vecchie e nuove fotografie”, mentre oggi si preferisce la “posa disinvolta”, come se fosse “catturata” involontariamente. Resterà la memoria della cancellazione della memoria?

There is no sense of ease like the ease we felt in those scenes where we were borne, where objects became dear to us before we had known the labour of choice, and where the outer world seemed only an extension of our personality”. È solo il “Mulino sulla Floss”, romanzo delle sorelle (peraltro molto amato), ma giusto per mettere le mani avanti –“quando il mondo ci sembrava una proiezione della nostra personalità”. Avviene con la letteratura del buon ricordo.
Da quando bambino leggeva il giornale inventandoselo agli analfabeti di casa, “da allora niente mi ha divertito di più che spiegare agli altri ciò che io stesso non comprendo”, scriveva Indro Montanelli ai trent’anni. “È un piacere, che non mi ha più abbandonato”. È detto con la cifra più sopportabile di Montanelli, l’ironia, seppure sempre in selfie. Ma fa giustizia della letteratura del ricordo. E più dei ricordi della prima età, della famiglia, del paese, sempre favolosi. È sempre l’età dell’oro. Ma si tende a cancellare più le sofferenze, oppure le gioie? Dipende dall’umore.

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