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sabato 21 marzo 2015

Letture - 208

letterautore

Autofiction - Lunga ondata di autonarrazioni all’insegna dell’irrilevante: l’osannato Missiroli della sua educazione sentimentale, l’altrettanto osannato Carrère della sua conversione religiosa, “Il Regno”, e Francesco Piccolo, con i “Momenti di trascurabile infelicità”, a ruota dei “Momenti di trascurabile felicità”, dopo l’apprendistato politico di “Il desiderio di essere come tutti”, e la riproposta di “Storie di primogeniti e figli unici”, con una nuova presentazione autofittiva  - il racconto dell’autore che non è ancora autore sarà il suo migliore, “l’espressione più sincera e incantata del suo talento”. Al suo modo garbato, accattivante, m sempre irrilevante.
Era una tecnica di scuola, ora è una sfida. “Il Regno” si fa forte di “tre anni di esperienza religiosa” per convitarci a storielle le storie della moglie, la madrina e alcuni degli amici di Carrère, un buddista, uno psicoanalista, una baby-sitter, nonché delle sue letture, con una scorribanda storica sui vecchi e i nuovi testamenti che secondo l’editore ricorda “Brian di Nazareth dei Monty Python”. Ma: a proposito di moglie, è ancora la stessa? E la madre famosa, a quando?
Non più una produzione applicata, da artigiani coscienziosi - ammesso che “Il giovane Holden” o “Franny e Zooey” di scuola fossero autofiction - ma un’irrisione: vi buttiamo in faccia il nostro niente.

Si fanno anche letture in pubblico di diari, informa Elena Stancanelli su “Repubblica”. Non diari pubblici, quali sono i blog come questo, ma privati, privatissimi. Anzi, proprio i diari dell’adolescenza, dei turbamenti. Non più rivissuti, come i racconti di formazione, il genere che Goethe ha impostato felicemente col “Werther”. Si vogliono testimonianze dirette, di giovani al macello. Mgari cresciuti, ma che si espongano con le viscere e le ossa. Il festival dei diari in pubblico si chiama My Teenage Anst. Un’esperienza ormai quadriennale che Elena Stancaneli sintetizza così: “L'adolescenza, come ogni tsunami ormonale, non fornisce nessuna spiegazione di se stessa e tantomeno indicazioni utili a qualcosa. Va solo superata e dimenticata come, sul lato opposto, la menopausa o andropausa che sia. La chiave di questo nuovo rito collettivo non è la conoscenza ma la vergogna. Brutalizzare la nostra dignità è una delle poche esperienze cognitive che conosciamo. Non solo siamo capaci di gesti imbarazzanti, ma li rivendichiamo. Ogni esemplarità è aborrita, e la figuraccia è diventata il nostro blasone. Secondo Zadie Smith una delle rivoluzioni dei nostri anni è la retrocessione della filosofia a una branca della linguistica. Che però porta con sé una contraddizione: «Come si fa a esistere nel mondo – scrive in «Cambiare idea» (minimum fax) – quando il mondo si è ridotto a linguaggio?». Profanandolo, probabilmente, ritrasformandolo in mondo, in corpo, attraverso l'umiliazione, trascinandolo nel fango. Leggendo ad alta voce, da adulti, di quando sei stato espulso perché attaccavi le caccole sotto il banco”. Un auto-macello.

Chiacchiera – È la forma preferita di socializzazione, a distanza. E la socializzazione è oggi dominante, in aspetto lieve e casuale, anche se l’epoca di crisi comporterebbe in principio pensieri gravi. Il 35 per cento del tempo speso in internet in Italia va su Facebook e i collegati What’s app e Instagram. Per un tempo totale di collegamento sulle reti social, soprattutto dai cellulari, di 77 miliardi di minuti l’anno, ritenuto elevato. In effetti lo è: 1.238 minuti per ogni italiano, 2.600 per ognuno dei trenta milioni, 28,9 milioni per l’esattezza, di “utenti italiani maggiorenni online, sia attraverso computer che attraverso dispositivi mobili”, monitorati da Audiweb total digital audience.
Il tempo aumenta notevolmente, benché non quantificato, scendendo sotto i diciotto anni, essendo la messaggistica What’s app la preferita dagli adolescenti.

Imitazione – È il procedimento creativo per Aristotele, dell’artista. Deludente, ma non senza ragione. Aristotele ne porta due. Si riconosce nell’“esattezza” dell’imitazione l’artista dotato da quello invasato. Si accetta nell’imitazione estetica, e anzi si apprezza, anche ciò che ripugna: “Ciò che ci procura disgusto alla vista possiamo invece guardarlo con piacere nelle immagini, quanto più siano rese con esattezza. Ad esempio la conformazione degli animali più ripugnanti e dei cadaveri”.

Fernanda Pivano – C’è un “pivanese”, la lingua di Fernanda Pivano, avallata da Cesare Pavese, che s’interpone a molta letteratura americana. A partire da “Addio alle armi”, il “Guerra e pace” di Hemingway, considerato, posato, filosofico, monumentale, volto sveltamente da Pivano – che per questa traduzione, peraltro, proibita dal fascismo e trovata dattiloscritta in una perquisizione alla Einaudi nel 1943, fu fermata dalla polizia fascista (fu fermata per “Addio alle armi” oppure, in un’altra versione per “Spoon River”, e interrogata da due ufficiali tedeschi, o tre…). Quasi in gergo, per ammiccamenti, come per uno scherzo tra amici. Come poi Kerouac e i beat – qui con qualche fondamento. Ma la pietra fondante è Edgar Lee Masters: la sua “Antologia di Spoon River” è un’altra in “pivanese” – versione poi non più ristampata.

Fine – È la parola chiave: ce n’è voglia. Più che la crisi, la parola dell’epoca è la fine. Anche all’interno dell’esperienza più “rivoluzionaria”, quella islamica. Dice bene Marina Terragni su “Io Donna” (dove ora si fregia di “membro della direzione nazionale Pd”): “Al netto della sua spettacolare autorappresentazione mediatica , occidentali, cristiani ed ebrei sacrificati come agnelli davanti all’obiettivo, il fenomeno Isis è prevalentemente un Muslims killing Muslims”. L’Occidente, o quello che è da qualche tempo, si è crogiolato a lungo con la fine della Storia. Poi con lo scontro di civiltà, intimamente dato perdente poiché senza voglia di combatterlo. Infine con l’ombelico, o i viaggi introno alla camera: autofiction minuta, banale. Da struzzo che non vuole vedere ma vuole essere veduto, poiché esibisce il posteriore grande.
Uno pensa (s’illude) sempre che la fine sia quella degli altri.

Primitivismo – La mostra di Matisse a Roma è montata con un percorso affascinante: a fronte di alcuni suoi dipinti vengono esposti i reperti delle arti cosiddette primitive che li ispirarono. Statuette, tessuti, decorazioni, manufatti di uso comune,  dell’Africa nera e del Nord Africa. Da Matisse specialmente apprezzati per le forme, e per i colori, specie i bianchi e i neri, per lui e per gli artisti europei una scoperta. E gli arabeschi turchi e islamici che tanto lo impressionarono della grande mostra (3.500 pezzi) a Monaco di Baviera nel 1911 – che presentava anche manufatti dell’Estremo Oriente non mussulmano, Cina e Giappone, egualmente ispiratori. L’accostamento produce un effetto bizzarro: la pittura – il colorismo – di Matisse sembra povero, come materiali e come resa, e anzi primitivo, a fronte dei manufatti ispiratori, anche pratici, di grande raffinatezza. La mostra allinea alcuni dei capolavori ammirati di Matisse, ottenuti in prestito da Mosca a New York, e tuttavia l’impressione è quasi di dilettantismo. Gioioso, giocoso, Matisse al cento per cento, ma al confronto quasi infantile, e non come poetica.  
È solo l’effetto della promozione dell’arte primitiva alla esposizione in ambiente raffinato – le Scuderie del Quirinale lo sono, questa mostra in modo particolare? Ma è dubbio che Matisse acquisterebbe in ipotetiche Scuderie del Quirinale africane, in un ambiente espositivo museale africano altrettanto curato. No, la differenza è d’impianto, artigianale e estetica.

Romanzo – “Non c’è più”, argomenta Scalfari (“L’amore, la sfida, il destino”) “perché non c’è niente di corale da raccontare e il romanzo è una forma corale di racconto”. Non c’è più è un dato di fatto. Ma non che non ci sia niente di corale da raccontare. Al contrario, oggi ne saremmo pieni, ma non si vuole che si racconti. Si dice: il mercato non gradisce. Ma il mercato non gradisce perché lo si indirizza altrove – il mercato è marcato, a vista, segnato, seguito, in ogni minima piega.

letterautore@antiit.eu

La cattiveria dei dormienti

Frustrazione o fanatismo? Entrambe le cose, il mondo arabo non è nuovo a esplosioni di collera. Sopratutto di tipo terroristico, dagli “assassini” del Duecento ai pirati di ancora un secolo fa. Ma fin qui siamo – eravamo – a Al Qaeda. Ora siamo a una lotta feroce all’interno del mondo arabo.
Il sottotitolo di Molinari è “Perché il Califfato minaccia l’Occidente”, ma questo è solo in parte vero – lo steso Molinari lo spiega. Baghdadi minaccia Roma e le capitali europee – fa minacciare da conversi europei specialisti di internet – come copertura e falso scopo della lotta fratricida, di sette o confessioni contrapposte. Più precisamente delle varie confessioni sunnite contro gli sciiti.
Un libro che spiega molte cose, Molinari conosce bene la storia – uno dei pochi, mai tanta ignoranza su un mondo pure così vicino. Con due integrazioni necessarie. Una è delle geopolitica terremotata dal petrolio. I paesi mediorientali urbani, alfabetizzati, con istituzioni moderne, Iraq, Siria (con Libano annesso) e Egitto, che facevano l’opinione e la vita politica della regione, sono stati sostituiti dai principati della penisola arabica, tribali e sanfedisti. Che si sono imposti con i petrodollari, e il fondamentalismo da esportazione. Staterelli tribali e polverosi appena quarant’anni, e tuttora arretrati, feudali, dietro la patina affaristica dei grattacieli e i fondi sovrani. E tuttavia immuni al radicalismo. La prima scuola femminile si apriva in Arabia Saudita nel 1973: due classi con insegnanti ciechi. E il re che osò la novità, Feisal, fu ucciso da un familiare. Nei secondi anni 1970 non c’erano nemmeno porti nella penisola arabica per accogliere le navi che trasportavano le merci comprate in massa col petrolio a prezzi triplicati nel 1973: la rendita si consumava in stallie e controstallie. Iraq e Siria ne sono stati disintegrati. In Egitto ci hanno provato, ma il generale Sisi, per ora, li ha respinti.
La guerra è all’Iran, e all’islam urbano
Altra integrazione necessaria è che questo “mondo arabo” è in guerra non dichiarata con l’Iran. Che è l’unica potenza mediorientale non controllata. Il settarismo anti-sciita è vecchio, ma nella forma cruenta di questi anni è nuovo, è nuovissimo. Ed è una guerra all’Iran.
L’Occidente c’entra di sbieco. E più per la mancata integrazione dei suoi immigrati mussulmani. Con o senza colpa? Probabilmente senza, a meno di non dire una colpa l’integrazione senza se e senza ma dei mussulmani là dove sono presenti in grandi numeri, in Francia, Gran Bretagna e Germania. L’integrazione da sola non basta, è evidente. L’avversione più forte contro il modo di essere europeo è di immigrati di seconda e terza generazione, e proprio nei paesi che li hanno meglio integrati. Senza restrizioni mentali se non marginali, e con piena libertà culturale. Anche di professare l’avversione all’Occidente. Molinari riporta i sondaggi inequivocabili che si finge di ignorare. In Gran Bretagna un giovane su sette – uno su dieci a Londra, uno su dodici in Scozia.- prova “attaccamento emotivo per l’Is”. Cioè tutti i giovani mussulmani. Peggio in Francia: il 27 per cento dei cittadini tra i 18 e i 24 anni ha “un’opinione positiva dell’Is”. Un’opinione condivisa da tutte le fasce d’età, il 16 per cento del campione intervistato.
La vecchia diplomazia seguiva  la cautela yemenita, delle vecchie tribù pastorali: diffidare dell’estraneo dormiente, svegliarlo prima con un sasso. Una procedura che il generale Sisi ha applicato a Derna, in Libia vicino alla frontiera con lEgitto: quando lIs ha vantato il controllo dela città, il generale lo ha sloggiato in pochi minuti. La nuova pedagogia dei diritti civili ha abolito i sassi, ma non la cattiveria dei dormienti. La vecchia diplomazia partiva anche dal presupposto che non tutti sono amici, anzi che tutti sono nemici fino a prova contraria. Lideologia europea vuole il contrario, ma non si vede su che basi. La diplomazia, beninteso, mirava a salvaguardare il bene comune, della nazione. Mentre l’ideologia dei diritti civili non sa esattamente cosa si propone. Che siamo tutti uguali? Come può essere, una legge ci vuole.
Il petrolio, certo, siamo dipendenti. Ma avendoci lavorato, conoscendo quel mercato da di dentro, una cosa resta certa: se l’Europa ha bisogno degli arabi, gli arabi hanno estremo bisogno dell’Europa. Se l’Europa, per ipotesi, decidesse di fare un mese senza automobili, il mondo arabo imploderebbe. Non avrebbe forza nemmeno più per i kamikaze nelle moschee. Già trema col petrolio a 50 dollari invece che a 100, che è sempre sopravvalutato del tre-quattrocento per cento.
Maurizio Molinari, Il Califfato del terrore, Rizzoli, pp. 157 € 17

venerdì 20 marzo 2015

Ombre - 260

Di Girolamo e Lupi, non indagati, si dimettono da ministri. Bastano le chiacchiere dei carabinieri. Quattro sottosegretari, indagati, non si dimettono, e un quinto, condannato e perciò dimesso, è candidato a presiedere la Campania. C’è differenza? Sì, i due sono ex berlusconiani, i cinque sono democrat: l’opinione è divisa.


È vero che Di Girolamo è sposata con un democrat. Ma non faranno due pesi e due misure anche a casa? 

Perché la Roma gioca male? Perché l’allenatore Garcia ha una storia d’amore. Peggio: ce l’ha con una giornalista. Non è inventata:

Sono arrivati due giudici siciliani a capo della Procura di Roma e subito è arrivata la mafia. Anzi, 68 mafie, di calabresi, siciliani, napoletani e pugliesi. Sarà un caso?

Il sindaco Marino che si sbraccia per “celebrare” il Giubileo: vuole fare il diavolo e l’acqua santa insieme. Diavolo di un sindaco!

Si leggono i giornali, si guardano le tv, e trabordano di Matteo Salvini, il capo della Lega. Uno, dicono, che non fa che vincere. Cosa? Cos’ha vinto Salvini?
Ora fa di tutto per perdere l’unica regione che ancora si poteva pensare leghista, il Veneto.

Muti ha spazio infine sul “Mattino”, dopo il lungo esilio in patria, per un intervista. Il “Corriere della sera” rifà le bucce al’intervista con ben due grossi calibri, Isotta e Cappelli. L’odio di Milano è inestinguibile?

Allarme della “Frankfurter Allgemeine Zeitung”: la Grecia ha le casse vuote, stipendi bloccati. Della “Faz”, il “Corriere della sera” della Germania, il paese che impedisce al governo Tsipras di finanziarsi. Furbo, no?

Gli stipendi greci non sono a rischio, ma lo spread sul debito greco – gli interessi che Tsipras deve pagare - è balzato ancora. Poi, alla “Faz” e altrove, quando si farà la Norimberga di questa crisi, diranno che loro non c’erano. E se c’erano non sapevano.

La colpa della Grecia? È che il ministro Varufakis, marxista e tutto, ha sposato un’artista fantasiosa, bella, e ricca. Anzi, le colpe sono due: i due si sono sposati in seconde nozze. L’opinione pubblica non perdona.

Da un improbabile corrispondente “Ardengo Alebardi” Sergio Romano si fa spiegare nella sua rubrica al “Corriere della sera” che la Salerno-Reggio Calabria è meglio abbandonarla o chiuderla. Senza cattiveria, è da qualche tempo che l’ambasciatore è per il tanto peggio tanto meglio: “Finis Italiae”, “Morire di democrazia”, “Il declino dell’impero americano” sono le sue ultime fatiche.
Milano infetta, paese malato?
   
Orgia di santini per Ilda Boccassini dopo le bocciature al processo Ruby. Senza dire mai che fu allontanata dalle procure di Palermo e Caltanissetta come indesiderata. E che a Milano trovò comodo autospecializzarsi contro Berlusconi. Con una serie di processi finiti nel nulla – l’unico andato a buon fine è di De Pasquale.
Una buona sbirra, forse, ma giudice?

Boccassini è anche quella che scagionò Pacini Battaglia, il regolatore della grandi tangenti del settore pubblico, bloccando l’inchiesta toscana con un blitz in tandem con Francesco Greco. Di quale loggia?

Di tutte le emergenze giudiziarie il commissario alla Corruzione, il giudice Cantore, ritiene necessaria subito la modifica della legge Severino sull’abuso d’ufficio. Per “liberare” le candidature di De Luca alla Regione Campania e di De Magistris a Napoli. Solidarietà etnica? Obbedienza di partito?
Non lo faranno santo subito, ma ministro sì.

Due pagine del “Corriere della sera” domenica per Emmanuel Carrère, per dire che ha fatto due ore d’intervista con Catherine Deneuve e non si sono detti nulla. Nient’altro. Uno si stropiccia ancora gli occhi:
Dice: ma c’è da lanciare il nuovo romanzo di Carrère, edito da Adelphi, cioè da Rcs, l’editrice del “Corriere”. Ma così chi se lo compra?

Non è che il papa chiama il giubileo straordinario a Roma per aprire le porte della città eterna all’Is? Le vie del Maligno sono infinite.

L’immagine è verità

Immagini di immagini. Filostrato, chiunque egli sia, illustra 64 pitture che adornavano il portico di una villa a Napoli che forse non esistevano – né la villa né le pitture. Un modo come un altro per riraccontare il mito, i soggetti delle pitture, di cui l’epoca era evidentemente sempre golosa – l’epoca è certa, il II secolo a.C. Un esercizio di ekfrasis, descrizione di manufatti artistici, ma più di narrazione: per una volta le solite storie di dei ed eroi sono ben raccontate. Con un’avvertenza, alla prima riga del prologo: “Chi non ama la pittura disprezza la verità stesa”. L’immagine è verità. Specchio della realtà: Narciso, Medusa, l’ekfrasis stessa. Certo, altrettanto enigmatica.
Le descrizioni di opere d’arte non erano una novità, Luciano vi si era esercitato, e Longo Sofista – il genere sarà codificato successivamente, da Erogene, Quintiliano e i grammatici bizantini. Da questa pretesa di verità è soprattutto attratto l’editore, Andrea L. Carbone, per riproporre questa preziosa edizioncina – arricchita da una dotta postfazione di Michele Cometa sull’ekfrasis: corrispondano a dei manufatti esistiti, o siano d’invenzione, queste descrizioni sono veicolo di verità. Sono tese a interpretare “l’enigma delle immagini”. Goethe, che propendeva (“Philostrats Gemälde”) per le reale esistenza delle opere descritte, ne faceva dei modelli, per l’arte a venire.
Notevole anche, nelle rappresentazioni di Filostrato, l’applicazione dei  precetti aristotelici sull’arte. Dell’analogia. E dell’arte come manufatto: l’arte non è divina, è arte, uso accorto dei colori, della tecnica, della geometria.
Filostrato, Immagini, :duepunti edizioni, remainders, pp. 157 € 9

giovedì 19 marzo 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (239)

Giuseppe Leuzzi

Lunedì 7 la Banca centrale europea ha avviato il piano di allentamento dei vincoli sul debito dei paesi euro, tra essi l’Italia, che ritardano l’uscita dalla profonda depressione economica. Giovedì 11 Jens Weidmann, presidente della Bundesbank tedesca, e Klaas Knot, presidente della banca centrale olandese, hanno chiesto di fermare il programma Bce per evitare di surriscaldare l’economia – come succede quando c’è “troppo” crescita. Senza crescita. E senza nessun deterrente tecnico, giusto per riaffermare un vantaggio competitivo dei loro paesi – anche sa viaggiano a un punto, un punto e mezzo percentuale, un crescita irrisoria – rispetto ad altri paesi, tra i quali in primo luogo l’Italia. C’è sempre  un Nord più a Nord degli atri, sinonimo di presunzione e avarizia.

“L’autostrada Salerno-Reggio Calabria sembra regredire. Il tutto dopo 50 anni di lavori e miliardi di euro spesi. Non sarebbe meglio, vista l’impervietà della zona e le infiltrazioni criminali, sospenderne il completamento?” È la lettera di un lettore – anche se firmata “Ardengo Alebardi” - che Sergio Romano sceglie di pubblicare sul “Corriere della sera”.
Non è vero niente, l’autostrada non regredisce, ma il “Corriere della sera” lo dice. Non è istigazione a delinquere? Magari di stampo mafioso?

La Corte dei Conti denuncia una catena di mala burocrazia a Nord. Ma la cosa non fa notizia.
Non c’è nessuno specialista della “casta” per il Nord, sono tutti, in abbondanza, per il Sud. Si mangia meglio al Sud?

Si suicida l’ex giudice di Palmi Giancarlo Giusti, dopo essere stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Davanti al gip, scrive Cesare Giuzzi sul “Corriere della sera”, tre anni fa si era discolpato così: “Dopo sere stato cacciato di casa sono andato in depressione. Mi sono aggrappato a questa persona solare, sveglia. Con lui mi sentivo rinato”.
Bisogna calcolare anche il mariticidio, nella crisi della famiglia e dell’Italia.
E la mafia? La “persona solare, sveglia” del giudice Giusti era Giulio Lampada, che viene processato da qualche anno come capomafia delle macchinette mangiasoldi. Cosa è mancato a Lampada per fare l’imprenditore onesto? I capitali? L’origine?

Le leggi e i costumi non valgono nulla, sostiene Machiavelli, senza la paura. Ma si può sostenere il contrario, che la paura rende irrilevanti leggi e costumanze.
Per “senza la paura” Machiavelli intendeva “senza la violenza” della legge, l’imperio. Il problema nasce quando la violenza dell’illegalità sorpassa quella delle legge: se bisogna avere più paura dei Carabinieri o dei mafiosi.

Il cardinale Ravasi dà molto credito alla mafiosità religiosa. Dei mafiosi che pregano santa Rosalia, e della chiesa, lascia capire, “concorrente esterna”. Un lasciar capire che si direbbe mafioso. Tanto più che il cardinale lo dice in sintonia con Prestipino e Sciacchitano, teorici del “Dio mafioso”, nonché col virtuoso Pignatone, per i quali solo la mafia esiste. Non che non ci dormano la notte.
Un cardinale che non sa che la chiesa, in tutte le sue forme, dalla vita in parrocchia ai piccoli e grandi appalti e alla vita associativa, è sicuramente la più estranea al Sud al fenomeno mafioso? Alla mentalità, oltre che alle insorgenze. Bisogna che ci ricrediamo sull’intelligenza della chiesa stessa. Millenaria come si sa, non per questo saggia.

Non s’incontrano più discariche abusive, nel napoletano e casertano, e nelle Calabria reggina, ma tentativi personali e familiari sì, a ogni passo. Meglio, a ogni rivo, ogni prato, anche solo a una piazzola. “In questo luogo per lungo tempo”, osserva Knut Hamsun nel 1948 (“Per i sentieri dove cresce l’erba”, p. 16), passeggiando in un bosco di periferia davanti a una forra, “la gente è venuta a gettare pietrisco, pattume, stracci e rifiuti di ogni genere”. Dunque, il fenomeno è universale. Solo che la Norvegia è diventata un giardino ordinato: basta poi fare pulizia, e far rispettare i regolamenti. Oppure mandare il netturbino a ritirare i sacchi. Anche una volta al mese.

A Serra San Bruno – Serra San Bruno è nelle Serre, giustamente, non nell’Aspromonte, nella Calabria reggina, ma tanto per fare un esempio -  trent’anni fa, prima che i cistercensi chiudessero l’abbazia alle visite, nell’area picnic sotto la pineta, molto frequentata, i rifiuti venivano coscienziosamente raccolti nei sacchetti blu, e legati ai rami bassi dei pini. Per evitare che cani e gatti li spargessero intorno. Ma attirando sciami di mosche e di vespe, al punto da rendere l’area inutilizzabile. Sarebbe bastato che il sindaco mandasse il pomeriggio un netturbino a ritirare i sacchetti. A volte basta poco.

Il Sud si racconta
“La Calabria di allora era identica a tutti gli altri Sud del Mediterraneo, terre calde coltivate a frumento, tabacco, mais, olivi alti come querce, giardini di aranci e di bergamotti, pergole di zibibbo e di malvasia”: Scalfar ricorda generosamente, in “L’amore, la sfida, il destino”, il sesto e ultimo volume della sua personalissima autobiografia,  l’anno e mezzo che dalla liberazione di Roma passò in Calabria, con i suoi, a casa dei nonni paterni. Un Sud che estende da Creta e Corinto a Sibari, Locri, Siracusa, e fino a Ceuta e Melilla. Ma di quel Sud gli è rimasto impresso soprattutto il desiderio, e quasi la necessità, di raccontare. Di raccontarsi – rappresentarsi.
“Mi accorsi ben presto che il raccontare rappresentava per gli abitanti di quei luoghi  il modo principale se non addirittura esclusivo di rappresentare se stessi e la vita che dentro gli scorreva”. Tutti raccontiamo, “ma nelle contrade del meridione il racconto si identifica con la vita stessa; la propria e quella dei personaggi ricordati fluisce senza interruzione”. Arricchita dalla gestualità, “che non è accompagnamento ma sostanza dei fatti e delle posture”. Sottolineati dalle tonalità e la scansione.
Il Sud si pensa e si esprime tangenzialmente, obliquamente, ma anche sinceramente: nei più riposti recessi.

Il romanzo “non c’è più”, argomenta Scalfari ancora in “L’amore, la sfida, il destino”, “perché non c’è niente di corale da raccontare e il romanzo è una forma corale di racconto”. Che non ci sia più è un dato di fatto. Ma non che non ci sia niente di corale da raccontare. Al contrario, oggi ne saremmo pieni, di cose da raccontare, ma non si vuole che si raccontino. Si dice: il mercato non gradisce. Ma il mercato non gradisce perché lo si indirizza altrove – il mercato è marcato, a vista, segnato, seguito, in ogni suo minima piega.
È tuttavia vero che non c’è interesse. Non c’è più curiosità. Sarà stato l’effetto peggiore del leghismo, del particolarismo sciovinista: la chiusura in un piccolo astioso “particulare”, la famiglia, il paese, al più la città, la regione. In chiave sempre polemica, di esclusione di ogni altro. Se non per gli affari, quelli non si rifiutano, ma senza interesse. Padovani e trevigiani hanno fatto e fanno molti affari – l’immobiliare è l’affare per eccellenza, rapido e senza rischio: vendere a cento quello che si è appena comprato a dieci - a Rocca Imperiale, o Trebisacce, Amendolara, San Nicola Arcella, ma non sanno esattamente dove sono, e non se ne curano.

leuzzi@antiit.eu

Primo Levi renitente alla Resistenza

Paolo Spriano dirà di avere deciso di andare in montagna per aver assistito  nella piazza di Brusson alla partenza di Primo Levi in catene. Ma l’esperienza partigiana di Levi in valle d’Aosta era stata brevissima e casuale. Irrilevante, se non per un brutto fatto: l’esecuzione di due giovanissimi compagni, di diciotto e diciassette anni, “al modo sovietico”, colpiti cioè all’improvviso alla schiena, senza un giudizio di condanna, per aver fatto delle rapine, o magari avere solo millantato di averle fatte. Primo Levi non era in nessun modo parte della vicenda, ma se ne sentirà anche lui responsabile. Mentre testimonierà dopo la guerra, contro i fascisti infiltrati che avevano sgominato la sua banda raccogliticcia, senza astio, e quasi con riconoscenza per il trattamento avuto in carcere. Da dove era stato mandato, per essere ebreo, al campo di Fossoli, con destinazione finale Auschwitz.
Una piccola storia, di alcuni episodi della Resistenza tra la valle d’Aosta e il Canavese. Montata un po’ troppo artificiosamente attorno a Primo Levi  - in questa veste edita negli Usa, col titolo “Primo Levi’s Resistance”, sottotitolo “Rebels and Collaborators in Occupied Italy”, capitalizzando sulla caratura dello scrittore, di cui solo le lettere italiane faticano a misurare il peso: “Nessun altro sopravissuto di Auschwitz è stato letterariamente potente e storicamente influente come Primo Levi”, esordisce il risvolto. L’analisi è fine del “tradimento”, che a un certo punto della riedizione di “Se questo è un uomo” sopraffà Primo Levi Di un tradimento senza traditori. Della cosa – partigiani uccisi a tradimento da partigiani - nonché della Storia, e della natura stessa. A Fossoli, alla traduzione per Auschwitz, l’alba in “Se questo è un uomo” coglie i partenti “come un tradimento”. Ma nel quadro di un’intenibile revisione del mito resistenziale.
Un seguito alla “Crisi dell’antifascismo” dieci anni fa, ma meno convincente. Partendo curiosamente non da Claudio Pavone, dal “saggio storico sulla moralità della Resistenza” che fu venticinque anni fa “Una guerra civile”, ma dal “Sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, della dissoluzione polemica delle convenienze, delle ritualità. Più produttivo sarebbe stato Pavese, 1949, “La casa in collina”: “Ogni guerra è una guerra civile; ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Ma è comunque un seguito non conclusivo. Una storia di vocazioni opportunistiche – sfuggire alla leva, sfuggire alla famiglia. Insofferenze e tradimenti di contadini e valligiani. Soprusi. Anche di partigiani contro altri partigiani. Superficialità e inettitudine. Una forte – più forte della stessa Resistenza – presenza repubblichina e collaborazionista. Una giustizia postbellica sempre viziata (politicizzata): dapprima tutta condanne, poi tutta riduzioni di pena, indulti, e l’amnistia. La corsa agli onori e alle prebende. Vista nella scena chiusa della Valle d’Aosta con le pendici casalesi e torinesi. Una ricostruzione dei fatti forse più vera, ma non vera nel senso politico e quindi storico.
Una microstoria, e quasi una curiosità. Prolissa, ripetitiva. Benché all’ombra di Jonathan Franzen. E con la scaletta teatrale dei “personaggi principali”. La revisione è faticosa?
Lo storico pone anche problemi che non risolve. Chi e cosa è una spia? Chi e cosa un partigiano – che vuole chiamare partigia, come usa in Piemonte, spiega sulla traccia della poesia dallo stesso titolo scritta e pubblicata da Levi nel 1981, per uomo di mano. Perdendosi in risposta nel vezzo polemico, tra le semplificazioni speculari dei valligiani tutti resistenti in petto in blocco, e quelle dei partigiani eroici e leali al 100 per cento.
La tentazione, dirà alla fine, è stata di trasporre “Se non ora, quando?”, l’unico romanzo di Primo Levi, tardo, del 1981, l’anno dei versi che intitolò “Partigia”, le avventure dei partigiani ebrei in fuga dai lager con l’Armata Rossa, nella valle d’Aosta, “pagina dopo pagina, non facendo altro che aprire e chiudere virgolette: i dialoghi del romanzo come sottotitoli con i quali accompagnare le scene del film che abbiamo guardato fino adesso, l’ebreo minacciato, la sua renitenza alla resistenza, i primi partigiani mezzo picari mezzo banditi, il pericolo dell’anarchia e il metodo sovietico, la necessità di far torto o la rassegnazione a patirlo, la fame di giustizia e la sete di vendetta, i criminali di guerra e i capri espiatori”. Ma riconoscendo che è “assurdo”.
Primo Levi non ci teneva. Ne scrisse un racconto fantaeroico sul “Ponte” di Piero Calamandrei, il cultore del mito della Resistenza, nel 1949, “Fine del Marinese”, ma poi non lo riprese nelle sue raccolte. Nei memoriali e le testimonianze della deportazione, ora in “Cosa fu Auschwitz”, è riduttivo, quasi sprezzante, della sua propria esperienza di partigiano – un errore di stampa, o di dattiloscritto, in una delle testimonianze di “Cosa fu Auschwitz” la riduce a tre giorni… Luzzatto documenta che la militanza fu casuale e superficiale. E questo è tutto. I tre mesi di vita alla macchia di Primo Levi prima dell’arresto in realtà li trascorse da sfollato con la madre e la sorella in pensione nell’alta val d’Aosta. Partecipando anche a un matrimonio, in qualità di testimone.
Due particolari si possono aggiungere di cui Luzzatto non tiene contro. Che Primo Levi fini a Fossoli  per essersi dichiarato ebreo, pensando che non fosse un delitto, rispetto a essere partigiano - un particolare tragicomico ripetuto da Levi nelle interviste. Delle esecuzioni sommarie di ladri o presunti tali, di due fratelli, un racconto feroce era in Meneghello, “I piccoli maestri”, 1976. 
Sergio Luzzatto, Partigia, Oscar, pp. 371 € 10

mercoledì 18 marzo 2015

Il mondo com'è (209)

astolfo

Disinformazione – Ha sostituito l’informazione, a tutti gli effetti pratici. A lungo confinata nella pratica dei servizi segreti, domina da qualche tempo l’opinion pubblica attraverso i suoi organi d’informazione, anche i più seriosi. Abbiamo ogni giorno una pagina contro la Russia. Così come contro l’Is. Come l’abbiamo avuta, prima che contro l’Is, contro la Siria di Bashir Assad. E prima ancora contro Gheddafi. O ancora prima, per quanto concerne l’Italia e la sua prima guerra dichiarata in regime repubblicano, contro la Serbia, per creare una serie di stati balcanici vassalli del Centro Europa. La tecnica del’informazione, di occupare gli spazi informativi, è sostituita dalla disinformazione, dalla propaganda.
Tutta la questione ucraina è stata infetta dalla manipolazione dell’opinione. Dalla “rivoluzione arancione” in poi, e compresa la stessa rivoluzione. In misura minore, ma lo stesso si può dire delle “primavere arabe”, dove spontanee proteste locali sono state montate in eventi rivoluzionari. Ma sono svanite senza lasciare traccia – nemmeno in Tunisia, contrariamente alle apparenze.

Uno dei primi vertici della disinformazione fu, nel 1915, la teoria che il tedesco produce più cacca, e più puzzolente, di un francese. Il neurologo Edgar Bérillon individuò nel 1915 la bromidrosi fetida e la polichesia della “razza tedesca”. Aveva il precedente del vino puro, anche se bevuto in modica quantità: “L’uso moderato del vino naturale nuoce alla salute, se uno è artritico, degenerato, o sedentario. L’uso del vino puro ha un’azione dannosa specie sul carattere delle donne. Le rende irritabili e bisbetiche. È qui il punto di partenza di buon numero dei problemi nei matrimoni. C’è di certo una relazione tra l’uso del vino puro e molti dei dissensi coniugali che portano al divorzio”. E tuttavia era un personaggio onorato dalla scienza medica, presidente della Società di Psicologia.
Sfuggì, forse perché astemio, alla vendetta tedesca durante l’Occupazione nella seconda guerra, e morirà rispettato a novant’anni nel ‘48.

Immagini – La prima distruzione di immagini è quella cristiana dell’iconoclastia. Delle immagini sacre esposte nei luoghi di culto. Per essa furibonde guerre civili furono combattute, con migrazioni di massa, per esempio di buona parte del clero e dei monaci della chiesa ortodossa verso i territori lontani di Bisanzio, il tema Calabria soprattutto, e il Salento. Ma oggetto di iconoclastia furono anche immagini non sacre. La Roma del santo papa Gregorio Magno fu spogliata di ogni statua ancora visibile, comprese quelle dei santi: si frantumava per calcinare. Per tutto il Medio Evo si sono bruciati monumenti e altari per ricavarne calce da costruzione.
Più vaste ancora le distruzioni delle immagini in quanto opere d’arte. È anzi una delle prime applicazioni dei movimenti rivoluzionari.  Da ultimo quelli maoisti delle Guardie Rosse e successivi – celebrati nel 1974 anche da Dario Fo. I mongoli si erano segnalati in Cina per l’applicazione che posero nel calcinare case, castelli, cattedrali, monasteri. Bruciarono anche ogni singolo pezzo di carta che vi trovarono. Le Guardie Rosse di Mao li imitarono. O imitarono i rivoluzionari francesi di provincia. In quasi tutte le città minori e i villaggi in Francia, palazzi, chiese e castelli furono distrutti archivi, quadri e statue, e arredi.

Massoneria – A Roma non è una novità, al governo e al Vaticano insieme. È avvenuto un secolo fa, tra Otto e Novecento. E già un secolo prima, dopo l’arrivo di Napoleone in città. Renzo De Felice ha esordito nella storiografia con “Gli Illuminati e il misticismo rivoluzionario” a Roma dopo l’Ottantanove. La sto-ria di Ottavio Cappelli, piccolo massone, e Suzette Labrousse, la quale, avendo sfiorato a Parigi Robespierre, voleva convertire il papa alla Chiesa Universale Liberale. Roma pullulava di Illuminati, i mistici laici.
Con gli Illuminati - e con Balsamo-Cagliostro - Dumas fece la trilogia della Rivoluzione.

Sacco di Roma – Un evento quasi normale, tante volte è stato ripetuto. Il primo fu precoce, nel 390 a.C.. Da parte dei celti, i galli senoni, guidati da Brenno, che marciarono dritti dalla loro “capitale”  Senigallia. Ottocento anni dopo si registrò il sacco dei Visigoti di Alarico. Al terzo tentativo: dopo l’assedio del 408 e del 409, il terzo si concluse con lo sfondamento, il 24 agosto 410, e la devastazione di Roma. Il terzo sacco di Roma fu opera dei Vandali, in guerra con l’imperatore Petronio Massimo, il 2 giugno del 455.
Wikipedia ne registra successivamente due marginali: nel 472 l’assedio da parte dei goti, comandati da Ricimero, e nell’846 il saccheggio delle basiliche fuori le mura di San Pietro e San Paolo, da parte dei Saraceni. Altri due assedi, di natura analoga, sono da registrare anche da parte del duca di Spoleto, il longobardo Ariulfo, nel 591 e nel 593. La prima volta si limitò a minacciare l’assedio, che non pose in cambio di un tributo. I bizantini, che il papa Gregorio Magno aveva chiamato in aiuto, non si mossero. Si mossero due anni dopo per bloccare le trattative che il papa aveva intavolato coi Longobardi viciniori, di Spoleto e di Salerno. Ma la cosa dette fastidio anche al re dei Longobardi Agilulfo, che da Pavia mosse nel 593 contro i bizantini e i duchi Ariulfo e Arechi, ma finì per porre l’assedio al papa, a Roma. Un assedio simulato, per una richiesta di riscatto: Gregorio Magno dovette pagare cinquemila libbre d’oro, e impegnarsi a un ingente tributo annuo.
Il successivo sacco di Roma, nel 1084 da parte dei Normanni di Roberto il Guiscardo, riunisce tutte le contraddizioni della storia della città. Un altro papa Gregorio, Gregorio VII, era finito assediato nel giugno 1083 a Castel S. Angelo dai tedeschi dell’imperatore Enrico IV. Che avevano occupato la città, e la tennero occupata per un anno, senza devastazioni. Gregorio VII chiese l’aiuto di Roberto il Guiscardo. Un anno dopo, il 21 maggio 1084, il Guiscardo entrò a Roma con 36 mila  uomini e diede avvio a una tre giorni di saccheggio senza limiti. Enrico IV si ritirò, Gregorio VII dovette lasciare la città e si rifugiò dal duca longobardo di Salerno – scortato da Roberto il Guiscardo.
Il classico naturalmente è quello di Carlo V, l’imperatore cristianissimo. Che il 6 maggio 1527 scatenò nella città i lanzichenecchi, le truppe tedesche del suo esercito. Il sacco di Roma più devastante, ma anche il più giustificato: il papa Clemente VII aveva promosso un anno prima un’alleanza antiasburgica, detta lega di Cognac – anche irriconoscente: quindici anni prima le truppe spagnole avevano saccheggiato Prato e minacciavano il sacco di Firenze se la città, repubblicana, non si fosse riconsegnata ai Medici (Clemente VII era un Medici). Nel giugno 1413 anche Ladislao d’Angiò Durazzo, filgio di Carlo III d’Angiò e Margherita di Durazzo, re di Napoli, aveva messo a sacco la città, rapinando le case e i palazzi, saccheggiando i santuari, il 24 aprile 1408. In odio a un altro Gregorio, papa Gregorio XII, contro il suo tentativo di far rientrarlo scisma avignonese.
Di tutti gli invasori di Roma se ne astennero i tedeschi nel 1943.

Tarantola – Prima di diventare il nome della giustizia giustizialista di Milano, di origine valtellinese, confessionale, e della direzione generale della Rai, anzi prima ancora di diventare il ballo semindemoniato che Ernesto De Martino ha indagato in Puglia, l’animaletto fu l’alleato dei mussulmani in Italia. Al secondo tentativo di conquista della Sicilia in mano agli arabi, nel 1064 Roberto il Guiscardo poté attraversare quasi tutta l’isola e arrivare fin sotto Palermo. Ma l’accampamento fu invaso di notte dalla tarantole, che misero le sue truppe in rotta, e il Guiscardo abbandonò sdegnato la Sicilia – la conquista normanna fu completata otto anni dopo da Ruggero, il conte di Sicilia fratello del Guiscardo.

astolfo@antiit.eu 

La guerra delle false notizie

Il classico della disinformazione in tempo di guerra – della propaganda. Riedito per la terza volta in un decennio, segno che ce n’è bisogno. Ma per una curiosa inversione rispetto all’analisi di Bloch: ora è l’opinione che vuole le false informazioni, o comunque se ne nutre, gli Stati Maggiori e i governi devono solo trovarne di fantasiose.
Bloch si riferisce alla sua propria esperienza nel 1914-18 – “Ricordi (1914-19218) e riflessioni (1921)” è il sottotitolo. Fece la guerra in trincea e nella sezione “Ricordi” ne riferisce. Riferisce solo la sua propria esperienza, quella di cui era stato protagonista o testimone. Nelle successive “Riflessioni” mette invece in chiaro le varie false notizie di cui le trincee e le retrovie erano bombardate. Una riflessione la cui pietra di paragone restava sempre il famoso “telegramma di Ems”, di Bismarck per indurre Napoleone III a fargli la guerra che era sicuro di vincere.
Nella Grande Guerra già molto era cambiato rispetto all’Ottocento: la damnatio del nemico fu piena di eccessi, e ci un’anteprima della “mobilitazione totale”. Storici come Bloch e scrittori come Kipling vi erano impegnati. Mentre i cattedratici tedeschi quasi al completo e scrittori come Tomas Mann argomentavano con violenza il diritto di aggressione. La propaganda arrivò al ridicolo, del tedesco che produce più cacca, e più fetida, di un francese.
Se Bloch avesse analizzato la seconda guerra mondiale, e più il secondo dopoguerra, avrebbe tratto probabilmente altre conclusioni. La guerra fredda è stata una guerra d’opinione, e l’ha infettata al punto che ora non è “smobilitabile”. L’opinione resta “armata”, anche se non sa più contro chi e che cosa, e a favore di quale “patria”. Chiunque ha un minimo di conoscenza degli affari internazionali, sa che viviamo in un’epoca di false notizie. La bellicosità latente succeduta alla minaccia termonucleare è una guerra di (false) notizie.  
Marc Bloch, La guerra e le false notizie, Fazi, pp. 136 € 10

martedì 17 marzo 2015

La vera riforma è del debito

Gli acquisti di titoli pubblici da parte della Banca d’Italia nel quadro del quantitative easing di Draghi, circa 6 miliardi al mese di titoli italiani per diciotto mesi, 110 miliardi circa, potrebbero portare al consolidamento di un 5 per cento del debito, stesso, in titoli irredimibili. Altre forme di consolidamento (riduzione) del debito sono possibili e vanno realizzate. Tanto prima tanto meglio. Anzi ora o mai più, non ci saranno condizioni altrettanto favorevoli: il rischio è il fallimento, un derapaggio inarrestabile dell’economia verso il basso, continuandosi a pagare sempre più tasse a un serpente che si morde la coda (“più tasse più tasse”), nel mentre che divora l’economia - le tasse al 50 per cento del pil semplicemente strozzano la produzione e i consumi.
Ridurre il debito è indispensabile perché: 1) costa troppo, anche se i tassi d’interesse sono al minimo, 2) penalizza la concorrenza (l’Italia, con un debito pari a quello della Germania, paga di interessi ogni anno il doppio, una cinquantina di miliardi), e 3) restringe il credito. L’esito è un ostacolo permanente alla crescita dell’economia. Senza alcun vantaggio per la spesa sociale: il debito eccessivo, dentro l’euro, è solo un bruciatore di risorse.
Quando la politica avrà riacquistato l’autonomia, si potrà incidere sui due bubboni della spesa pubblica: la sanità e gli appalti. Macchine macina miliardi, al coperto del mercato liberatore, cioè del complesso mediagiudiziario. Per ora ci si può solo difendere, tagliando il debito. Che il mercato vuole anch’esso ridotto – è una delle sue pretese “riforme”, ma qui con un fondamento.
La  struttura economica italiana è solida, è diversificata, ed è produttiva checché se ne dica. Almeno un migliaio di prodotti italiani sono di eccellenza, primeggiano nei mercato internazionali. L’Italia è il secondo paese industriale (manifatturiero) in Europa. L’Italia ha fatto le riforme del bilancio, della previdenza e del lavoro che il mercato globale esige, anche se Bruxelles dice di no: il lavoro è flessibilissimo come più non si può, le pensioni sono dimezzate, eccetto che per le generazioni a morire, il bilancio corrente è più o meno in equilibrio, e non fosse per gli interessi che deve pagare sul debito è da molti anni in attivo, ma il debito aumenta, vieppiù insostenibile. La vera riforma è del debito.
Oggi, oltre che opportuno e conveniente, è anche possibile consolidare il debito pubblico – ridurlo. I modi non sono indolori, ma un governo solido e affidabile può promuoverlo con effetti, alla sommatoria, positivi anche nell’immediato. E il governo Renzi è solido: ha un’opposizione frantumata e confusa, e avrà tra due mesi, alle elezioni regionali, il suffragio del voto che gli manca, ben più solido di quello ottenuto alla elezioni europee un anno fa. Le condizioni internazionali ci sono pure: è fallito, o comunque rientrato, l’attacco all’euro. Oggi molto più forte per essersi indebolito nei confronti del dollaro, in una fase di prezzi cedenti delle fonti di energie – denominate in dollari.

La tassa sull’ombra
Aumentare le tasse è solo dannoso. È anche impossibile, le tasse al 50 per cento del pil sono al ridicolo. Bologna tassa gli annunci dei saldi in vetrina – “sono pubblicità”. E i menù esposti fuori del ristorante, che pure sono obbligatori. E l’orario di apertura esposto agli ingressi, e i marchietti delle carte di credito accettate. Per una norma varata nel 2009, in piena crisi, ultimo atto del sindaco assente  Cofferati, che governava Bologna da Genova. Una norma che ebbe una prima esemplare applicazione con una tassa sullo zerbino - di un negozio di gioielleria col logo della ditta.
Ma Cofferati non è un’eccezione. Se Roma arde di risanare il bilancio tassando prostitute e prostituti – con gli “studi di settore”?  Tutti gli enti pubblici, piccoli e grandi, centrali e locali, sono centri di spesa incontenibili, e quindi di tassazioni sempre più feroci – hanno moltiplicato all’inverosimile le patrimoniali sulla case, ora ci provano, compiacente la Corte Costituzionale, con una patrimoniale sui servizi, mentre moltiplicano le multe stradali, con sistemi di controllo elettronici tutti in varia misura fasulli. Senza benefici sociali e a danno del reddito, dei consumi e dell’economia. Effetto perverso del plebiscitarismo, che pure sarebbe democratico, l’elezione diretta dei governanti locali.
Risponde da Roma l’Agenzia delle Entrate, ex ministero delle Finanze, chiedendo di tassare i versamenti in contanti alla banca. Ora: i supermercati e i commercianti in genere, gli idraulici, etc, come si devono far pagare, con marchietti? Dice: per tassare gli evasori fiscali. No, per tassare. È per questo che le Finanze si sono trasformate in Entrate, per stupidità?
Una modesta proposta a tanto acume si potrebbe avanzare, tratta da “La morte è giovane”, romanzo anamorfico di Astolfo, in via di pubblicazione, con esempi anche di un passato recente, dopo la crisi del petrolio del 1973-74:
 “Anche ai possessori di automobili il governo chiede una tassa, un contributo una tantum. Col vincolo di conservarne certificazione per la vita, pena dura ammenda. E poiché la spesa generosa della pubblicità “Telefona al governo” ha eroso il gettito dell’una tantum, una sovrattassa sulla benzina lo ricostituirà. La ricetta risolutiva è sempre quella di Cervantes, Dialogo dei cani: se tutti i sudditi digiunano un giorno, e danno il risparmio al re, il debito si estingue. L’America non manca d’innovare, a protezione congiunta del fisco e della società, intesa come Dio e famiglia: tasse sui matrimoni, per le modifiche che causano allo stato civile, sul celibato, in misura superiore, sui divorzi, in misura doppia per ragioni etiche. Ma la tassa sui celibi è debole: le donne furono grate a Mussolini che la praticò, ma per poco, mentre potrebbe favorire matrimoni di comodo, per esempio di gay con lesbiche. Torna pure la ricetta con cui Churchill sconfisse Hitler: vietare gli ascensori fino al terzo piano.
“Una tassa è possibile sull’accesso ai luoghi di culto, il cui mantenimento costa. Nonché sull’assenteismo dai luoghi di culto, che costano comunque. Più cara se la religione è di Stato. Si istituisca una Carta del Culto, da punzonare a ogni entrata e allegare alla dichiarazione dei redditi. Risalendo nella storia viene utile il guidrigildo di Federico II, in tempi calamitosi assicura ottime entrate: la comunità, caseggiato, quartiere, paese, paga per ogni delitto impunito al suo interno. Bisanzio calcolava di coprire un terzo della spesa tassando veggenti, giocolieri e ciarlatani. Il repertorio più completo è sempre di Aristotele. A caso: vendere il demanio (si fece a Bisanzio), vendere la cittadinanza agli immigrati (idem) e ai fuggiaschi, mettere all’asta lo spazio sovrastante le costruzioni abusive che sporgano sulla pubblica via (Ippia di Atene: gli abusivi corsero a comprare a caro prezzo), tassare le scale e i ballatoi sul suolo pubblico e le porte che aprono verso l’esterno (sempre Ippia, che così tassava tutti: le porte si aprivano allora verso l’esterno, dalla parte della strada, prima di aprirle si bussava), gli incarichi pubblici e privati (vari), i capelli lunghi (Condalo, luogotenente di Mausolo), i funerali (lo stesso).
“Alla campionatura del Magister sono complemento Plutarco e Svetonio. Licurgo, secondo Plutarco, “avviò la spartizione dei beni mobili, al fine di eliminare differenze e sperequazioni fra i cittadini, e intuendo che, presi di petto, non avrebbero consentito a farsi spogliare, li aggirò con un trucco”: sostituì l’oro e l’argento delle monete col ferro, e alle monete di ferro attribuì un valore così basso da renderne impossibile la custodia e il trasporto. Anticipò la repubblica di Weimar. Gli spartani reagirono anticipando i tedeschi, che del resto se ne proclameranno eredi: si arresero al governo. A Roma l’imperatore “ciocia” Caligola (caligula è l’anfibio, lo scarpone militare, anche se, derivando dalla nota caligo, ne subisce la polisemia, n.d.C.), quello che voleva distrutte le opere di Omero per il motivo che doveva essere consentito a lui quello che si consente a Platone, il quale come si sa bandisce Omero dalla Repubblica, e temendo per il suo regno l’oblio causa la prosperità fomentò sconfitte, incendi, stragi, pestilenze, carestie, innovò il fisco. Aprì bordelli di Stato, promiscui, e tassò i facchini, allora la classe operaia più numerosa, per l’ottava parte del reddito. La prescrizione facendo affiggere a caratteri microscopici in posti reconditi, per avere molti inadempienti da tassare ulteriormente. Si deve a Caligola la ricetta di dichiarare la carestia dopo avere chiuso i granai, nocciolo della trionfante Austerità. Mossa politicamente non sbagliata, se Bacone ha accertato che “ciò che abbatte lo spirito di un popolo è caricarlo di tasse”. Lo Stato italiano si rifà a Ippia, tassando “la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline, anche se da ciò non deriva alcuna limitazione all’uso dello stesso”: tassa l’ombra.
“Sostiene Foucault che il sesso è il fondamento del potere, la testa del membro maschile. Non si ha più nulla da dare al popolo, lo sapeva già Rousseau, se non l’appello “date soldi”, che si dice “coi manifesti ai muri e gli sbirri nelle case”. Il Contratto sociale scade per questo di tono: “Datelo, il denaro, e presto ce l’avrete in quel posto”. Plutarco ricorda che gli ateniesi ci fu un periodo che “urbanizzavano” – avevano un presentimento della “società civile”? -, chiamando compagne le puttane, il carcere abitazione, gli sbirri custodi, e le tasse contributi. Anche i papi, altri maschilisti, mostreranno analoga fantasia: tassarono i tordi, la fojetta di vino, detta “studio”, e la farina. Il potere si vuole osceno”.

Le Finanze erano una Scienza
Qui ci vuole un preambolo. Sulla incompeteneza, se non è ignoranza, delle Finanze, oggi Entrate, che pure fino alla riforma Visentini, 1974, erano la parte migliore della burocrazia. Ora accavalla tasse su tasse e moltiplica le leggi e i regolamenti, a cadenza di poche settimane o mesi. Con lo scopo di allargare il prelievo riducendo l’evasione, mentre invece la incrementa - e forse in realtà per aumentare il proprio potere di concussione, anche se non lo sa: le Finanze si sono surrogate un potere imenso, e distruttivo. Non solo le tasse sono onerose, ma sono in Italia in corsa frenetica all’inefficienza. Con una velocità di ricambio (di calcolo, di modalità di pagamento) assurda – come se si volesse scoraggiare l’adempimento. 
Troppe vessazioni inducono l’evasione – questa cosa si è saputa per millenni, ma alle Entrate non l’hanno imparata. A parte il fatto che non sanno recuperare nemmeno il dovuto, denunciato, testimoniato, certificato. Una riforma il riformatorio dovrebbe prima di tutto fare delle Entrate. A cominciare dalla dirigenza, che si è riempita in questi anni allegri di Seconda Repubblica di portaborse di ministri e sottosgretari, digiuni della materia - si parla di centinaia di posizioni, forse un migliaio. 
C’era una volta una Scienza delle Finanze, ma si è perduta. Si può dire che il debito cresce per l’ignoranza della Scienza delle Finanze. Dei fondamentali di questa scienza, pure semplice. Che ha avuto in Italia cultori apprezzati, da Einaudi fino a Reviglio e Tremonti, ma è da tempo desueta. Insieme con tutta la Funzione Pubblica: fa parte della derelizione dello Stato in onore del mercato trionfante. L’esito è il disastro in materia imposto da Mario Monti.
Monti ha portato la tassazione a livelli record e insostenibili, nel mentre che tagliava le spese, nelle retribuzioni, nella formazione, nella sanità, e accresceva il debito. Perché lo ha fatto lo sanno tutti, anche se non si dice, per carità di patria, per Milano che egli rappresenta al sommo grado, e per Napolitano che ce lo ha imposto. Per un concentrato d’insipienza altrimenti impossibile da immaginare, se non per la protervia liberista. Uscirne non sarà facile ma è possibile.
Monti ha violentemente ridotto la spesa sanitaria, ha stroncato le spese per la scuola, specie per la secondaria e l’università (dell’università pubblica, ovviamente), bloccando il ricambio, e ha fermato la contrattazione e l’anzianità tra i dipendenti pubblici. Ha cresciuto l’imposizione fiscale di 3 punti percentuali, ufficialmente, il doppio di fatto e nel “percepito”, imponendo la deflazione che è causa e motore principale della recessione – un circolo vizioso. E ha aumentato il debito. Da 1.843 a 1.988 miliardi – e a 2.166 miliardi a fine gennaio.
Le tasse non colmano il debito ma lo aumentano. Sono risorse sottratte alla produzione, cioè al reddito, e quindi a una fiscalità rigorosa e produttiva. Le troppe tasse riducono e soffocano il meccanismo accumulativo produzione\occupazione\reddito. Per non parlare degli effetti indotti, ma sistemici. La supertassazione della casa di cui Monti si è fatto merito in Parlamento cambierà in una-due generazioni il panorama  millenario dell’Italia. Addio palazzi e ville, mantenuti tal quale per il rispetto della tradizione -meglio farne alberghi, uffici, condomini, e ampliarne le cubature. Addio seconde case, che per una buona metà sono le vecchie case di origine, di famiglia, di paese. E addio vecchi paesi. In molti Comuni il fenomeno è già avvertito, l’attesa è che si generalizzi: i tre italiani su quattro che sono emigrati, di prima o seconda generazione, abbandonano la casa paterna. Dispossessandosi il più delle volte, col rifiuto dell’eredità e in altre forme, poiché delle case vecchie nei paesi non c’è mercato: lasciando gli immobili al deperimento. Si perderà con la casa anche il senso delle origini? È inevitabile. Ma con l’urgenza di liberarsi della casa il processo si affretta, in un tempo non lungo. E senza la patina del tempo, in una forma violenta di sradicamento. Delle radici che sono state finora la forza dell’Italia, anche nella modernità: crescere in un luogo proprio, con la piazza e la fontana, magari con le najadi, e far valere la tradizione. Il pensiero dei tecnocrati è sempre corto, da apprendisti stregoni.
Il fenomeno del disavanzo incomprimibile con la tassazione non è solo italiano, ed è noto. Lo hanno spiegato una dozzina d’anni fa Vito Tanzi, italiano d’America, allora al Fondo Monetario internazionale, vice-ministro di Tremonti all’Economia, e Ludger Schuknecht, ora consigliere principe del ministro tedesco delle Finanze Schaüble, nello studio “La spesa pubblica nel XXmo secolo”. I due studioso documentavano che la crescita abnorme del debito pubblico nei paesi industriali nell’ultimo terzo del secolo non nasceva da un allargamento del welfare, del sistema di protezione sociale, che non ne beneficiava, se non in misura irrisoria. A un certo punto il debito si autoriproduce, senza alcun effetto virtuoso o produttivo. Tanzi e Schuknecht prospettavano una riduzione necessaria del debito per effetto della globalizzazione, della competizione con sistemi produttivi a basso o nullo impatto del debito. La  crisi successiva, da cui l’Europa dopo otto anni stenta a riprendersi, ha peggiorato le simulazioni dei due economisti.

Che fare
Usava tra i letterati e artisti indebitarsi. Fino a D’Annunzio era quasi una regola. Poi tutto è cambiato, e anche l’artista si vuole regolarizzato, in pace col fisco e gli amici. In economia il debito è durato più a lungo. Rabelais ne fa l’elogio ai capp. III e IV del “Terzo Libro”: Panurgo, a cui Pantagruele rimprovera di avergli mangiato il grano, fa l’elogio dell’indebitamento – di cui il creditore dovrebbe andare orgoglioso  giacché è il suo pane. E tuttora ci sono economie che prosperano col debito: il Giappone è un caso, e anche gli Usa. Ma per tutti gli altri, si può dire, il debito è un fardello. Ridurlo è una necessità, e molti sistemi, più o meno risolutivi, sono stati escogitati.
L’Italia non ne discute, ma è il primo indiziato di un necessario consolidamento. Con misure straordinarie. Il Belgio ci è riuscito negli anni 1990 con una manovra complessa di taglia di spesa e aumenti pro tempore delle tasse – della fiscalità indiretta sui consumi, non delle patrimoniali. I tagli di spesa sono poco produttivi in Italia: 23 anni di attivo primario, a partire dal fatale 1992, dalla crisi della lira, di un comparto pubblico cioè in attivo al netto degli interessi sul debito, non hanno compresso il totale de debito stesso ma l’hanno aumentato. Per alcuni anni, attorno alla metà del ventennio, e in corrispondenza con l’avvio dell’euro, il debito si è contratto, ma poi è tornato a macinare nuovi record negativi. E oggi, malgrado i fortissimi aumenti della fiscalità dei governi Monti e Letta, macina nuovi record negativi.
Prestito irredimibile. Bisogna intervenire sullo stock del debito. Si è riscoperto il debito irredimibile ed è una buona cosa. Si è riscoperto in inglese, come “a perpetuità”, e giusto perché Londra ha deciso di rimborsare il vecchio debito del 1914, ma non importa. Il debito che sta passando nella titolarità della Banca d’Italia è un ottimo candidato all’irredimibilità. Ma molti privati ne sarebbero sicuramente attratti. Con un attivo primario stabile da ormai un quarto di secolo, l’Italia è in condizione di pagare uno spread aggiuntivo sugli interessi di mercato. Necessario è ridurre, nello schema di Maastricht, lo stock del debito. L’Italia ne ha una buona esperienza.
Patrimoniale. Non è da escludere. “Siamo contrari a qualsiasi ipotesi di imposta patrimoniale, diretta e indiretta, per l’abbattimento del debito”, è il punto principale, in grassetto, del programma del partito di Corrado Passera, Italia Unica. Dopo che Passera, con le imposte patrimoniali ordinarie e anzi a vita ha distrutto mezza Italia – la quale lo ha subito affondato, con Monti. E invece una patrimoniale straordinaria gli italiani volentieri la pagherebbero – l’oro alla patria.  Per abbattere il debito. Sarebbe l’analogo del prestito forzoso.
Privatizzazioni. Servono ma non risolvono. Il gran parlare che se ne fa è, al coperto dell’ideologia, o delle voci interessate, di acquirenti-gestori per un lucro, banche d’affari e affaristi individuali, non è decisivo. L’effetto è stato, nelle privatizzazioni di Draghi e Ciampi, minimo. Una buona gestione del patrimonio pubblico, anche abitativo, inciderebbe di più, molto – come i dividendi incassati annualmente da Eni, Enel, Poste, e gli altri pochi soggetti rimasti in mano pubblica.
Eurobond. Gli eurobond non sono tramontati, e potrebbero trovare - passata la crisi, col rischio di doversi sobbarcare il debito altrui – un interesse convergente in paesi europei oggi contrari. L’Italia ne ha esperienza. Fu italiano il primo consolidamento moderno del debito, subito dopo l’unità, a opera di Antonio Scialoja, ministro delle Finanze. Il 2 maggio 1866, in reazione alla caduta delle quotazioni dei titoli del debito pubblico italiano alla Borsa di Parigi, per una delle tante crisi commerciali, Scialoja proclamò il “corso forzoso”, ossia la temporanea inconvertibilità. Al contempo il ministro obbligava la Banca Nazionale, antenata della Banca d’Italia, a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni – l’odierno acquisto Bce a sostegno del corso del debito. E subito dopo emise un prestito redimibile forzoso, a carico delle banche. Che non ci rimisero, e anzi ci guadagnarono.
Mutualizzare una quota del pil. Marcello Minenna propone di sopravanzare subito il rischio eurobond, di mutualizzazione del debito, mutualizzando invece subito il pil. Non tutto, un 30 per cento. Questo è quanto basta per decurtare il debito italiano a misura sostenibile, dal 120-130 per cento del pil, cioè, al 90-100 per cento – “la nota soglia critica”, dice lo specialista nel calcolo del rischio, “oltre la quale è difficile ipotizzare con le regole attuali dell’Eurosistema (incluso il fiscal compact) che il debito possa avviare un naturale percorso di riduzione”. Questo sarebbe di interesse anche della Germania, che vedrebbe “mutualizzato gran parte del proprio debito, perché più un paese è virtuoso e più debito mutualizza”, in percentuale.
Ma la manovra è d’ingegneria complessa, troppo per le pletoriche e deboli istituzioni europee . Meglio, dal punto di vista decisionale, le manovre complesse, anche se ognuna di esse non decisive.
Prestito forzoso. Se ne sono fatti in passato per le più varie emergenze. La guerra. La ricostruzione. La ricostruzione locale. Il prestito forzoso è odioso. E tuttavia è meglio che un aumento costante delle tasse: è meno ingiusto e più democratico di un’imposizione fiscale elevata, che a ogni manovra, cioè a ogni bilancio, si aumenta.
Cassa per l’Ammortamento. La più azzardata, e la meglio riuscita fu il consolidamento del francese nel 1926 – su cui la curiosità si potrà esercitare a:
Meno drammatica ma molto produttiva fu la manovra italiana per rientrare dal debito contratto con la Grande Guerra. Mussolini aveva adottato una Cassa per l’Ammortamento del Debito Pubblico interno dello Stato – dopo avere beneficiato dell’abbuono del debito estero contratto in guerra dall’Italia con Stati uniti e Gran Bretagna – un anno prima di Poincaré. Con effetti anch’essi risolutivi. Nel 1918 l’Italia più che la Germania sembrava predestinata al fallimento. Nel 1914 il debito pubblico era il 75 per cento del pil, nel 1918 il 150 per cento. Un primo tentativo di ammortamento del debito, nel 1920, con una patrimoniale fortemente progressiva, fallì: il gettito fu esiguo. Le cose si trascinarono fino al fascismo, e al correlato miglioramento della fiducia degli ambienti internazionali, specie di quelli finanziari. Mussolini, col suo ministro De Stefani, ricavò molto più della patrimoniale con la riduzione della spesa, e il contenimento delle tasse. Nel 1926 De Stefani poté vantare un debito pubblico al 50 per cento del pil. Ma sapeva che ciò era l’effetto soprattutto del condono del debito estero da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Da qui il progetto di una Cassa d’Ammortamento, che il nuovo ministro del Tesoro Volpi realizzerà un anno dopo. Abbastanza per riportare la lira nel gold standard, con la famosa Quota Novanta (92 lire, esattamente, per una sterlina).
 “Una Cassa d’ammortamento è, insegna Jean-Baptiste Say, al cap. 30, “Sui prestiti pubblici”, del suo  “Catechismo d’economia politica”, “un mezzo per sostenere il credito del governo”. Domanda: “Che cos’è una cassa d’ammortamento?” Risposta: “Quando si mette un’imposta per pagare gli interessi di un prestito, la si mette un po’ più alta di quanto è necessario per pagare questi interessi, e l’eccedente è confidato a una cassa speciale che si chiama cassa d’ammortamento, la quale lo utilizza per riacquistare ogni anno, ai corsi di mercato, una parte delle rendite pagate dallo Stato.
I ratei delle rendite riscattati dalla cassa d’ammortamento sono quindi versati in questa cassa, che li impiega, così come la quota di imposte che le viene attribuita a questo scopo, per il riacquisto di una nuova quantità delle rendite”.
“Say non amava il debito pubblico: “Un governo che vende delle rendite per appropriarsene il prezzo vende in realtà il reddito dei cittadini”. Non molti anni prima del suo “Catechismo”, nel 1776, una Cassa d’ammortamento era stata creata, col favore di Turgot, a fronte di un debito pubblico che all’improvviso apparve colossale, con lo scopo di rassicurare i sottoscrittori. Malgrado la Cassa, la Francia finì nella Rivoluzione. E la Rivoluzione, che si può anche dire provocata dall’instabilità finanziaria, finì negli assignats, cioè nella cancellazione della moneta”.
Spa del debito. Nel 2005 l’ex ministro delle Finanze Guarino ha proposto il consolidamento sotto una forma diversa di cassa d’ammortamento: una società per azioni, alla quale conferire i tanti attivi non esigibili dello Stato. Una società privata, fuori cioè dello Stato. In grado di produrre utili, e di raccogliere quindi un conveniente numero di sottoscrittori privati. Questo grazie al conferimento di un patrimonio che Guarino stimava in 450 miliardi, pari al 35 per cento del debito (di allora). Forse addirittura in 600 miliardi, pari al 45 per cento del debito, che così sarebbe sceso sotto la soglia virtuosa del 60 per cento del pil.
Era una stima prudente: il patrimonio pubblico, dello Stato e degli enti locali, si valuta in 1.800 miliardi. Togliendo dal computo i beni artistici, e quelli locali, difficilmente mobilitabili, l’Agenzia del Demanio calcolava all’epoca che beni per 450 miliardi si potevano agevolmente mettere sul mercato: partecipazioni, quotate e non, immobili, crediti.
Il debito sarebbe stato abbattuto a mano a mano che le quote di Debito Spa venivano vendute agli investitori. Per un controvalore appunto di 450-600 miliardi.
Il professor Guarino era un ex democristiano, senza più autorità, per di più ministro dell’infausto governo Amato nel 1992, e la sua proposta non ebbe fortuna. Lui stesso ridusse l’attivo ipotetico della Debito Spa a 60 miliardi, e poi non ne fece nulla. Inoltre, Guarino prevedeva che fossero le banche e le grandi imprese italiane ad avviare il successo di Debito Spa nel mercato, prendendone una quota di almeno il 10 per cento, e oggi le banche non sono in condizione di farlo, né le grandi imprese totalmente private, Fiat, Telecom, Pirelli, Autostrade, eccetera. 
La pratica, da Guarino passata al governo Prodi, fu affossata perché “economicamente priva di senso”. Ma il professor Messori, consulente di Prodi a palazzo Chigi, riteneva che in forma specializzata e non aggregata, con una serie di holding e non una sola, il progetto potesse riuscire. Lo stesso Prodi peraltro riteneva essenziale la riduzione dello stock del debito. Successivamente alla proposta Guarino da lui bocciata, Il Mulino bolognese, un think tank  nel quale il Professore aveva molto peso, redasse “Debito pubblico”, una pubblicazione a cura del professor Musu, che è assolutoria e anzi incitatoria. No, categorica: “Il risanamento finanziario connesso a un processo di riduzione del debito pubblico può essere paragonato alla produzione di un bene pubblico, di un bene cioè del quale tutti i cittadini possono godere simultaneamente e in modo non reciprocamente esclusivo”.
Swap col patrimonio. È una proposta avanzata dal “Corriere della sera” il 18 gennaio, per bocca di Marco Mazzuccheli, managing director della Julius Bär, la banca privata svizzera. Togliere dal mercato la parte di debito di cui il patrimonio che si va ad alienare è il collaterale – anche se figurato e non giuridico. In passato si è venduto il patrimonio pubblico senza cancellare il debito corrispondente. Nella competizione internazionale, argomenta Mazzucchelli, “partiamo penalizzati di 30 punti a causa del debito pubblico, il cui servizio costa quasi il 5 per cento del Pil. Ma proprio qui sta la chiave”. E il momento è anche favorevole: La chiave è “tagliare il ramo secco… ridurre il debito di almeno il 40 per cento!”. Con “uno swap tra debito e patrimonio dello Stato”. Sostituendo “una quota dei titoli dello Stato con certificati di una società nella quale sono messe le proprietà pubbliche: patrimonio immobiliare, demanio, municipalizzate, controllate. Una società da gestire con una logica privata. Una Treuhand (l’agenzia che privatizzò il patrimonio della Germania Est negli Anni Novanta) che si estingue in dieci anni, dopo avere venduto tutto”. La proposta Guarino-Cassa d’ammortamento con una procedura teoricamente più applicabile. Anche perché appetibile al “mercato”.
La ricetta Belgio, o del circolo virtuoso. Analoga per molti aspetti all’esperienza italiana, quella del Belgio si differenzia all’ultimo stadio: ha riuscito il consolidamento. A partire dal 1993, quando il debito salì al 137,8 per cento del pil, come l’Italia allora e ora, con un servizio del debito all’8 per cento dello stesso pil, come ora l’Italia, il paese si è imposto un avanzo primario di bilancio. Come l’Italia. Un plafonamento della spesa pubblica. Come l’Italia. Un patto di stabilità con gli enti locali. Come l’Italia. Un aumento del prelievo fiscale fino al 45 per cento. Come l’Italia. Ma tutto questo ha fatto per un decennio fino al 2002. Mentre l’Italia va avanti con la stessa ricetta da oltre vent’anni, e senza esito. Dov’è la differenza? Nel 2001 il governo belga vara un piano quinquennale di rientro del debito, al 90 per cento del pil. E ci riesce. Un piano quinquennale non fantasmagorico: vendita dei beni pubblici, compreso l’oro, in parte, della Banca centrale belga, rimborso anticipato di parte del debito, allungamento delle scadenze del debito in essere. L’esito è stato l’azzeramento dello spread, minori costi del debito, minore debito – il circolo virtuoso.