Giuseppe Leuzzi
La
chiesa si riprende le processioni
C’era del marcio nelle processioni in Calabria.
Il vescovo di Capo Vaticano (Mileto-Tropea-Nicotera), mons. Luigi Renzo, ha
emanato un regolamento con cui avoca alla parrocchie la scelta dei
collaboratori, escludendo l’ingerenza delle “istituzioni dello Stato”. Il
vescovo si pone sul fronte antimafia, ma la vera novità del suo regolamento è
il punto D) “Adempimenti canonici e civili”: l’ingerenza dei carabinieri, “pur
nello spirito di un’opportuna e saggia collaborazione di massima, non trova
fondamento nel vigente sistema normativo dello Stato italiano”. La collaborazione
sia “di massima”. Finalmente c’è qualcosa, in Italia, che si tiene distante
dalle caserme.
Il vescovo Renzo condanna le mafie,
naturalmente. Ma invita alle processioni, avviandosi la stagione con la
Settimana Santa. In quanto al passato, si limita a condannare “andazzi impropri”.
Esclude dalle processioni chi sia stato condannato, ma “senza prima aver dato
segni pubblici di pentimento e di ravvedimento”. E proibisce le soste “davanti
a case o persone”, salvo “ospedali, case di cura, ammalati”. Come prima, cioè,
del divieto.
Ravvedimento tardivo? È possibile, i vescovi
sono conservatori. Anche se l’“operazione Tresilico”, che avviò l’abolizione
delle processioni, preannunciata e rivendicata su facebook, col video degli “inchini”
preconfezionato su youtube, non si nascondeva. L’attenzione quest’anno è stata spostata da
Tresilico a Sant’Onofrio, ma senza thrill
– se non quello del san Giovannino che fa trovare alla Madonna il suo
figlio risorto.
Il Sud
dopo la povertà
C’è abbondanza nella povertà del Sud.
Guadagnata nei secoli con applicazione e fatica, ma da tempo ora trascurata.
Usata, al meglio, come una rendita, a esaurimento. Sia quella accumulata col
sudore, sia quella spontanea, naturale – il mare, la luce, l’aria, la tradizione.
Raramente, quasi mai messa a capitale: rinnovata, adeguata, a valore aggiunto
accresciuto. Gli ulivi centenari del Salento trascurati e ora moribondi non
sono un’eccezione. Si girava per il Sud fino a un paio di generazioni fa
nell’abbondanza nella natura. Coltivata per decenni e secoli con applicazione
minuziosa, tignosa, infaticabile, messa a frutto in ogni più remoto angolo,
anche in estensioni minime, l’orto di casa, un costone, un terrapieno. Di
coltivazioni sempre curate, di ulivi, vigneti, agrumeti, frutteti, castagneti, mandorleti,
ortaggi, granaglie, tabacco, essenze, arnie. Ora le coltivazioni sono trascurate
e anche abbandonate.
Sono abbandonate le vigne in costa, altrove pregiatissime,
da cui si traevano i vini più robusti e gustosi. Abbandonati o trascurati i
frutteti e i castagneti. Ridotti e sempre più invecchiati gli agrumeti. E ora
anche gli uliveti. L’artigianato e la piccola industria di trasformazione,
primaria o anche finale, disinveste, oppure si adagia su materie prime d’importazione:
marroni dal Piemonte e mandorle dalla Romania la dolciaria, olio tunisino
l’olearia, miele balcanico, castagne slovene, perfino agrumi spagnoli da contrabbandare
a km. zero.
E ancora, benché fraudolenta e masochista,
questa è un’attitudine fattiva, operativa. Ma residuale, non più diffusa. Diffuso
è il disimpegno. Segno che non c’è la necessità: il problema del Sud è che non
c’è più il bisogno. Da tempo, diciamo quarant’anni. Da quando il Sud non cresce
più. Le statistiche nascondono la verità contabilizzando solo il reddito monetario.
Da qui l’immagine del Sud straccione e bisognoso. Ma il Sud che sopravvive con
metà del reddito della Lombardia non ha evidentemente gli stimoli a fare di più
e industriarsi che ha la Lombardia. Questo non per un dato caratteriale o di
tradizione, sono sciocchezze – il meridionale trapiantato sa essere ferocemente
“lombardo”, eccome. Per vari handicap infrastrutturali sì, ma non in misura decisiva
– le mafie, la corruzione, le comunicazioni. Il fattore decisivo è l’assenza
del bisogno, che può essere letale per i nuovi abbienti, per chi arriva dopo
generazioni a un comodo standard di vita.
La misura del ritardo del Sud non è il reddito
ma lo standard di vita. Il Sud è prevalentemente non urbano. E nelle aree non
urbane anche un redito modesto può essere sufficiente. Una pensione sociale o
d’invalidità, un numero di giorni lavorati minimo, anche senza contributi
sociali. È difficile “trovare lavoro” al Sud nel senso di dare lavoro:
giornalieri agricoli o domestici, specialisti agricoli (vignaiuoli, terrazzieri,
potatori, sterratori…), anche occupati di lungo periodo in costanza di rapporto
– l’assenteismo predomina. Tra gli stessi autonomi, prestatori d’opera-artigiani (muratore,
pittore, idraulico, meccanico, falegname, carrozziere…), la scelta prevale del
tempo libero sugli impegni.
Il Sud è
uscito dalla povertà, e non pensa a entrare nella ricchezza, se non per i modesti segni
della prima abbondanza: l’abbigliamento, la festa, la gita, il suv. Che può permettersi
con redditoridotto avendo ammortizzato la spesa per la casa, e con un costo della vita
dimezzato per l’alimentare e la prima necessità. Non pensa a migliorare il
prodotto e a produrre di più. Anzi produce di meno, pro capite e in assoluto,
se si leva dal computo del reddito la funzione pubblica, in stipendi, pensioni
e contributi.
È allo stato un’ipotesi. Ma è una “cosa vista”,
un “fatto”, che si riscontra ovunque, quotidianamente. Terreni fertili
estesamente abbandonati o non curati. Servizi mai migliorati e più spesso
deteriorati. E comunque di offerta sempre carente, dalla sanità alla piccola
meccanica. Lo stesso avviene con la cultura e l’arte: il Sud si è
alfabetizzato, e non va oltre. Lo stesso con la socialità: il Sud ha i servizi
igienici in casa e non si cura del fuori porta - i vicini, l’ambiente, la
spazzatura. O con la sanità: il Sud viene comunque curato, e non si cura di
migliorare la prestazione a parità di costo, o a ridurlo.
Milano
Si rubano mezza Expo, piloti suicidi ammazzano
i bambini, i paesi arabi fanno la guerra all’Iran, e Milano sforna
intercettazioni e intercettazioni di Ruby. Anche di mancate intercettazioni –
Ruby è quella di Berlusconi. Lo squallore non vi ha misura.
È la città degli untori - la colpa è sempre
degli altri. Berlusconi, infatti, non è milanese.
Un processo a tutti i testimoni della difesa è
barbarie che non ha precedenti. Che Milano invece celebra in allegria, smettendo
perfino il cipiglio cattivo.
A opera di giudici napoletani, è vero, è sempre
putipù e triccheballacche. Di cui la città però si avvale – benché servi, li
tratta anzi molto bene. Anche di giudici valtellinesi, di parrocchia.
La verità è che al processo i testimoni sono
stati sicuramente comprati. Non tutti, le donne - anche se non tutte, alcune. Ma
al mercato con la giustizia.
A Milano il dilemma è insolubile, se viene
prima la giustizia oppure la corruzione.
Molte stragi a Milano, solo quella
di Riina è stata punita.
Si sono sempre fatte stragi
impunemente a Milano. La città è contagiosa.
Dopo Milano, l’Expo andrà a Astana.
Astana?
Non ci vorrà molto, nel 2017. In
teoria se ne fa una ogni cinque ani, in pratica un’Expo non si rifiuta a
nessuno. Astana però gioca in Champions, mentre Milano no.
È, dovrebbe essere, la città di Leonardo. Venti
e più anni di ingegnerie, architetture, pitture, anche musiche e scenografie.
Di cui le tracce non si sono perdute, malgrado le svendite e i ladroneggi. Ma
la città non lo sa – c’è nel logo dell’Expo e niente più. Parigi invece se ne
fa un’attrazione e ne celebra il culto, dove passò solo tre anni, gli ultimi, e
poco produttivi. Non per difetto di senso commerciale, che anzi ha elevato, è che
Milano ha la memoria corta.
Gerardo Braggiotti, celebrato genio della
finanza ambrosiana, ha appioppato a Rcs una “sola” spagnola, la Recoletos, per
1,1 miliardi. Sui quali il gruppo del “Corriere della sera” ha registrato
perdite in due anni per 846 milioni. Col raddoppio del debito. Un affare
difficile da concepire.
Ora che si vorrebbe Braggiotti in consiglio
d’amministrazione, i giornalisti protestano. Ma non dicono, non se lo chiedono
neanche, a favore di chi il bidone è stato giocato. Il management Rcs non è
nuovo a spolpare l’azienda: di tutte le gestioni degli ultimi venticinque anni
sono un paio non ne hanno approfittato. Ma Milano sempre è compassionevole con
se stessa.
“La mattina dei funerali di suo padre”, ricorda
su “Panorama” Costanza Rizzacasa d’Orsogna a Stefano Cagliari, figlio di Gabriele,
il presidente dell’Eni suicida in carcere nell’estate del 1993, “venne trovato
morto Raul Gardini (a palazzo Belgioioso). Davanti a Palazzo Belgioioso, dove
si era radunata una piccola fola, qualcuno gridò ad Antonio Di Pietro: «Bene,
vai avanti così»”. È sempre una città di untori.
“Dopo”, ricorda Stefano Cagliari, “mi
riferirono che in chiesa, al funerale, tanti avevano fischiato”. Uno che non
aveva rubato nulla – lo tenevano in carcere per indurlo ad accusare in qualche
modo Craxi. Però, che impegno, perdere una mattina per andare in chiesa a
fischiare un morto innocente. Sembra una trama di Bontempelli, l’autore della
“Vita operosa”. Lombardo – ma lui da “quel ramo del lago di Como” veniva (era
quasi svizzero).
leuzzi@antiit.eu