Si
manifesta nel disarmo una destra ex missina che è il filo invisibile della
Seconda Repubblica. Passera viene allo scoperto, che dialogava in segreto con
Di Pietro quando era l’assistente di De Benedetti. Lo stesso Passera poi posto
da Fini a capo delle Poste. E da Napolitano a garante da destra del tecnocrate
Monti. Con i tanti giudici che si sapevano di Fini alla Procura di Milano, e a
capo di varia Procure, da Palmi a Pescara e a Firenze. Nonché in Cassazione. Con
l’asse ieri Davigo-Bongiorno sul delitto di Perugia. E innumerevoli ufficiali
superiori e generali, tra i Carabinieri e la Guardia di Finanza..
Una
destra che non ha creato nulla, pur avendo governato molto. Disseminata, litigiosa (Travaglio in lite con D’Avanzo, Storace con Fini, Fini con tutti) e tuttavia
collegata, nella politica, il giornalismo (sono stati e sono ex Msi i cronisti
principe della demolizione, nei migliori giornali, collegati all’apparato repressivo), la Funzione
Pubblica. Di ex goliardi del Fuan. Ma anche di occhiuti operatori dell’ordine
che dopo venti anni, quasi venticinque, presentano un paese in disordine, e a
sentire loro ingovernabile. Succede quando la storia non fa giustizia.
sabato 28 marzo 2015
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (240)
Giuseppe Leuzzi
Va il papa Francesco a Napoli e fa il
napoletano. Da subito, si traveste in pochi minuti. Ma ai napoletani la
macchietta piace, il cardinale Sepe – per la verità di Caserta – ci guazza.
Nell’evocazione che Felice Cavallaro è riuscito
a proporre sul “Corriere deal sera” delle donne attive e decisive quaranta e
trent’anni fa a Palermo contro i Riina - le Battaglia, Giuliana Saladino, Lina
Colajanni, Rosanna Pirajno - il nome di Simona Mafai esce come Mafia. Ci è nemico
anche il proto - è nel dna del giornale, delle sue macchine, che al Sud c’è
solo mafia?
Come capogruppo del Pci al Comune di Palermo
dal 1980, Simona Mafai aveva impegnato il partito principalmente nella lotta
alla mafia, negli appalti e nella Pubblica Amministrazione.
Il Sud è
diverso
Nel racconto di Borges dallo stesso titolo, “il
Sud” è “lasciarsi semplicemente vivere”. Al protagonista che ci arriva in treno
“tutto era vasto, però nello stesso tempo era intimo e, in qualche modo
segreto”. “Diverso” è “anche il treno”: “La distanza e le ore lo avevano trasfigurato”.
Un altro mondo: “La solitudine era perfetta e alquanto ostile, Dahlmann poté
sospettare che viaggiava al passato e non solo al Sud”. Il Sud è anche
passatista (questo è discutibile: è solo indifeso, aperto a ogni contagio). Alla
prima tappa al Sud, provocato all’osteria, per un puntiglio di onore il
viaggiatore si fa uccidere.
Un insieme di luoghi comuni, ma suggestivi. Sinceri. È Borges che s’immagina morto in “El Sur”, di
mano meridionale, violenta – “forse il mio miglior racconto”: Borges si sognava
libero dall’intelligenza fantastica, un peón libero nella pampa.
Il
rispetto-di-sé
“Un Comune, quello di Roma, nel cui Consiglio sono ormai decenni che non
mette più piede quasi nessuna persona disinteressata, appartenente all’élite
sociale e culturale della città, desiderosa di offrire le proprie competenze,
vogliosa di impegnarsi per il bene pubblico. Niente:
da decenni quasi solo vacui politicanti di serie B, faccendieri, proprietari di
voti incapaci di parlare italiano, quando non loschi figuri candidati a un
posticino a Regina Coeli”. Non lesina Galli della Loggia sul “Corriere della sera” giovedì gli improperi contro Roma.
A che effetto? A nessun effetto: sono cose che i romani sapevano da tempo.
Lo storico non
fa eccezione, Roma è
città vituperata. Ogni giorno. Per un vezzo del “Messaggero”, che le cronache
romane dei giornali milanesi, “la Repubblica”
(si fa a Roma ma si vuole “milanese”, padana, diceva Scalfari) e il
“Corriere della sera” ripetono. Tutto il peggio vi succede, riferito a Roma: mafie,
corruttele, malasanità, abusi, sporcizia, buche. La città se ne cura ma non ne
fa un dramma, va avanti come sempre, e resta la metropoli meglio amministrata d’Italia.
Meglio cioè di Milano, l’altra metropoli italiana – la terza metropoli, Napoli,
è fuori concorso.
Galli della Loggia, storico contemporaneista,
sa che questa è la Seconda Repubblica,
quella che ha voluto fare a meno della politica, a vantaggio di giurisperiti,
banchieri d’Italia, presidenti della Repubblica per grazia divina, tecnocrati,
e altri uomini della Provvidenza, incensati dagli affaristi (i media). Lo dice
anche, indirettamente: “Del resto non è a un dipresso così dappertutto?
L’Italia del federalismo e dei «territori» non è forse, con qualche eccezione,
tutta più o meno nelle mani della marmaglia?”. Ma per farne
una colpa al Pd – di suo limitandosi allo sdegno: “Serve il lanciafiamme”.
Lo storico non fa eccezione anche perché
chiunque esca di casa a Roma la mattina lo ha già visto di suo. Dopodiché? È anche
vero che Roma spesso si avvicina al baratro napoletano: per la circolazione, la
pulizia, la criminalità. Ma sempre se ne ritrae a tempo. E resta la meglio
amministrata in Italia. Al livello delle città europee con cui si compara,
Berlino, Madrid. Ma riuscendo a venire a capo di molte difficoltà specifiche: l’enorme
estensione urbana, il tantisssimo verde, l’enorme centro storico e monumentale.
È più pulita di Milano. Ha meno buche per strada. Ruba meno: la corruzione vi è
diffusa, ma popolare e quasi democratica, egualitaria, e la sommatoria è poca
cosa. Ha scuole migliori – gli asili nido e le materne anzi di lusso. Ha una
sanità più efficiente. Perfino della Toscana, che si vanta efficientissima. Ha trasporti
pubblici insufficienti, ma sa lo stesso muoversi anche se ormai circola un’automobile
per ogni abitante. E i pochi mezzi pubblici ha più efficienti, pendolari,
metro, tram, bus. Gestisce, con tre milioni di residenti, un milione di ospiti:
politici, ecclesiastici, turisti. S’immagini una Milano con in più solo i
torpedoni dei turisti. E mantiene a ottimi livelli di qualità una vocazione
pluridisciplinare unica: è città religiosa, politica, amministrativa, universitaria,
commerciale, industriale, tecnologica.
La cosa non è rilevante per farne il
panegirico. Ha ragione anche chi se ne lamenta. La cosa si segnala perché tanta
critica e autocritica, anche cattiva, anche spropositata, non ferma la città. Cha
appunto sa cavarsela, e anche progredire – è una delle poche grandi città europee
in crescita. Come? Con la fiducia in se stessa. Cresciuta nei secoli
naturalmente, ma anche attraverso secoli
bui, di spoliazioni e abbandono, che sono stati lunghi. E pur essendo città di
meteci - oggi di abruzzesi, calabresi, umbro-marchigiani (si dice che i soli
romani antichi siano i suoi ebrei, che sono poche migliaia).
La storia c’entra, ma solo in quanto ha consolidato
il rispetto-di-sé. Un fondo di fiducia, un minimo anche, ma un substrato ineliminabile
di ogni esistenza. Il Sud “non esiste” perché sommerso dall’odio-di-sé.
Il rispetto-di-sé non è una ricetta e non è
l’opposto dell’odio-di-sé. Ma ne è l’antidoto. Non bisogna passare naturalmente
sopra a tutte le cause, siano anche non
motivate, che alimentano l’odio-di-sé, ma la sua forza demolitrice va
contrastata e lo strumento migliore non è tanto il successo o l’apologia, quanto la forza interiore – la coscienza-di-sé.
Napoli
C’è, c’è
stata, un’associazione a delinquere nel calcio: tra i dirigenti della
Juventus e un solo arbitro. Per una partita che non interessava la Juventus. Si stenta a crederlo, ma è quanto
sostengono i giudici in otto gradi di giudizio, Cassazione compresa. Poi si
scopre che sono tutti di Napoli e dintorni, la terra dei miracoli.
Di Calciopoli Moggi può dire, il maggior “colpevole”:
“Abbiamo scherzato per nove anni, il processo si è risolto nel nulla, solo
tante spese”. Nel nulla no: Narducci è procuratore capo, Beatrice in
Cassazione, un paio di giornalisti direttori, e il tenente colonnello generale.
Una sua logica la città ce l’ha: Napoli-Torino 5-0. Ma a quale partita?
Gli ultimi tre papi napoletani hanno fatto
sfracelli, Bonifacio IX, Giovanni XXIII, quello di Procida, e Paolo IV Carafa, quello del ghetto.
Rapina e inseguimento a Ottaviano. Tra i
rapinati, con concorso di pubblico via via sulla strada, e i rapinatori. L’inseguimento
si fa come al cinema, con macchine veloci, svelte, blocchi, sorpassi, deviazioni, e l’impatto finale. I ladri, che intanto
hanno ucciso uno dei due rapinati e ferito grave suo fratello, sono ricoverati per
primi in ospedale e se la caveranno.
I carabinieri intervengono all’ultimo, a
western finito, perché il piantone agli ospedali deve prendere le generalità
dei ricoverati. Ma sono carabinieri anche i rapinatori assassini..
La prima notizia dell’evento sarebbe che i
rapinatori assassini sono carabinieri dei reparti speciali. Ma niente si dice
di loro. Dei rapinati si dice invece, subito, che sono stati inquisiti,
“qualche tempo fa”, per riciclaggio. E assolti evidentemente, ma non si dice.
Lo dicono, cioè non lo dicono, i carabinieri.
Si saprà solo per caso, molto più tardi, che
uno dei carabinieri felloni, il basista locale, era stato trasferito a Chioggia
per motivi disciplinari. Certo non riciclava. O sì? Comunque non era un
camorrista. O sì? Ma non bisogna chiederlo ai carabinieri: al Sud sono una
tomba.
Si viaggia nelle periferie napoletane tra
cumuli di spazzatura. La quale però ora, da qualche tempo, viene ritirata
regolarmente. Questi sono cumuli autarchici, spontanei: la gente fa volentieri
un breve viaggio in macchina per lasciare rifiuti ingombranti non nel suo
quartiere.
È straordinaria la prosopopea della nobiltà
napoletana, tutta naturalmente antica, non recente, non degli affari, cioè
povera, diventata la cifra della città, e quindi della sua borghesia,
soprattutto quella intellettuale. In un’epoca ormai lunga quasi un secolo, a
partire dal laurismo, in cui la città è preda dei lazzari. Non per caso: la
superbia era per questo un peccato capitale.
Straordinaria è anche l’operosità del ceto
medio produttivo, anch’esso vecchio ma vivo. La costanza dell’operosità, anche
fare il piccolo ambulante a Roma, cinque ore di treno ogni giorno. L’inventiva
sempre fertile. Che viene pervicace a capo dei tanti handicap e ritardi imposti:
le mafie, la corruzione, la neghittosità. Artigiani, soprattutto dell’abbigliamento
(compresa l’ingegnosissima lavorazione à
façon da Saviano – o chi per lui – incongruamente vilipesa), cuochi,
camerieri, ristoratori, direttori d’albergo, librai, figurinai, cantori, mimi,
attori, virtuosi della finanza. Incomprimibile. Incoercibile. Napoli ce la mette
tutta per soffocarli, ma loro niente.
Da Bocchino a Di Maio, e lo stesso De
Magistris, Napoli si è specializzata a sfornare politici belli in qualche modo
e forbiti, di quelli che “bucano lo schermo”, non fanno mai niente, a
scompaiono alla prima elezione. Non se ne può fare colpa alla città, che non se
ne può difendere. Bisognerebbe instaurare delle primarie cittadine per chiunque
si proponga a parlare in nome della città, un esame d’ammissione.
C’è un porto enorme e vuoto, a Napoli.
Commissariato. Di cui la città non sa nulla e non si occupa.
leuzzi@antiit.eu
Il tradimento si vede dalla lingua
“Un uomo può cominciare a bere perché si
sente un fallito e così fallire sempre di più per il fatto che beve. È più o
meno quello che sta accadendo alla lingua inglese”. Orwell parte con uno scatto
di malumore. Non ingiustificato, per usare una brutta frase (l’affermazione
per doppia negazione): la lingua “diventa brutta e imprecisa perché i nostri
pensieri sono stupidi, ma la trascuratezza della nostra lingua ci rende più
facile avere pensieri stupidi”, la cosa è reversibile - il precetto è poi diventato morettiano,
nel senso di Nanni Moretti (in “Palombella rossa”: “Le parole sono importanti.
Chi parla male pensa male e vive male”), ma ciò non toglie.
L’argomento
non è peregrino: liberarsi dalle cattive abitudini è necessario per “pensare con più
chiarezza e pensare con chiarezza è un primo necessario passo verso il
rinnovamento della politica” (usiamo la traduzione, molto efficace, di Umberta
Masina, free online). Una polemica che Pasolini, viene da pensare, abvrebbe radicalizzato in Italia negli anni 1970. Ma, a ben guardare, su presupposti e con effetti diversi. Non fuori da- e a difesa della politica, ma dentro la politica, a fini di partito. Che è ciò che Orwell depreca.
Orwell scriveva nel 1946, vittima del patriottismo dei vincitori, di bassa lega, e di un ideologismo all’epoca tanto acceso quanto settario, fazioso, e quindi vuoto. L’italiano di oggi è stretto fra tre linguaggi tutti egualmente deteriori: il “mercatismo”, roba da latte alle ginocchia; il talk-showismo, il non dire nulla in bella copia traslato dai divi del cinema e del pallone alla politica – e alle scuole di scrittura; l’inestetismo e la vaghezza della prosa giudiziaria imperante, dei giudici e i loro cronisti – non si capisce mai se uno è colpevole o è vittima, e di che cosa, le imputazioni assommano spesso a centinaia di pagine, migliaia perfino, e gli atti fino a centomila pagine e oltre. Mettiamo che il linguaggio si sia deteriorato, soprattutto in politica, per l’assalto dei fascio comunisti, ma poi il fascio comunismo – l’ubriacatura, la Seconda Repubblica - ha rotto tutto.
Orwell scriveva nel 1946, vittima del patriottismo dei vincitori, di bassa lega, e di un ideologismo all’epoca tanto acceso quanto settario, fazioso, e quindi vuoto. L’italiano di oggi è stretto fra tre linguaggi tutti egualmente deteriori: il “mercatismo”, roba da latte alle ginocchia; il talk-showismo, il non dire nulla in bella copia traslato dai divi del cinema e del pallone alla politica – e alle scuole di scrittura; l’inestetismo e la vaghezza della prosa giudiziaria imperante, dei giudici e i loro cronisti – non si capisce mai se uno è colpevole o è vittima, e di che cosa, le imputazioni assommano spesso a centinaia di pagine, migliaia perfino, e gli atti fino a centomila pagine e oltre. Mettiamo che il linguaggio si sia deteriorato, soprattutto in politica, per l’assalto dei fascio comunisti, ma poi il fascio comunismo – l’ubriacatura, la Seconda Repubblica - ha rotto tutto.
Orwell portava
cinque esempi, di autori importanti, di prosa non solo brutta – contorta,
faticosa – ma anche stantia e incomprensibile. Per l’uso incontrollato di metafore
trite, locuzioni senza significato, gerghi, politici, tecnici, scientifici,
ampollosità, costruzioni irte. Farne un calco in italiano non sarebbe
difficile.
George Orwell, Politics and the English Language, Penguin Classics, pp. 12 € 2
La
politica e la lingua inglese, a cura di Umberta Mesina, free online
http://www.archiviocaltari.it/wp-content/uploads/2012/04/orwell_it_politics-and-the-english-language4.pdf
venerdì 27 marzo 2015
Ombre - 261
La Cassazione, che aveva annullato l’assoluzione
di Knox e Sollecito per il delitto Kercher, statuisce ora che non erano colpevoli.
Un’assoluzione fa sempre piacere – anche se Meredith Kercher aveva diritto a un
po’ di giustizia. Ma è doloroso averlo saputo prima:
Il secondo aspetto, certo più marginale, è la
prostrazione, quasi fisica, dei corrispondenti italiani da Berlino davanti a
Carsten Spohr. Che può rifiutare ogni responsabilità affermando che i suoi
piloto sono i migliori del mondo. Quando ne aveva assunto uno che non aveva completato
l’addestramento perché mentalmente disturbato.
Mario Draghi , che non ha fatto nulla per
aiutare l’Italia di quanto poteva, anzi l’ha affossata con la famosa lettera dell’agosto
2011, si presenta a Montecitorio e le impartisce una lezione. Ospite di un’altra
corretta beniamina della nazione, Laura Boldrini – lei non è andata dai
gesuiti, ma solo perché era donna. Morale: merger
& acquisitions, il cuore è sempre con le banche d’affari - le imprese
sono troppo piccole, le banche troppo pletoriche, la solita lezione.
L’allenatore Mancini vuole l’italianità totale
dei giocatori della Nazionale. Ma l’allenatore della Nazionale dove li prende
22 tutti italiani? Se l’Inter, la squadra che Mancini allena, uno dei club più
grandi, non ne ha nessuno. Ha Ranocchia, è vero, ma è meglio senza.
Tour guidato in esclusiva alla Cappella Sistina
e ai Musei Vaticani, chiusi ai visitatori, privilegio raro, per 150 barboni con
i cani. Una mensa e un ricovero Caritas in più no? Che altro si deve inventare
papa Bergoglio per andare sul giornale?
Ruby è andata da Berlusconi a novembre o e\o a
dicembre. Cascano gli aerei, l’Arabia Saudita fa la guerra al’Iran, e le nostre
prime pagine sono sempre su Ruby. Chi gliel’avrebbe mai detto, meglio di
Marylin Monroe. E a novembre o a dicembre, vorremmo saperlo con esattezza.
Non solo. Ruby è andata da Berlusconi spegnendo
il cellulare. La polizia giudiziaria di Milano ha diffuso per questo
un’informativa: “In queste occasioni la ragazza usa l’accortezza di spegnere il
cellulare già in fase di avvicinamento”. Ma a quale fase sarebbe utile sapere:
che ci siamo persi?
E poi: quante “occasioni”? È importante per le
indulgenze.
Poi c’è gente che ce l’ha con la Boccassini,
che è una giudice ma tanto divertimento assicura. Altro che “Chi”.
Campione
della “fine processo mai” è Sky. Col giudice Grasso. Che però si sa, è un
giudice che se la prende comoda. Sky invece è di Murdoch, che quando non lo
condannano è perché è troppo corruttore.
“Due
buste con poco più di 2.000 euro. I carabinieri del Ros le hanno trovate
nascoste dietro alcuni volumi di una libreria. Erano soldi destinati a
Incalza”. Magro bottino per i grandi quotidiani martedì.
A Firenze il piatto piange? Sono tre giorni ormai, o quattro, senza intercettazioni.
A Firenze il piatto piange? Sono tre giorni ormai, o quattro, senza intercettazioni.
E 2.000
per ogni busta, o in tutt’e due? Perché Incalza allora sarebbe un poveretto.
Una miseria.
Allelluia
generale, unanime, di commentatori, giornali e media per Sarkozy. Che ha tenuto
testa al lepenismo, etc. Una garanzia, etc. La Francia profonda, repubblicana,
etc. Di uno che è stato ministro e presidente incapace, in politica interna (ha
creato la questione immigrazione, fino al terrorismo diffuso), e
internazionale, antitaliano, volgare –
perfino più di Berlusconi.
“Il
generale Haftar assedia Tripoli. L’Onu gli intima di fermarsi”. Ecco per chi
dobbiamo fare la guerra in Libia, per l’Is. Che infatti da Tripoli assicura:
“Tutto tranquillo”.
A un
anno o due dal referendum democratico, iperdemocratico, sacro, dell’acqua bene
pubblico inalienabile, si scopre che ce la fanno pagare il doppio di qualche
anno fa, e tre volte quanto costa oltralpe. I sindaci famelici e i loro galoppini.
Cosa che tutti sapevano, ma non si poteva dire. La corruzione effettivamente è
diffusa, molto.
Dunque
c’è il doppio binario per le indiscrezioni (intercettazioni): i berlusconiani ,
anche ex, alla gogna, gli altri rispettati. I carabinieri del Ros sono
sensibili a queste cose. Ma questo si sapeva. Il dubbio ora è: ma questi ex
berlusconiani perché non si ribellano? Sono anche ministri dell’Interno e dei
carabinieri. Ne hanno paura? Cosa ci nascondono?
L’utopia del realista Machiavelli
“Il 23 giugno 2013, quando era papa da
tre mesi – vescovo di Roma, come preferiva dire – era in programma un solenne
concerto nel’Aula Paolo VI, per l’Anno della fede… Papa Francesco non si
presentò al concerto, all’ultimo momento, adducendo «impegni improrogabili». Si
mormorò che non volesse fare incontri impropri. Si disse che pronunciasse la
frase: “«Io non sono un principe rinascimentale»”. E la conclusione è: “Se non
era vera, era benissimo trovata, nel
cinquecentenario del Principe”.
Adriano Sofri randomizza l’attualità leggendo Machiavelli. Evita di dire il
papa – un gesuita francescano, argentino – machiavellico, Ma, nel bene e nel
male, ritorna con lui al Cinquecento, secolo bello e infelice, per la chiesa, e
per l’Italia. Una riflessione malinconica. E un modo per “dare spessore” allo
squallore. Machiavelli non avrebbe potuto dire altro, né forse meglio.
Il segretario fiorentino si può leggere
come un opinionista di oggi, quello che fa l’elzeviro in prima pagina, pensoso
e elegante - l’arte più accudita, anche in queste tempi di crisi della lettura - che equanime e profondo dà un colpo di qua e uno di là. L’Italia è “guasta”,
cioè corrotta, e anche no, è “nata per risuscitare le cose morte”. Ma,
leggendolo, è qualcosa di più. Angustiato, certo, e vendicativo. E isolato - più
di un opinionista, al netto delle fedeli professoresse. Ma sempre fattuale.
Non è facile: “Il principe”, che si legge in fretta, ottanta paginette, è una
boxe violenta, i “Discorsi”, “L’arte della guerra”, le “Istorie”, le “Legazioni
e commissarie”, le “Lettere” anche, e le commedie e facezie, sono lente e
laboriose. Sofri se ne è dilettato e se ne fa accompagnare per le scorribande
nell’anno del quinto centenario del “Principe”, il 2013 - o forse il 2014, o
chissà questo 2015.
Un’evocazione prima affascinante ( la
Fortuna, cioè la sfortuna), poi invadente. Machiavelli Sofri vede non soltanto
nel papa, ma in Warren Buffett, Nazarbayev, i “figli” (Warburg, Pirelli, Sung,
Assad, etc.), Michelangelo e il David, i femminicidi, le quote rosa, l’Europa
vecchia, la razza rude di montagna (ma: i tedeschi gente di montagna?), Luigi
Zanzi, e i Mugabe, gli Afewerke, i Castro, i rivoluzionari dittatori, la
demografia, Pol Pot, i No Tav e fra Dolcino. Come una cronaca insorgente sconnessa,
su cui mette i punti, di un retroscena, un aneddoto, un accostamento. Un prontuario
dell’attualità – l’evento - in chiave machiavelliana. Una riflessione in
filigrana da evaso, o da scampato. Sul perché siamo come siamo.
Tutto corretto, nulla di obiettabile. Le
donne, per esempio, “vincono i concorsi”. Non fosse per le trecento pagine. Da
cui sempre qualcosa rimane fuori - perché, per esempio, camminiamo a due zampe.
E per il bisogno di meravigliare. La Fortuna va fottuta. Se recalcitra
picchiata: “È uno stupro. L’atto fondamentale della politica è uno stupro”. Che
detto nell’anno dei femminicidi va bene. Ma è stupro la politica, o non la non
politica, dei cronisti giudiziari, i giudici, i colonnelli dei carabinieri? Di
chi semplicemente ce ne vuole privare.
Sofri non si priva neanche di un
MacKintosh del 1984, al cui giudizio per Machiavelli “la politica è la continuazione
del sesso con altri mezzi” - mackintosh, sarà pseudonimo? E giù la storia come maschilismo
acuto. Gli esempi naturalmente non mancano – gli esempi non mancano a nessuna tesi.
Parigi Fine Secolo (fine Ottocento – Adriano avrebbe voluto coltivare anche un
Fine Novecento, ma glielo hanno impedito), folle di perversioni come già
“I promessi sposi”, Krafft-Ebing, etc. Avrebbe potuto aggiungere i sessi
plurimi di Rachilde, vigorosa anticipazione dei 53, o 57, generi sessuali ora
ufficialmente catalogati. Dopodiché libera le cateratte su ogni argomento.
Allo
specchio
Resta, in tralice, una lettura di
Machiavelli allo specchio. Della disgrazia, dell’ostracismo. Delle letture
amate, dell’innamoramento tardivo, del passeggiatore solitario per i campi e i
boschi. La malinconia è forte, e la lettura malgrado tutto lascia vigile. Sofri
è un altro che sa “cosa vuol dire avere la vita spezzata”, non successe solo a
Machiavelli. Dopodiché “vivere un tempo supplementare”. In cui mendicare un favore
dagli stessi che l’avevano torturato e ostracizzato. E altrettanto “prodigo del
suo”. Ugualmente “come suddito, repubblicano, come principe , monarchico”. A
Machiavelli “successe nel 1512, aveva 43 anni”, che i Medici lo carcerarono, lo
torturarono, lo spogliarono e lo zittirono, proibendogli di “voltolare un sasso”. Sofri
nel 1989 ne aveva 47, e non fu poi scarcerato. “Oggi il gioco sporco è molto
più sporco e vasto”, dice. È da dubitare, al tempo di Machiavelli era sporchissimo.
Ma è comprensibile, per chi è stato utopista. Però, è vero che un tempo “si
credeva alla fantasia, oggi non si crederebbe alla realtà”, l’abiezione può
essere inimmaginabile.
La Principessa del titolo è Caterina
Sforza. In realtà solo contessa, figlia naturale di Galeazzo Maria Visconti
quando ancora non si era nobilitato, con l’amante poi non sposata Lucrezia Landriani (questo
Adriano se l’è perso: il bastardo ha una marcia in più). Una contraddizione in
tema: una che si fece tre mariti – non eccezionale, tra altre incontestate
virago.
Tupak è Tupak Shakur, piccolo Cesare Borgia del Novecento, l’uomo nuovo che fece tutto a 25 anni. Compreso vendere 75 milioni di dischi, e denominarsi “Makaveli” avendo visto il film di De Niro in cui se ne parla. A 25 anni venne falciato a pistolettate. Dopo essere stato vittima di una trappola dell’Fbi – come lo erano stati sua madre, e altri delle Black Panthers (altra traccia: l’America non sarebbe piaciuta a Machiavelli?).
Tupak è Tupak Shakur, piccolo Cesare Borgia del Novecento, l’uomo nuovo che fece tutto a 25 anni. Compreso vendere 75 milioni di dischi, e denominarsi “Makaveli” avendo visto il film di De Niro in cui se ne parla. A 25 anni venne falciato a pistolettate. Dopo essere stato vittima di una trappola dell’Fbi – come lo erano stati sua madre, e altri delle Black Panthers (altra traccia: l’America non sarebbe piaciuta a Machiavelli?).
La verità fa male, al freddo (Schmitt)
come al mite (Sofri). Che però ha più giudizio. L’assunto di Sofri è semplice,
in questa epoca giudiziaria, in cui bisogna discolparsi: lo scandalo Machiavelli
non è nelle cose che dice – che tutti sanno – ma nel fatto che le dice. “Machiavelli è un traditore”, del potere, “il potere non può dire quello che
fa”, e può non fare quello che dice. Con la lettura più sobria – più vera – del
“Principe”, l’opera “più intrattabile” del poligrafo Machiavelli. Con un
riesame, da pioniere e alfiere della controinformazione, dell’informazione stessa
quale viene praticata, dilagante ma intesa
non al vero ma alla spoliazione della privatezza e anzi dell’intimità. Alla
riduzione dell’uomo allo stato animale? Peggio, l’animale ha un pudore, che
difende.
Il quinto centenario del “Principe” non
ha prodotto molte riflessioni. Ci si sarebbe aspettato il contrario, per
l’impolitica, l’impasse della politica. Sarà che il trattatello è noto, non solo
a Schmitt e Mussolini, come la teoria dello Stato, e gli Stati sono in crisi.
Ma questa non doveva essere piuttosto una buona ragione per ragionarci sopra?
No, è che non bisogna parlarne, della disintegrazione dello Stato. Della legge,
dei diritti della persona. Civili, umanitari, di genere sì, ma della persona no
– si veda il mercato delle nascite. Sofri ha capito di che si tratta.
Machiavelli se ne difendeva rivelandosi
la notte, al chiuso. Di giorno andava all’osteria, in piazza e per i campi, a
menarla come tutti. Non diceva la verità, la scriveva. Al chiuso, a beneficio
dei pochi, due o tre, non di più, Vettori, Guicciardini e un paio d’altri, di
cui poteva fidarsi. Non per altro, perché parlavano lo stesso linguaggio. E
questa è la seconda verità di Machiavelli: che non diceva la verità ma la
scriveva – il “Principe” diverrà pubblico postumo. A volte non si può dire.
L’utopista Sofri riflette a lungo, a
ogni evento, sul realista per eccellenza. Non è solo, succede con altri – con
tutti? Le “tesi politiche sulla politica” di Machiavelli restano inconcluse.
Tra il realismo di programma che porta a un impasse,
o fine della politica, e il potenziale liberatorio, che equivale a un’utopia. Come
se il realismo concludesse all’utopia, e non può essere.
Adriano Sodri, Machiavelli, Tupac e la Principessa, Sellerio, pp. 348 € 14
giovedì 26 marzo 2015
Fine processo mai
Cos’è, la Repubblica del “Processo”, un
romanzaccio alla Kafka? È la Costituente degli Sbirri? Con un presidente della
Repubblica giudice costituzionale – Supremo Giudice. Con un’opinione piena di
sé, di giornalisti elevati a censori. Di demagoghi straripanti, anche non
comici. E di comici di regime, perché no? Di un’opinione supponente. Uno legge
il “Corriere della sera” o “la Repubblica”, che più dimezzano ogni paio d’anni
le vendite più s’incarogniscono, e si dice: ben gli sta. Ci volevano reazionari,
ora ci vogliono jettatori? Ma chi si credono di essere?
C’è voluto Renzi, un politicante, anche se col
naso fino, che dicesse: “Non si fa”. Altrimenti andava avanti l’apertura della
corrispondenza, per mano di carabinieri e poliziotti. Come garanzia di
legalità. Di legalità?
Ma ci sarebbe voluta una indagine giudiziaria
per una pena superiore ai cinque anni di prigione, frignano i belli-e-buoni. Non
sanno, lo sanno tutti, che cinque anni si danno per tutto, eccetto l’assassinio
– quello può essere preterintenzionale? Mentre la carissima Autorità Garante
della Privacy balbetta: sì però, sarebbe opportuno, nel caso in cui… Per non
dare torto ai giudici, fanno presto a metterli sotto inchiesta, con
corrispondenza e tutto, per i 220 mila euro l’anno che rubano, a testa.
O la barbarie del “fine processo mai”
presentata come conquista di civiltà. Da Sky, la televisione di Murdoch – Murdoch
è uno che ha il pelo sullo stomaco alto come un grattacielo. E una conquista
pratica no? Del giudice, del procuratore, dell’inquirente: ognuno potrà ora portarsi
il processo alla pensione – uno, non due. Con beneficio del colpevole. Anche degli avvocati, locupletati
con i rinvii di udienza – “Mani Pulite dei giudici, tasche piene degli avvocati”,
era il bon mot di Giovanni Maria
Flick, all’epoca avvocato.
Uno si dice: forse è incultura. Ma le “manine” delle mani sulla corrispondenza
sono giurisperiti, alcuni sicuramente anche giudici. E sono quelli che
nascondono nelle pagine interne, a taglio basso, in breve, gli scandali a
valanga del Pd. Un partito che non può, per definizione, essere incolto. I
capipartito-capitribù, gli assessori corrotti, i segretari particolari in
affari, per conto di chi?, e l’incalcolabile ormai serie di primarie contestate
o annullate. Per “infiltrazioni” e “provocazioni”, l’armamentario degli stupidi
anni 1970 – Renzi non ha rottamato nulla.
Uno si dice allora: è stupidità. Ma non è
piacevole pensarsi in compagnia degli stupidi. Magari dei furbi sì, con qualche
accorgimento, ma con la stupidità uno ci rimette sempre – il suo primo effetto
è di farlo sentire stupido.
E poi. Guardando fuori dalla finestra, da dove
nasce tanta barbarie? All’improvviso, in un paese di antica civiltà? Quanta
merda inesauribile produce questa seconda Repubblica, di cronisti giudiziari e
giudici felloni? L’intercettazione della corrispondenza era opera di giudici e
giornalisti, mica dei primi delinquenti che capitano.
Un papa cristiano
Praticamente inedito in Italia (uscì nel 1968,
nella raccolta “Uomini in tempi oscuri” mai ristampata), il ritratto del papa
buono è la recensione sulla “New York Review of Books” nel 1965 del “Giornale
dell’anima”, il diario del papa da poco defunto, tradotto per la McGraw-Hill da
Dorothy White. Col contorno di gustosi aneddoti sul papa al momento del
trapasso, raccolti a Roma sembrerebbe dalla stessa filosofa, o allora dalla sua
amica Mary McCarthy, che nella capitale aveva eletto residenza. Nulla di
eccezionale, e tuttavia un giudizio eccezionalmente acuto, per una non cristiana
poi (“difficilmente un incontro potrebbe apparire più improbabile”, Paolo
Costa), sulla “santità” di papa Giovanni. Già in vita, e da sempre. Per la
fede. Un pegno professato da ragazzo e mai abiurato. Hannah Arrendt ha voluto
recensirne il diario, “nulla di eccezionale”, per il fascino della religiosità “autentica”
di papa Giovanni.
Umiltà? Sì, ma concludendo nel “tremendo orgoglio e
la fiducia in se stesso” del papa santo: “La statura di quest’uomo può essere abbassata
solo se si omette l’elemento dello scandalo”. Degli “«scandali» che essa
innocentemente causò”. Un’esperienza unica perché il personaggio era irripetibile.
Col papa argentino la chiesa ha rinnovato la scelta di sessant’anni prima, del
papa “di provvisoria transizione”, come Giovanni XXIII scriveva di se stesso, e
per non sbagliare buon pastore. Ma la differenza è significativa. L’elezione a
sorpresa di papa Giovanni – nota “Il giornale dell’anima” e Arendt sottolinea –
fu un’avventura per la chiesa, e come un tentativo di riscatto. Riuscito in
parte, se ancora dopo cinquecento anni la chiesa vive di rimessa, si direbbe al
gioco del calcio, “in risposta a” (il protestantesimo, il modernismo, la
desacralizzazione, le ideologie, il sessismo), e non per virtù propria. Non per
la fede.
Il titolo originale è meno provocatorio, o parodistico:
“Angelo Giuseppe Roncalli: un cristiano sulla cattedra di san Pietro dal 1955
al 1963”. Leggibile online in inglese, qui
è tradotto e prefato da Paolo Costa, il filosofo della Fondazione Bruno
Kessler. Fine studioso di Hannah Arendt, Costa ne dà pregni punti di
riferimento. Perché un papa tra gli “uomini oscuri”, i compagni d’elezione della
sua vita intellettuale: Rosa Luxemburg, Brecht, Benjamin, Karen Blixen? E Perché
un “non intellettuale”? Per la “individualità esemplare” DEL PAPA, eccezionale,
mai addomesticata, ma sempre corretta. E Per “la sua” propria “convinzione che,
con la fine della tradizione, le residue possibilità di illuminazione di una
realtà oscura si celino soprattutto nei «frammenti di pensiero»,… e in alcune
esistenze autentiche”. Autentica è parola di Costa, ma è il senso della vita di
Giovanni XXIII che affascina Arendt: checché l’autenticità sia, gergo
haideggeriano, qui è una fede fedele. Nel caso di Angelo Roncalli un’immedesimazione
totale nel Cristo.
Con una reprimenda arendtiana agli atei, “sciocchi
che pensasno di sapere ciò che nessun uomo può sapere”. E una difesa - sull’autorità
apocrifa di papa Giovanni - del “Vicario”, il dramma protorevisinista, e quasi
negazionista, di Rolf Hochhuth che allora impazzava, purtroppo anche tra gli
ebrei – l’Olocausto come colpa di Pio XII, della chiesa romana..
Hannah Arendt, Il papa cristiano, Edb, pp. 45 € 5
mercoledì 25 marzo 2015
Il mondo com'è (210)
astolfo
Berlino - “Matrigna
delle città russe”, la dice Nabokov - come di tutto l’Est.
Bisognerebbe conoscere la Russia,
anche per capirne la tristezza.
Guerre civili europee
– Non
c’è altro continente che ne abbia combattuto, e ne combatta, tante. Sarà
effetto della densità della popolazione, ci pestiamo i piedi?. Ma anche l’Asia,
benché spaziosa, è densamente popolata. Sarà
l’effetto dell’istinto competitivo? Ma c’è di più competitivo che gli
americani, o i cinesi? Sarà un dato caratteriale, un fondo di violenza innato,
come la lingua. Alimentato magari dall’inbreeding,
non tanto fisiologico quanto culturale: il culto dell’ombelico.
La
storia di questi ultimi vent’anni dopo la caduta del Muro sarà stata una storia
di infamie, un segmento speciale e diffuso. La Jugoslavia per prima, con dieci
anni, poco meno, di guerre civili, volute, innescate, e armate dall’Europa.
Subito poi l’Ucraina. Per volere di personaggi poco qualificati, Sarkozy,
Angela Merkel, i polacchi senza nome.
Si
dice l’anarchia conseguente alla mancanza di leadership, la Germania rifiutandosi di esercitarla. In realtà la
esercita, ma al modo di Angela Merkel, “troppo poco troppo tardi”, cioè sempre il
peggio.
Femminicidio – Già Aristotele
lo sconsigliava, dice Machiavelli nei “Discorsi”, Libro Terzo, XXVI (“Come per cagione di femine si
rovina uno stato”), 10: “Aristotile, intra le prime cause che mette de la
rovina de’ tiranni, è lo avere ingiuriato altri per conto delle donne, co
sturarle, o con violarle, o con rompere i matrimoni”.
Più
“di questa parte”, minaccioso, Machiavelli dice di aver detto al capitolo sulle
congiure. Ma al cap. VI dello stesso libro (“Delle congiure”) non ne ha
parlato, giusto per dire che “l’onore delle donne” viene subito dopo quello del
sovrano.
Machiavellismo – Machiavelli non
fu machiavellico, si sa: non all’origine dell’aggettivo - e neppure, da qualche
tempo, più imputato. Fu arma protestante contro le potenze cattoliche. Machiavellica?
I protestanti non avevano letto – non ne è rimasto commento – Machiavelli.
Di
Innocent Gentillet, calvinista, non è rimastra traccia. E di Federico il Grande
di Prussia, del suo “Anti-Machiavelli” – molto lavorato anche da Voltaire, il “negro”
del sovrano - la lettura si ripropone come esemplare del “machiavellismo”.
Non
si pratica molto da qualche tempo in Italia, nemmeno come offesa. Leopardi ha
un “machiavellismo di società”, ma non ha fatto presa. Fu esercitazione di
scrittori cattolici, Campanella compreso, nel secondo Cinquecento, che dello
scrittore Machiavelli temevano il fondo materialista.
Pluralismo – Hannah
Arendt elaborò il concetto in chiave di democrazia di base, di allargamento
della democrazia. Una valvola di sviluppo della libertà politica e dell’uguaglianza
sociale. Una forma di “inclusione dell’altro”. Che però non riteneva favorita
né garantita dalla istituzioni costituzionali, dalla democrazia rappresentativa.
Un pluralismo efficace sarebbe venuto, argomentava, con i consigli e ogni altra
forma di democrazia diretta.
Norberto
Bobbio lo ha introdotto in Italia riducendolo all’alternanza di governo. Nel
solco giolittiano dell’allargamento sociale del potere. Ma sostanzialmente un
tributo al Pci, che poteva essere “diverso”, nel “compromesso
storico” con la Dc. Solo obiettava alla pretesa comunista di “egemonia”. Non culturale,
che in fondo accettava, ma politica.
Tunisia – È un caso di
involuzione borghese. Non eccezionale: tutte le “primavere arabe” sono a vari
livelli un’automutilazione delle borghesie – urbane, professionali,
commerciali. Ma quella tunisina più di tutte, e anzi totalmente.
“La
Tunisia si presenta” campeggia a Roma a piazza Venezia sul Vittoriale: una
mostra per dire la modernità e la simpatia del piccolo paese. Che fu tra i
primi paesi colonizzati ad arrivare all’indipendenza nel 1956, con il movimento
indipendentista moderato Neo Destur. Con una modesta rendita petrolifera, ma
con una larga classe dirigente, dei Nouira, dei Mestiri, dei Gannouchi, e una
leadership, dei Burghiba-Ben Ammar. Molto legato all’Europa. All’apertura del Ramadan, il mese del digiuno, Burghiba, presidente
laico, diceva una preghiera e spiegava che chi lavora può bere, e se necessario
nutrirsi anche durante il giorno. Nel mentre che restaurava le grandi moschee di
Kairuan, al centro del paese.
Un
paese povero ma dignitoso, e organizzato.
Protagonista di una politica mediterranea dell’Europa che fu quasi un “allargamento”
al Sud – fu la prova generale, sfortunata, di quello che si sarebbe poi realizzato
trent’anni dopo a Est. Con una
produzione agrumicola e olearia integrata a quella europea, siculo-calabrese. I
suoi ebrei non disturbavano. Gli investimenti stranieri erano benvenuti, nel
turismo, nell’immobiliare, nell’agroindustria. I tunisini emigrati erano modesti
e laboriosi, e ovunque bene accetti, da Mazara del Vallo alla Bretagna. Un
paese del Terzo mondo che tra i primi avrebbe potuto approdare al benessere.
Col turismo, la pulizia, la socievolezza, e anche un principio di
industrializzazione. La lavorazione per terzi, di pelletteria e abbigliamento
debuttò in Tunisia, prima che in Marocco, in Romania e Turchia.
Il
fondamentalismo religioso è arrivato per reazione, di un nazionalismo male
inteso, come antitesi all’Occidente, all’Europa confinante. Di una reazione,
però, borghese – non classista, non di popolo. Altrove è un episodio della
democratizzazione: delle masse popolari che si sostituiscono, al seguito di
demagoghi, al costituzionalismo, cioè
alla borghesia urbana. Dall’Iran via via all’Egitto di Morsi. In Tunisia è stato
un inviluppo interno alla borghesia, per un’autocoscienza male intesa.
Il
velo, scomparso per decenni dalle città, è stato reintrodotto dalle giovani
universitarie. Delle grandi famiglie, i Mestiri, i Ghannouchi – Yusra, la
figlie prediletta del patriarca Rashid, ne è l’alfiere. Così come l’abbandono
del bilinguismo, a favore del’arabofonia: è stato voluto dai giovani colti,
affluenti. Tutto naturalmemte con l’ambizione di domare l’islam. D’instaurare una
“democrazia islamica” all’insegna delle democrazie cristiane europee. Un po’
come con Erdogan in Turchia: un corpaccione politico di centro. Ma senza la
capacità di potere e di controllo.
Ucraina – Suona a Santa
Cecilia a Roma il pianista Alexander Romanovski. Giovane, applaudito, triste. È
ucraino, russo. Si capisce come l’Europa “democratica” abbia rovinato un
popolo, milioni di vite, diecine di milioni di vite. Per niente, non c’è
nemmeno niente da rubare in Ucraina. Per stupidità. Si vorrebbe dire per
malvagità, ma non c’è nemmeno quella. Angela Merkel non è malvagia. Obama lo è?
no. O Donald Tusk, o come si chiama l’imperdibile polacco che sempre ci mette
nel sacco.
Al
programma di sala che gli sottopone il “questionario di Proust”, alla domanda “La
sua idea dell’infelicità?”, l’infelice Romanovsky risponde: “Vivere una guerra
circondata da tante menzogne come oggi succede in Ucraina”. Altro che libertà.
astolfo@antiit.eu
Cesare Borgia era Cavour
Althusser legge Machiavelli come già Rousseau:
legge“Il principe” alla luce dei “Discorsi”, repubblicani. Il “radicamento del
principe nel popolo per il gioco delle leggi è la condizione assoluta della durata dello Stato e della sua potenza, cioè della sua capacità d’ ingrandirsi”. E ci trova “la politica” - se non
proprio “le leggi e le regole oggettive della politica” che diceva Croce – che invece
non trovava in Marx. Ha scoperto Machiavelli reduce dalla critica alla “tesi
aberrante” della “autonomia del politico”, e nel mentre che trovava in Marx e
Engels un altro “limite assoluto”, la loro “incapacità a pensare «la politica»”.
Rousseau, lamentando anche
lui di Machiavelli che “questo politico profondo non ha avuto fin qui che lettori superficiali o corrotti”,
stabiliva: “Fingendo di dare lezioni ai Re, ne ha date di grandi al popolo. Il «Principe»
di Machiavelli è il libro dei Repubblicani”. Con l’esempio di Roma, aggiunge
Althusser, “la repubblica fondata dai re” – “è qui ciò che ha fatto credere agli
Enciclopedisti, a Rousseau, a Foscolo e agli altri ideologi del Risorgimento
che Machiavelli era repubblicano”: il che è vero, ma di una repubblica diversa,
che è Roma. E d’altra parte “i «Discorsi» non parlano di altro rispetto al «Principe»:
parlano della stessa cosa”». Di come
può nascere e prosperare l’Italia. Con l’esempio della Francia, riferimento
costante del “Principe”, e della Spagna.
Un Machiavelli insomma rivoluzionario, seppure mascherato. Lettura non nuova – Chabod fra i tanti l’aveva appena detto, “un’esplosione rivoluzionaria”, o un secolo prima Quinet, che l’ultimo capitolo del “Principe”, della serva Italia, eleggeva a “Marsigliese del sedicesimo secolo”. Ma con novità di sostanza. Il “principe nuovo” non è Cesare Borgia. “Quando Machiavelli scrisse «Il principe», nel 1513, Cesare è sparito dalla scena italiana da sette anni, e alla lettera non resta niente della sua opera. Niente altro che il suo esempio”. Machiavelli ne fa un identikit, che Althusser traccia punto per punto. E questi punti, si può aggiungere, corrispondono a un’identità precisa: il principe nuovo di Machiavelli sarà Cavour. Ma con mezzi non molto diversi. Solo in linea, tre secoli e mezzo dopo, con gli Stati costituzionali.
Un Machiavelli insomma rivoluzionario, seppure mascherato. Lettura non nuova – Chabod fra i tanti l’aveva appena detto, “un’esplosione rivoluzionaria”, o un secolo prima Quinet, che l’ultimo capitolo del “Principe”, della serva Italia, eleggeva a “Marsigliese del sedicesimo secolo”. Ma con novità di sostanza. Il “principe nuovo” non è Cesare Borgia. “Quando Machiavelli scrisse «Il principe», nel 1513, Cesare è sparito dalla scena italiana da sette anni, e alla lettera non resta niente della sua opera. Niente altro che il suo esempio”. Machiavelli ne fa un identikit, che Althusser traccia punto per punto. E questi punti, si può aggiungere, corrispondono a un’identità precisa: il principe nuovo di Machiavelli sarà Cavour. Ma con mezzi non molto diversi. Solo in linea, tre secoli e mezzo dopo, con gli Stati costituzionali.
Non è un accostamento furbastro. Althusser non si
ricorda di Cavour, ma cita lungamente Hegel, che “Sulla costituzione della
Germania”, 1802, fa un elogio sperticato di Machiavelli profeta e
scienziato dello Stato, della costituzione patriottica – “Sulla costituzione
della Germania” si apre con la frase famosa: “Deutschland ist kein Staat mehr”, la Germania non è più uno Stato. Per
il resto la disamina di Althusser è coincidente punto per punto. Il principe deve avere un esercito, Cavour ce l’aveva. Deve provvedersi di “ausiliari”,
e Cavour ebbe Garibaldi. Usare l’astuzia, Cavour ne fu maestro. Cavour non ebbe
la religione, che Machiavelli vuole necessaria al consenso del popolo, e questo
fu un male, per l’Italia cavouriana o liberale, e per quella successiva, fascista
e repubblicana. La “virtù” di Machiavelli Althusser dice il successo. Di questo
Cavour fu sempre conscio, attento infaticabile tessitore, anche nelle sconfitte, e al gioco di negare l’intrigo e di farsi temere intrigante: “essere temuto e
non essere odiato”, dice Machiavelli – belle pagine, da ultimo, Althusser
dedica a questa ambivalenza.
Il
libro segreto
Questo è il libro segreto di Althusser.
Che scrisse e riscrisse per almeno un decennio, dal 1962 al 1972, spogliandosi
del gergo del Diamat, e senza parlarne con i compagni, senza il parere dei
quali per solito non filosofava. Che lascerà però inedito, salvo una sintesi di
19 pagine, “Solitude de Machiavel”, datata 1 luglio 1985. L’edizione francese
ha una introduzione circostanziata di Etienne Balibar, l’italianista dell’università
di California Irvine, suo inalterabile compagno di ortodossia marxista (continua
a leggere Lenin come Platone e Kant), e suo esercitatore principe. E a seguire due
saggi di François Matheron, curatore testamentario di fatto di Althusser, e suo traghettatore in questo interminabile day after, “Althusser
et l’insituabilité de la politique” e “La recurrence du vide chez Louis
Althusser”.
Una passione sbocciata in Romagna, in un
viaggio di lavoro-vacanza nei mesi estivi del 1961, ospite a Bertinoro di
Franca Madonia, sua traduttrice. Francese d’Algeria, cattolico, allievo di Jean
Guitton, Althusser era cresciuto preparato a decrittare Machiavelli. Anche se gli
rimarrà, come a tutti, “un enigma”. Su Machiavelli tenne poi il corso 1962 alla
École Normale Supérieure, e pubblicò un saggio, “Solitude de Machiavel”. Un scoperta
che lo accompagnerà nel turbolento prosieguo della vita e nella riflessione,
quasi testimone segreto. Aiutandolo nella scoperta della “politica”,
introvabile in Marx, di cui era l’esegeta. Balibar testimonia che “lo scarto
degli stili e delle problematiche è propriamente abissale” con la saggistica
marxista che negli stessi anni andava pubblicando.
Il problema con Machiavelli, esordisce il
filosofo di Marx, è sempre come lo disse De Sanctis, che “ti colpisce all’improvviso
e ti fa pensoso”. Che è “avvincente” e “inafferrabile”, Etienne Balibar
sintetizza così nella prefazione il suo, e quello del suo amico Althusser,
concetto – “Se è chiaro che siamo costantemente
davanti a un pensiero teorico di grande rigore, il punto centrale in cui
teoricamente tutto si lega sfugge interminabilmente alla ricerca” (citando da uno scritto minore questa riflessione, Matheron
ipotizza una identificazione di Althusser in Machiavelli, accomunati dal “salto
nel vuoto teorico” di cui il filosofo marxista fa merito al segretario
fiorentino, egli stesso concludendo la sua esperienza nel 1982 col “vuoto che è la
filosofia stessa”, e quattro anni più tardi col vuoto come “categoria centrale
di ogni filosofia”, la scienza incerta e peregrina). Si spiegano così i “fulminati”, tanti:
Leo Strauss, Merleau-Ponty e Croce prima di Althusser, e Gramsci, Marx, Hegel,
Rousseau, Montesquieu, perfino Spinoza (“verum
index sui et falsi”). E gli indifferenti: Carl Schmitt, Bobbio, Arendt –
contrari molti, per il “machiavellismo”, da Bodin a Kant.
Il
filosofo del fare
Lui ne fa, dopo un primo rifiuto, subito
successivo alla scoperta nel 1961, un filosofo. Un politico certamente. Il “libretto”,
l’“opuscolo”, “appena 80 pagine”, rileva del “Principe” con meraviglia, venendo
dai malloppi della ermeneutica marxiana, ma testo “chiaro, denso, vigoroso e appassionato”, un “atto politico”. E alla fine anche un filosofo.
Accreditandogli un “dispositivo teorico” innovatore: quello della “spazio
teorico” elaborato duplicemente, come “pura teoria” e come “pratica politica”.
Metodologia e dottrina di Machiavelli Althusser
sintetizza apocrifamente in “è male non chiamare il male un male”. Arrivando
per questa via a decostruire anticipatamente la “scienza politica”: non le
regole universali applicare all’analisi particolare, ma le stesse regole
sottoporre alle esigenze del fare. Un’elaborazione di cui Machiavelli ebbe piena
coscienza, nell’introduzione ai “Discorsi”: “Mi sono determinato ad aprire una
strada nuova”, ritenendo “più conveniente andare drieto alla verità
effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”. Niente di meno, spiega Althusser,
che “una teoria generale delle leggi della
storia”: vedere le cose nella loro effettività, e scoprirne le “leggi”. Senza
rifarsi, aggiunge, come tutti ad Aristotele, all’ipse dixit. Mancanza tanto più strana per un classicista. Al più, nota
Althusser, si rifà a Polibio, la disamina istituzionale ancorando agli eventi.
E non concepisce un contratto sociale – Althusser vuole precisarlo, senza
nominare Rousseau, fervido machiavelliano, giusto per differenziarsene. Le specificità – la “congiuntura” – non sono
dei dati da sottoporre al vaglio della teoria, e divengono forze reali e virtuose
nella lotta per l’obiettivo storico.
La conclusione sarebbe dunque che
Machiavelli non è un filosofo ma un uomo d’azione. Ma il suo retroterra teorico
Althusser valuta cospicuo. Analizzando “Il principe”, il filosofo di Marx
perverrà agli “scarti”, le aporie e divaricazioni che costituiranno il punto
ancora vivo della sua filosofia politica. Tra la teoria e la pratica. Tra il
principe e il popolo, “che si presuppongono sempre ma non si identificano mai”
(Balibar) - il che comporterebbe “la fine della politica”. Tra le realtà
istituzionali e sociali e l’astuzia del politico (“parafrasando Weber”, scrive
Althusser, “si potrebbe dire che il potere del Principe riposa sul monopolio
dell’astuzia legittima”). Tra la “congiuntura” rivoluzionaria e l’indeterminazione
del tempo, il luogo, gli agenti del suo realizzarsi pratico.
Ma il libro segreto si legge soprattutto
come una confessione indiretta: un testo autoreferenziale e autocritico. Una
sorta di “Machiavelli e io”, dice Balibar. Anche se l’“autonomia del politico”
gli resta indigesta, ancora tra le rovine.
Louis Althusser, Machiavelli e noi, manifesto libri, remainders, pp. 168 € 6,50
Machiavel et nous, Tallandier, pp. 235 € 10
martedì 24 marzo 2015
Secondi pensieri - 211
zeulig
Ariani – Sono la cattiva coscienza
della filologia. Dell’Europa anche, di una certa Europa, ma della sua
filologia. La filosofia , compreso l’ “antropologo” Kant per molti aspetti
sollazzevole, se ne tenne lontana – lontana dagli “aria”.
Una
cattiva coscienza anche duratura. Basata sulle affinità linguistiche tra popoli
geograficamente sparsi. Che si vollero unificare nell’indo-europeo, “popolo di signori”. Una radice
e un popolo – una “razza” - che non si trovano. Per evitare le comuni radici
semitiche e mediorientali – mesopotamiche. Come solo onesti filologi isolati,
quali Semeraro, e ora il protostorico Demoule (“Mais où sont passés les
Indo-Européenes”?) osano contestare, e la negletta, semplicissima,
incontestabile “Black Athena” di Martin Bernal.
L’ariano o indo-europeo (più spesso indo-germanico) s’impone con la “storia della Grecia”. La quale nasce nel 1840, quando la filologia
critica interruppe il filone della storia provvidenziale e se ne fece giudice,
libera quindi d’inventare l’“arianesimo”. Che l’università Georgia Augusta di
Gottinga, appositamente creata, veniva elaborando da un secolo. Con l’ausilio di Oxford, con
seguito di letterati e pensatori, gli stessi Coleridge e Carlyle, spinti dalla
romantica riscossa contro la democrazia ugualitaria della Rivoluzione - a lungo
fondò la latinità l’ambizione repubblicana di uguaglianza, la grecità la
protezione dell’individuo. A un certo punto, dice il modello “ariano” della
storia greca, dal Nord arrivano gli elleni, parlanti indo-europeo, e soggiogano
la cultura egea.
Rinata
dopo la disfatta nel ‘18 a centro meritorio della fisica, con la meccanica
quantististica di Heisenberg, Pauli, von Neumann, Oppenheimer e Born, Gottinga
è stata per due secoli la culla della storia
eretta a scienza grazie all’invenzione della filologia. Con gli “ariani” e
la Grecia fu tedesca pure Roma, la letteratura romanza, la storia, la chimica,
la filosofia. Incluso il Giordano Bruno italiano, riportato in vita quattro
volte nel solo Ottocento, da Adolf Wagner, Lagarde, Lasson, Kühlenbeck – dopo
essere stato salvato ai posteri dai re di Francia e d’Inghilterra.
Nel 1770 Blumenthal aveva imposto la prima
graduatoria delle razze, inventando il caucasico. Winckelmann la Grecia delle
statue patinate quale ideale di bellezza. Tra il 1820 e il 1840 Karl Otfried
Müller, il filologo di Gottinga, dà significato culturale e politico alla
storia “antica moderna”, con la scoperta dei dori. Era la filologia dei primati
– di Ariano vero c’è solo il santo a Venezia, all’isola dei Morti.
Complotto - Quando
Kotzebue fu ucciso da Carl Sand i governi della Sant’Alleanza ne approfittarono
per liberarsi degli ultimi liberali, anche se ne erano stati aiutati nelle
guerre contro Napoleone e la Francia. Lo scrittore Kotzebue, benché antiromantico,
antinapoleonico e antirivoluzionario, non era una spia. Lo studente Sand
invece, benché liberale, era un fanatico. Non bisogna esagerare coi progetti
della storia.
Diario - È ordine: disciplina la
memoria, riscontra il modo di essere. Ma in solitudine. Non in dialogo cioè, in
conversazione, poiché prevalentemente e parlare di se a se stessi. Anche nel
mondo iperconnesso, è un piccolo esercizio di esibizionismo, immune alla
critica.
Esilio – Quello “autentico”, o
radicale, è da se stessi. Anche se non si è emigrati, cioè, non fisicamente.
Non da un paese all’altro, e quindi da una lingua a un’altra. E nemmeno come
emigrati dell’interno, quindi fruitori della stessa lingua, tra Nord e Sud, tra
campagna e città.
La nozione di
esilio implica un punto di origine, un radicamento - la patria, la regione, la
città, una natura, un clima, un linguaggio. E la mentalità, il portamento, gli
usi alimentari, la festa, il riposo, il ritmo di lavoro. .
È in subordine, in
potenza, un ritorno: una possibilità di ritorno, sia pure in forma di esorcismo,
per diminuire la violenza del distacco quando si è deciso comunque di recidere
il cordone ombelicale.
Si può rifiutare
il legame, o trascurarlo, o dimenticarlo, ma allora si è esiliati dall’esilio:
si interrompe il legame pur tenue che l’esilio comporta. Inclusa l’esperienza
di emigrato interno – dove anzi più facile è il distacco e il rifiuto, per esempio
dei meridionali che sono leghisti antimeridionali.
Lingua – È il cordone ombelicale dell’esistenza.
Si vede nell’esistenza travagliata dell’emigrazione, interna ed esterna. Il dialetto
in chi emigra da capo a capo dello stesso paese, e la diversità di toni,
cadenze, pronuncia – chiusa o aperta, sonora o afona, etc. – e le parole stese,
a volte intraducibili, nell’uso della lingua nazionale. La lingua d’origine per i transfrontalieri,
anche nelle forme private e privatissime dell’uso familiare. La telefonia
cellulare ha irrobustito il legame, gli ha dato sfogo: si vede nelle peggiori
condizioni, anche nell’indigenza, la
possibilità di usare la parola di origine viene prima di ogni altra esigenza, di
un rifugio, di un pasto. “La parole riportano tutto” dell’origine: il luogo, la
gente, la vita, le strade, la luce, il cielo, i fiori, i rumori”, nota la
scrittrice Jhumpa Lahiri (“In altre parole”, p. 97), avendo deciso di lasciare
la sua lingua, l’inglese, per l’italiano, e le innumerevoli pieghe del
significato. È un fatto d’identità, naturalmente, e anche di ossigenazione: “Quando si vive senza la propria lingua ci si
sente senza peso e, allo stesso tempo, sovraccarichi. Si respira un diverso tipo
di aria, a una diversa altitudine”.
È la lingua che fa
la differenza, più che la fisionomia, il normotipo. La mentalità vi si esprime,
la memoria, e la propria ragione di vita, anche se con un movimento riflesso,
retrogrado, invece che proiettato su un programma e un futuro.
Gli studiosi dell’emigrazione
ci arrivano per esempio Andreina De Clementi, che si rifanno alla
corrispondenza, allora non esistevano i telefonini, per quanto sintetica,
lenta, spaziatissima, e sgrammaticata, ripetitiva, rituale per lo più, più
spesso per interposto scrivano, di grafia e formule fatte,di giovani e non giovani
figli e coniugi del secondo Ottocento e primo Novecento.
I sogni non hanno
voce. La lingua non si dice ma è nota, tutto scorre significativamente. La lingua
è un patrimonio acquisito e condiviso, di significati, la certificazione vocale non è necessaria.
zeulgi@antiit.eu
La metamorfosi di Jhumpa, italiana al risveglio
Una prova di autocreazione – di
reincarnazione assistita. Una metamorfosi, dice l’autrice. Scrittrice di qualità
e successo in inglese, moglie e madre appagata, Jumpha Lahiri decide a 45 anni
di vivere a Roma e pensare e scrivere in italiano. Senza altra ragione che una
fascinazione fuggevole in una visita lampo con la sorella a Firenze, quando
aveva 27 anni. “In altre parole” è la
prova della reincarnazione riuscita. Un miracolo, di cui fa partecipe con una
prosa asciutta e in ogni parola pregna.
Un
libro che si è venuto scrivendo giorno per giorno, dopo un primo anno di
disorientamento, e pubblicato in brevi capitoli su “Internazionale”. Come un
puerperio. Con momenti difficili, di scoraggiamento, angoscia – di “straniamento”,
“disincanto” – ma nel complesso gioioso, poiché c’è il lieto fine. Di una
lingua che lei stessa dice “covata”.
Non è il primo caso, ma i precedenti illustri
sono diversi. Joyce stesso aveva provato per qualche anno a scrivere in
italiano, ma poté “fare Joyce” solo in inglese. Beckett era da tempo in larga misura francesizzato,
quando decise di scrivere in francese. Lo stesso per Conrad – che comunque ha
sempre avuto problemi – con l’inglese. Nabokov era cresciuto con l’inglese,
ogni famiglia di russi colti aveva una seconda lingua. Lahiri è nata in una
famiglia bengali emigrata da Calcutta negli Usa, nella cui lingua è stata
cresciuta nell’infanzia, che però non padroneggia, l’inglese era la sua lingua.
Nella quale si è formata e ha scritto, prevalentemente narrativa, riconosciuta e apprezzata, dalla critica e dai
lettori. Ha voluto il cambiamento per una sua decisione. Non da ribelle. Scrittrice
anzi classica, di buoni sentimenti, dell’integrazione possibile tra mondi
diversi – è suo “Il destino del nome”, il racconto delle due generazioni
bengali tra India e Usa da cui Mira Nair ha tratto il film una diecina d’anni
fa. La decisione è stata una scelta, non un capriccio o un salto di umore. L’esito
è per più di motivo una pietra miliare.
È la storia di un amore, di una lingua.
Ma di più sarà un trattato di linguistica. Cioè non un trattato, un esperimento
in corpore – questa è la reazione di
un’esperienza. Con più di una novità sulla maternità glottologica: l’inseminazione,
la gestazione, il puerperio, il primo nutrimento. Un test-case di come si entra nella lingua: Non per imprinting, ma
come uscendo dal nido, dall’uovo. Né per apprendimento, come “si impara una lingua”,
ma per immersione. Affascinante. “Un progetto talmente arduo che sembra sadico”,
“un’impresa folle”, riflette l’autrice, e tuttavia un atto di coraggio. L’inculturazione,
anche, di cui tanto si blatera per le nostre società polietniche, è questa
rinascita.
Un esperimento personale naturalmente, una sfida
a se stessa, alla propria creatività. Troppo nuovo, e anche troppo denso, pur
nella sua brevità. E un racconto sui
generis. Aggraziato, di metafore semplici, evocative e familiari.
La scelta di un’altra lingua, in età
matura, senza alcuna costrizione e anzi a dispetto di condizioni di partenza
vantaggiose, è una novità assoluta. È un rifacimento di sé, un remake. Come nuotare in mare aperto, a
un certo punto Jhumpa Lahiri ha questa impressione, rifiutando per giunta l’acqua
che la sorreggerebbe, l’inglese con cui è crescita e di cui è specialista. Ma la
traversata è ben governata, con quadranti e timoni. A suo sostegno si possono portare
i pareri di Carlo Cattaneo e Karl Marx, che l’India assomigliavano all’Italia (un’identificazione
di cui si può leggere a:
http://www.antiit.com/2014/07/il-mondo-come-182.html).
Autorevoli, anche se nessuno dei due sapeva nulla dell’India, e Marx niente neppure
dell’Italia.
Jhumpa Lahiri, In altre parole, Guanda, pp. 156 € 14