Testimonianze e discorsi sulla
Resistenza, a partire dal 1955 e fino alla fine, in gran parte inediti in libro.
Un omaggio a Bobbio, curato da Piero Polito, direttore del Centro studi Piero Gobetti, uno degli ultimi suoi
allievi e curatore di molte sue opere, con Pina Impagliazzo. Ma con un paio di
verità che il gossip politico non può manomettere. “La Resistenza
è stata un fenomeno complesso”, 1966. E: “Le radici della Repubblica sono tutte
nella Resistenza”, 1970. Anche il terrorismo, avrebbe potuto aggiungere dieci
anni dopo, la guerriglia urbana - il gappismo, “esemplare”.
Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini, Einaudi, pp. XI-161 € 12
sabato 25 aprile 2015
Secondi pensieri - 215
zeulig
Amore – È bellezza, e viceversa. È
la bellezza del tutto: è in questa identificazione che sorge il desiderio.
L’amore fisico può essere attrazione di un ceto
canone di bellezza. Ma non definito, e non risolutivo, altre sono le forme di attrazione: l’intelligenza,
lo sguardo, la voce, il portamento, lo humour, la passione, la tristezza, la
letizia, la generosità. Tutto ciò che fa il mondo: è bello ciò che innamora, e
l’amore è del bello – del mondo, del creato. Si può rileggere la letteratura
intorno alle forme dell’amore, da Omero a Joyce, a Pound, allo stesso Proust ,
e si troverà questo rapporto costante, nelle metafore, le similitudini, le
aggettivazioni, gli attributi.
È il motivo per cui l’amore non può essere che
eterno: caduco ma non condizionato. È questa identificazione il fondamento del
matrimonio, prima che la procreazione – che può peraltro farsi come un semplice
fatto tecnico.
Corpo – È materia. E la materia non
può peccare - la materia è per definizione passiva, il peccato è esercizio di
volontà. Si può anzi dire la materia effetto incondizionato della volontà di
Dio.
Ciò contrasta con la pratica del peccato, che
si identifica col corpo quasi esclusivamente. E allora il concetto di peccato
rasenta la bestemmia – la coltiva, se ne sostanzia?
È oggetto a partire dal primo Maggio di una tre
giorni di studio e festa all’Eremo di Fonte Avellana, al centro dell’Appennino tosco-marchigiano:
“Nel cuore del corpo: estasi, parole, passioni”. Con relazioni, reading e performance, di autori, attori e danzatori. Tra i relatori lo
stesso priore di Fonte Avellana, Gianni Giacomelli. Tema dell’“incontro” è: se
l’Io è anzitutto un essere corporeo, come scrive Freud, parlare del corpo per
parlare dell’Io. Trasgressione doppia?
L’eremo, che Dante voleva “disposto a sola
latria” (“Paradiso”, XXI, 111), è dei camaldolesi. Ordine da qualche tempo di
frontiera della chiesa, nel dialogo tra le fedi, etc. Si apre un dialogo con il corpo?
Laicismo
–
“L’idea laica, in sé, è del tutto falsa”, argomenta Simone Weil nelle “Forme
dell’amore implicito di Dio”. A meno che non si tatti di combattere “una
religione totalitaria”, quali ce ne sono state, e ce ne sono, “la separazione
fra istituzioni civili e vita religiosa sarà un delitto”.
Matrimonio
– È
naturale e non convenzionale, contrariamente all’opinione corrente. È implicito
nella natura dell’amore, che è riconoscimento reciproco prima che promessa. E
per ogni membro della copia un’immedesimazione col senso (la bellezza) del
creato. Simone Weil ne fa a freddo – prototipo della single – la filosofia più conclusiva (“Forme dell’amore implicito di
Dio”, in “Attesa di Dio”): “L’obbligo del matrimonio, oggi tanto spesso
considerato una semplice convenzione sociale, è implicito nella natura stessa
del pensiero umano, data l’affinità tra amore fisico e bellezza. Tutto ciò che
ha un qualche rapporto con la bellezza deve essere sottratto al corso del
tempo. La bellezza è l’eternità in questo mondo”.
Necessità
– È
espressione dell’incertezza, e forse del vuoto – del timore del vuoto, che è lo
stesso. Una chiusura delle prospettive di vaghezza, di scelta multiple
inesauribili. Puntuale, temporanea, non risolutiva, nella partenogenesi interminabile
dell’universo.
“La domanda di Beaumarchais: «Perché queste
cose e non altre?»”, argomenta Simone Weil (“Forme implicite dell’amore di
Dio”, in “Attesa di dio”), “non ha mai risposta perché l’universo è privo di
finalità. L’assenza di finalità è il segno della necessità. Le cose hanno
cause, non fini. Coloro che credono di scorgere cause particolari della
Provvidenza assomigliano a quei professori che, a spese di una bella poesia, si
mettono a fare ciò che essi chiamano commento del testo”.
Beaumarchais è Figaro, al terzo atto del
“Matrimonio”: “O bizzarra serie di avvenimenti! Com’è successo? Perché queste
cose e non altre?” Per concludere, uno “costretto a percorrere la strada in cui
sono entrato senza saperlo”: “Tutto ho visto, tutto fatto, tutto usato” – l’usato
che usa, o “fare di necessità virtù”.
Partito – Ha riempito per molti
pensatori, nel Novecento, l’orrore del vuoto. Da Sartre a Althusser, a Colletti
e Negri, allo stesso Heidegger. La categoria dell’ “impegno” politico, analoga
alla carità delle opere di carità: coinvolgenti e esaustive, fine a se stesse. Del
vuoto che però sarebbe per gli stessi l’esercizio filosofico.
Vuoto – È la filosofia secondo
Althusser, un campo di esercitazione in cui non succede niente, e niente
realmente muta. Il che non è vero – è materialmente
(chimicamente, fisiologicamente) impossibile: il più trascurabile pensiero
è un evento e un trauma. E come ciò che non è possibile nel mondo fisico (l’aristotelico
“la naura aborrisce il vuoto” non è realmente contestato) sarebbe possibile in quello psichico, così
produttivistico, ben più di quello fisico? Althusser arrivava al vuoto del
pensiero sul presupposto di un “inizio assoluto”, avendo ridotto il suo Marx,
come tanti, a un escatologo praticone, del paradiso di qua. E di un “processo
senza soggetto” – il soggetto doveva essere collettivo, la classe ( il vuoto
sarebbe dunque la classe?).
Singolare è che Althusser proponeva a prototipo
di pensatore nel e del vuoto Machiavelli – nel corposo “Machiavel et nous”.
François Matheron, che del filosofo è una sorta di esecutore testamentario, lo
rileva in “La recurrence du vide chez Louis Althusser”: “Il testo di «Machiavel
et nous” è letteralmente invaso dal vuoto: vuoto della congiuntura italiana, e
senza dubbio in filigrana vuoto di ogni congiuntura; vuoto del soggetto
chiamato dalla teoria a riempire il vuoto della congiuntura; vuoto inscritto al
cuore di ogni analisi della congiuntura; vuoto prodotto nella teoria dal semplice
fatto di pensare in termini di congiuntura; «salto nel vuoto teorico» effettuato da Machiavelli”. Dallo scrittore e
pensatore per antonomasia “realista”, perfino pratico.
zeulig@antiit.eu
venerdì 24 aprile 2015
L’emigrazione ignota
Tanta
buona volontà, forse, tante chiacchiere sicuramente, e tanta superficialità. Un
flusso di immigrati-quasi-profughi sicuramente gestibile dall’Europa, due-trecentomila
l’anno su una popolazione di 500 milioni. Senza bisogno di tante tragedie nel
Mediterraneo, con centinaia di morti annegati ogni pochi giorni.
Questa immigrazione sarebbe gestibile anche agevolmente. Se solo ci fosse la volontà di
sapere. Il flusso è in gran parte per ricongiungimenti familiari. Che l’Europa
può e deve regolare, e anche facilitare. A costi e condizioni umane, semplici:
se l’immigrato ha un’attività, per quanto povera, ha diritto ad avere con sé la
famiglia - con un visto magari gratutio, e un volo magari prezzo ridotto. Una regolarizzazione sgonfierebbe subito il fenomeno.
Degli altri va
accertato lo status di rifugiato, di profugo politico. Che ora tutti adducono
quale passaporto d’ammissione. Se vengono cioè da paesi dittatoriali o in
guerra civile. La maggior parte di quelli che s’incontrano a Roma o Milano
vengono dal Senegal e dal Ghana, dove non ci sono situazioni di emergenza, e
rafforzano il mercato degli ambulanti e dell’accattonaggio. In passato venivano
da profughi i nigeriani, con regolari permessi, per gestire impunemente la
prostituzione e lo spaccio. Un mercato che ha una logistica: per il trasporto,
l’alloggio, l’operatività.
Poi c’è
l’organizzazione. Che non è lo scafista. Quello è uno degli ultimi ingranaggi. Il mercato è sicuramente schiavistico, basato
anche sul disprezzo degli arabi per gli africani neri. Ma richiede
organizzazione e implica molti soldi. Bisogna procurare le imbarcazioni. Di un
certo tipo – imbarcazioni a perdere. Bisogna procurarsi in Libia – e prima
anche in Tunisia e perfino in Turchia – posti di raccolta e di imbarco
protetti. C’è da gestire un flusso consistente di denaro, in uscita e in
entrata. Con ingenti controassicurazioni per gli scafisti, che ora vanno incontro al carcere.
Non un
continente inesplorabile: sapere chi sono questi immigrati di forza non è
difficile, poiché la frontiera è il mare. Il clandestino in realtà non lo è, è
lì per farsi prendere, non per nascondersi. Se non ha documenti, o non li
produce, è perché è di quelli, ci sono anche quelli, che hanno disegni non
accettabili: che fuggono la famiglia, che fuggono la legge, che vanno a riforzare la delinquenza o il terrorismo - oppure per il malinteso senso di difesa. Prevale invece l’inerzia,
l’ignoranza, la bugia a volte. Anche degli immigrati, che però hanno il diritto
di difendersi. Sì, perché l’Europa, e non solo Salvini, li considera invasori.
Prevale
in Europa, e non fa meraviglia, questa è l’Europa dei piccoli interessi. Ma
prevale anche in Italia, che pure è il paese di frontiera. Non ne sanno niente
le procure, e questo non meraviglia, le Procure sono lì per questo, per non
sapere (lavorare). Ma le tante polizie? I tanti servizi segreti? Hanno perso il
fiuto?
L’accoglienza è un business
Tanta
buona volontà, forse, tante chiacchiere sicuramente, e tanta superficialità. All’insegna
del piccolo business. Un’emergenza che dura da venticinque anni, gestita all’insegna
della carità, che solo si preoccupa di avere “più risorse”, meglio se europee. All’insegna
del “salviamo le vite umane”. Dopodiché niente più interessa: chi sono queste
masse, da dove vengono, che cosa realmente fuggono, quali prospettive si pongono:
il terzo settore non sa, non chiede, non ascolta, gli basta gestire i 30 o 40
euro al giorno dell’accoglienza per ogni immigrato.
Frutto
di incapacità, forse. Il terzo settore è pieno di buona volontà ma con un
personale per molti aspetti di scarto – il terzo settore funziona esso stesso
da recupero psicologico e sociale. Dagli orizzonti limitati. Tipo quelli che
“Mafia Capitale” ha illustrati, ma che sono generali, e noti a tutti: il terzo
settore vive della carità pubblica. Della gestione della carità pubblica, un
piccolo business. Compresa l’accoglienza. Che tanto piccolo business non è, è
anzi la stella del terzo settore, più dell’assistenza ai tossicodipendenti o di
quella ai senzatetto. È così che la questione si risolve con appelli alla Ue.
Cioè ad avere più soldi da Bruxelles.
La tragedia ilare della Resistenza
“Il partigiano Johnny”, il romanzone che
Fenoglio non si decideva a licenziare e Gabriele Pedullà ha pubblicato l’anno
scorso, 500 pagine, “celebrava” la Resistenza, seppure sempre con occhio limpido.
“Il libro di Johnny” ora, 800 pagine,
consacra la saga del combattente poi resistente, di Roma e delle Langhe, dei
garibaldini e dei badogliani (non) uniti nella lotta, dei romantici e degli
avventurieri, riprendendo, per la cura sempre di Pedullà, il “progetto”
iniziale del ciclo della Resistenza, poi frammentato in varie pubblicazioni, o
abbandonato. Ma la narrazione più viva, in termini di testimonianza, della
Resistenza di Fenoglio è in questa prima raccolta di racconti. Che, come sempre
per questo scrittore, si fece tra continui cambiamenti, sette anni dopo i
fatti, di scritture e riscritture.
Presentando
“Il libro di Johnny” Pedullà suggerisce di leggere questi racconti come una
“satira eroicomica” – in senso etimologico evidentemente: non cattiva ma piena
di cose. Come la Resistenza è stata: una ilaro-tragedia. Un’esperienza
multipla, di spensieratezza, paure, (dis-)organizzazione, disciplina e
indisciplina, morte, debolezze, tradimenti, rivissuta cioè in chiave personale,
senza le coordinate storico-politiche. Che tuttavia fu decisiva anche per i
grandi disegni, i destini, la patria.
Questa
Resistenza di Fenoglio si meritò l’interesse di Calvino e Vittorini, ma non
senza dubbi e censure. Vittorini, che ne fu l’editore-redattore sollecito,
presentò la raccolta in termini molto convinti. Come “racconti pieni di fatti”,
quali sono, e di “penetrazione psicologica tutta oggettiva”. Di un esordiente
che diceva “asciutto, esatto”. Con “un gusto barbarico che persiste come gusto
di vita”, ma con “un temperamento di narratore crudo ma senza ostentazione,
senza compiacenze di stile”.
Da
americanista emerito, Vittorini era il più indicato ad apprezzare Fenoglio.
Salvo rimangiarsi l’apprezzamento due anni dopo: pubblicò “La malora”,
tentativo di romanzo non resistenziale, borghese, dicendolo “forse più bello”
del primo, ma acculando Fenoglio al piccolo provincialismo. Ai “provinciali del
naturalismo, i Faldella, i Remiglio Zena: con gli «spaccati», e le «fette»”
della vita, con lo stesso “modo artificiosamente spigliato in cui si
esprimevano a furia di afrodisiaci dialettali”. Lo stesso “più bello”
intendendo in senso evidentemente antifrastico.
Era successo
che “L’Unità” aveva stroncato Fenoglio. “L’Unità” di Milano, che Davide Lajolo
dirigeva, un Pci puro e duro, nonché
langarolo che si voleva anche lui narratore, in concorrenza coi conterranei
Pavese e Fenoglio. “L’Unità” di Lajolo aveva stroncato la scrittura e l’onestà
dell’esordiente. Con un monito agli editori, come il Pci usava: “Pubblicare e
diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà,
significa sovvertire i valori umani distruggere quel senso di dirittura e
onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto”.
Vittorini
non si era sottratto. È per questo che la storia della Resistenza ancora si
deve fare, dopo settant’anni: troppe incrostazioni, troppi non detti. E non più
per paura o conformismo, il Pci non c’è più. È che nella Resistenza c’erano
veleni, che tre generazioni dopo ancora sono attivi.
Beppe Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba
Recessione - 34
0,3, poi
0,5, ora 0,7, Renzi e Padoan esultano: il pil torna a crescere. Ma l’Italia
viene ultima in Europa, dietro anche la Grecia fallimentare.
Il fatturato
dell’industria torna a salire nel primo trimestre, ma sull’ultimo trimestre del
2014. Mentre resta inferiore ali fatturati di dodici mesi prima.
Il
fatturato dell’industria torna a salire nel primo trimestre solo grazie alla
produzione del gruppo Fiat – del relativo successo dei modelli derivati dalla
500..
I
consumi rimangono al livello di dodici mesi prima, con incrementi
infinitesimali. Malgrado il forte rialzo delle vendite (molto scontate) di automobili:
più 32,6 per cento a febbraio rispetto a dodici mesi prima.
Il
governo vanta a marzo un aumento dell’occupazione per 92 mila unità. Ma gli
occupati sono ancora 100 mila in meno rispetto a sette mesi prima, settembre
2914.
I nuovi
posti di lavoro non incidono sul tasso di disoccupazione, che resta al 12,7 per
cento.
giovedì 23 aprile 2015
Letture - 212
letterautore
Confessione – Paul de Man,
prendendo a esempio Rousseau, mostra che la confessione d’autore è impossibile,
e dice perché. Analizzando l’aneddoto di Marion e del nastro rubato (che Rousseau
aveva rubato, incolpandone poi Marion, una ragazza che come lui serviva in casa
de Vercellis a Torino), nella prima parte delle “Confessioni”, de Man distingue
fra confessione e scusa: “Confessare è superare la colpa e la vergogna nel nome
della verità. È un uso epistemologico del linguaggio in cui i valori etici di
bene e male sono sostituiti dai valori di vero e falso”, scrive de Man al cap. “Scuse
(Confessioni)” in “Allegorie della lettura”. Ma l’autore che si confessa in
pubblico non s’impone di ristabilire la verità quanto di assolversi.
De Man, il padre della “scuola decostruzionista di Yale”, che
verrà alle cronache dopo morto per la sua biografia (collaborazionista in
guerra, antisemita, bigamo, spergiuro, padre assente e, pare, anche ladro), era
stato diffidente del genere autobiografia, come si legge nel saggio “Autobiography
as De-facement”, in quanto supponente, oltre che necessariamente falso – artificioso, costruito. Esteticamente, “nulla
di comparabile alla tragedia, l’epica, la lirica”. E in sé “piuttosto indecente
e autoindulgente”, incompatibile “con la monumentale dignità dei valori estetici”.
Downton Abbey – Il serial è
tutto nelle “Confessioni” di Rousseau, al libro Secondo, tra la signora de
Warens e la contessa di Vercelli. L’aneddoto con cui finisce l’occupazione ancillare
del giovanissimo Rousseau in casa della nobile torinese sembra un episodio di “Downton
Abbey”: rimasto senza impiego e senza buonuscita alla morte repentina della
contessa, ruba “un piccolo nastro color rosa e argento, ormai vecchio”, e incolpa
del furto Marion, “una giovane moriennese” da poco cuoca, “bella”, di “una freschezza
di colorito quale non si torva che in montagna”, e sopratttto di “un fare modesto
e dolce grazie al quale non si poteva vederla senza volerle bene”. L’oggetto
non ha alcun valore e il furto non è un furto, ma tutti i meccanismi del serial
vi sono in funzione: si parla di furto, se ne accentua la gravità, più tra i
servi che con i padroni, e il giovane, immoralista come sono tutti i giovani,
dice la prima cosa che gli viene in mente: “Me l’ha dato Marion”, scontando
magari che Marion per questo non verrà licenziata né punita.
Francese – “Les
combattants”, brillante commedia sulla mania della “sopravvivenza” (onere già
deprecato e rifuggito quando c’era la coscrizione obbligatoria), si propone nei
cinema in italiano come “The fighters”. Insieme col depliant, e il déssert.
Lillian Hellman – Eroina o
falsaria? Si rifiutò di testimoniare alla commissione McCarthy per le Attività
Antiamericane (1947-1952), e per questo fu a lungo apprezzata dall’opinione
liberale. Anche dalla scena teatrale, che non si privò dei drammi per cui era
celebre, malgrado McCarthy l’avesse incluse nella “lista nera”, dei personaggi
da proscrivere – Hollywood invece la cancellò. Questo fino al 1980. Dicendo no
alla convocazione di McCarthy, “Lilly” Hellman aveva detto che non aveva nulla
da dire al senatore, non essendo iscritta al partito Comunista. Era sembrata un’ottima
difesa, coraggiosa e insieme onesta. Ma nel 1980 Mary McCarthy, liberale e
progressista, rovesciò la prospettiva: Lillian
Hellman era una stalinista, aveva evitato la commissione McCarthy per non essere
incriminata di spergiuro, reato grave negli Usa, ma spergiura era lo stesso. A
Mary McCarthy si aggiunse Martha Gellhorn, una delle mogli di Hemingway, per
accusarla di falso nelle sue memorie, intitolate “Pentimento”, all’italiana, per
quanto riguardava Hemingway e la guerra di Spagna. E su questa revisione “femminile”
della sua storia Hellman morì tre anni dopo.
La storia cambia, anche rapidamente.
A Mary McCarthy sarà poi addebitata la carriera accademica
prestigiosa di Paul de Man negli Usa, dopo essere stato un collaborazionista in
Belgio. La scrittrice, allora giovane romanziera in voga, bella e anche
procace, che l’illustre critico e accademico Edmund Wilson aveva voluto
impalmare, conobbe socialmente Paul de Man, “rifugiato” dal Belgio pochi anni dopo
la fine della guerra, e lo introdusse in università prestigiose. De Man sarà uno
studioso di riferimento del decostruttivismo, letterario e filosofico, negli
Stati Uniti e in Europa. Ma dopo la morte nel 1983, un anno prima di Lillian
Hellman, si saprà che era stato collaborazionista in Belgio, antisemita, bigamo,
spergiuro, e forse ladro.
Microfonare – Il teatro microfonato
è una specie di Sanremo, o un talk-show tv, meno stentoreo ma sempre ugualmente
non emotivo. L’uso di recitare in teatro col microfono lo ha singolarmente appiattito.
È come se lo avesse privato della voce, che ora mantiene la stessa sonorità in
tutte le situazioni, che il personaggio parli di fronte o di spalle, lateralmente,
a fondo scena, fuori scena. Lo ha privato della profondità, in senso spaziale, che
nella scena ha molte funzioni – non è, non era, la stessa cosa sentire una voce
al proscenio, rivolta al pubblico, oppure in fondo alla scena, magari in un “a
parte”. Ha appiattito anche le inflessioni. Una nuova tecnica di recitazione
probabilmente maturerà con la voce artificiale, ma per ora questa è solo soprammessa,
gli attori preparandosi alla vecchia scuola, della dizione ausilio elettronico.
C’è una differenza sostanziale tra il teatro microfonato e quello
che ancora fa affidamento sulla voce dell’attore. Netto è il ricordo della
prima recita microfonata, alla prima de “Il diavolo con le zinne”, di Dario Fo
e Franca Rame, il 7 agosto al teatro Vittorio Emanuele a Messina, per Taormina
Arte. Fo aveva già rinunciato ad andare in scena, e Albertazzi che lo
sostituiva sembrava lui stesso impacciato. Perfino i movimenti – c’è molta ginnastica
ne “Il diavolo”, sembravano contratti, irresoluti.
Marie Regnier – Un nome un
destino? Non c’è parentela ma Marie Régnier, coetanea e conoscente di Flaubert,
ha un catalogo analogo a quello di Marie
de Régnier, due generazioni dopo. L’una nata Serrure, sposa del dottore
R.E.Regnier, la seconda nata de Hérédia, sposa del poeta Henri de Régnier, solo
questo le distingue. E le foto. Per il resto sono una copia l’una dell’altra. Entrambe
romanziere e drammaturghe, entrambe in arte con pseudonimo maschile, Daniel
Darc e Gérard d’Houville. Entrambe con patrocinatori eccellenti, Flaubert per
la prima, Pierre Louÿs – che ne era il cognato e ne fu l’amante – per la
seconda. Entrambe con una catalogo di opere porno soft. “Le follie di
Valentina”, commedia in un atto, la prima, con “La couleuvre”, “Le peché d’une
vierge”, “Petit bréviaire du parisien”, “Voyage autour du bonheur”, “Les
Rieuses”, “Joyeuse vie. Polygamie parisienne”. Per la
seconda: “L’incostante”, “L’esclave”, “Il tempo d’amare”, “Il seduttore”, “Jeune
Fille”, “Proprette et Cochonnet”, “Esclave amoureuse”.
Le foto per cui Gérard
d’Houville si segnala sono dei nudi in quantità con cui volle farsi immortalare
da Pierre Louÿs, amante di lungo corso - da cui ebbe un figlio – che aveva
sposato sua sorella minore, Louise de Hérédia. Marie de Régnier, che morirà quasi
novantenne nel 1963, si segnala per relazioni intime in gioventù anche con D’Annunzio,
Jean de Tinan, e altri letterati, col marito intrattenendo un matrimonio
bianco.
Terrorista – Non ha buona
letteratura. Neanche un buon terrorista nella letteratura europea. A partire
dai “carbonari”, che pure la scuola santifica – a lungo li ha santificati come libertari
e patrioti. Molto se ne è scritto ma contro: Dostoevskij, Stevenson, Conrad,
Belyj, Némirovsky, Sartre, lo stesso Camus de “L’uomo in rivolta”. Non c’è un’apologia delle Br, che pure fu un
vasto fronte intellettuale: tutti si dissociano e molti (Scalzone, Battisti)
negano, perfino l’evidenza.
Anche il combattente della Resistenza trova difficoltà a
eroicizzarsi. Per la condizione esistenziale (“L’uomo in rivolta” di Camus), e
per lo svolgimento reale della stessa, al di sotto dell’impegno politico e
della retorica. Sono forme di eroismo in contrasto con i tempi, sanitarizzati,
virtuistici – magari al coperto delle stragi affaristiche (la lira, l’euro, la
Grecia).
leterautore@antiit.eu
Il Sud raddoppia le perdite
Meno 7 per cento di pil per effetto
della crisi 2007-2014 al Centro-Nord, meno 13,5 al Sud. “Le due
recessioni che hanno colpito l’economia italiana negli ultimi 6 anni hanno
interessato i diversi territori in maniera non omogenea. Nel 2008-09 il brusco
calo delle esportazioni ha avuto effetti soprattutto nel Nord Ovest e nel Nord
Est. Nel biennio 2010-2011, mentre il Centro Nord recuperava, nel Mezzogiorno
il prodotto continuava a contrarsi. Il biennio successivo, caratterizzato da
una forte flessione della domanda interna, ha visto un calo del prodotto più
forte nel Mezzogiorno: nel 2013 il pil vi risultava inferiore al livello del
2007 del 13,5 per cento, a fronte di una contrazione del 7,1 nel Centro Nord”
Il motivo è
semplice. “Su tali dinamiche ha inciso la diversa struttura economica, nel Mezzogiorno
meno aperta alle esportazioni e più dipendente dall’attività dell’operatore pubblico”.
Più precisamente: “Tra il 2007 e il 2013 il pil è diminuito del 13,5 per cento
in termini reali nelle regioni del Mezzogiorno, a fronte di cali più contenuti
nelle altre aree: poco meno di 6 punti nel Nord Ovest, poco più di 8 nel Nord
Est e nel Centro. In termini di prodotto pro capite, il divario nella dinamica
a sfavore del Mezzogiorno si riduce a circa 3 punti, per effetto di una
crescita della popolazione più contenuta al Sud”. Il Sud ha smesso anche di
fare figli.
Ma non c’è solo
la debolezza delle esportazioni, sul Sud ha pesato di più l’aggravio fiscale. “A
partire dal 2011, l’economia del Mezzogiorno ha risentito in maniera più
accentuata rispetto al Centro Nord degli effetti del consolidamento fiscale,
che hanno comportato una decisa riduzione delle spese (sia correnti, sia in
conto capitale) e un aumento del prelievo fiscale, soprattutto di quello
patrimoniale”. Sulle seconde case degli emigrati, magari fatiscenti – seconde per
modo di dire, non essendo praticamente mai abitate, ma un relitto della memoria,
inalienabile.
Non sono i soli
indici negativi. Vanno messi nel conto anche più emigrazione, più emigrazione
intellettuale, meno iscrizioni universitarie, e meno consumi. “I trasferimenti
di residenza dal Mezzogiorno verso il Centro Nord sono sensibilmente cresciuti
nel 2012, facendo registrare, rispetto al passato, un aumento della quota di migranti
con elevati livelli di istruzione”.
E “i divari
territoriali si sono ampliati anche con riferimento alle scelte di istruzione
terziaria. La flessione
nelle immatricolazioni è stata più intensa nel Mezzogiorno, soprattutto tra i giovani
appartenenti a famiglie con minori capacità di spesa. Tra quanti hanno deciso
di intraprendere il
percorso universitario, è aumentata la mobilità verso le regioni
centrosettentrionali”, etc. etc. Sessanta pagine di testo, e altrettante di grafici
e tabelle, per un pozzo senza fondo.
Banca d’Italia, L’economia delle regioni italiane, pp. 122, free online
mercoledì 22 aprile 2015
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (243)
Giuseppe Leuzzi
La
scomparsa della mafia in Sicilia
L’unico libro di mafia che manca,
fra i tanti in classifica, è proprio quello che le scalerebbe tutte, sulla
Procura di Palermo. Sul perché da venti e più anni, dopo Falcone e Borsellino,
non processa più mafiosi ma: la Polizia (Contrada) e i Carabinieri (Mori, De
Donno e altri). Cioè l’apparato repressivo, con la sua rete di informatori e
confidenti che così smantella. E lo Stato, da Andreotti a Napolitano, passando
per Mannino, Schifani, Romano, Dell’Utri, e alcuni presidenti di Regione – usa
molto il concorso esterno in associazione mafiosa senza gi associati. Sulle carriere
politiche che vi si sono innestate, con determinazione, senza mai uno scrupolo:
di Violente per l’ex Pci (il Procuratore Capo si chiamava Caselli, ma era
Violante), di Grasso e Ingroia, e ora di Gratteri per il Pd “bianco”. Sulla
grande bonaccia di mafia, a Palermo e in Sicilia.
La scomparsa - meglio: sparizione
- della mafia, bel soggetto sarebbe. Non fosse appunto per i carabinieri, i
poliziotti e i ministri. Ma non senza rimedio: si potrebbe argomentare che la mafia è lo Stato - come fa
Montalbano, eroe solo. La politica cioè, e l’apparato repressivo. Solo che: la
Procura di Palermo è anch’essa Stato, o che cosa? - a questo Camilleri non c’è arrivato.
La
processione e la fede sterile
Il lavoro fisico “costituisce un
contatto specifico con la bellezza del creato”, è opinione costante di Simone
Weil. Perciò il
“popolo” ha accesso diretto a Dio, per una fede connaturata nell’esistenza –
nella natura, nelle cose. “All’epoca in cui esisteva una civiltà popolare – di
cui noi oggi raccogliamo con il nome di folklore le briciole come fossero pezzi
da museo – il popolo aveva senza dubbio accesso a questo tesoro”, scrive la filosofa in “Attesa
di Dio”.
All’epoca in cui le processioni
non erano anatemizzate, per andare su facebook e fare l’antimafia? “Lo attesta anche la
mitologia”, prosegue Simone
Weil la
filosofa, “parente prossima del folklore, se ne analizziamo la poesia”. Cioè,
direbbe l’anatema, le superstizioni.
Bisogna sterilizzare la
religione, la fede.
Vedi
Milano e poi muori
Federico II di Svevia, il “vento
di Soave” , cioè di Svevia, del “Convivio” di Dante, non fu più lui dopo la
guerra ai lombardi.
Federico II ebbe vita facile in
Lombardia, contro i lombardi alleati del papa. A Cortenuova, Bergamo, il 27-28 novembre 1237,
li sconfisse agevolmente. La Lombardia lo snobbava e l’ha cancellato. Carlo
Cattaneo, nelle “Note”
sula Lombardia, menziona svagato una battaglia di Casarate, località
inesistente, nel 1239, contro “Federico II e i suoi arabi”. Ma agli arabi, a loro gran
sorpresa,
i lombardi avevano ceduto senza combattere il
Carroccio. E
all’imperatore i milanesi avevano offerto un patto di fedeltà perpetua.
Si favoleggiò allora di una
armata di settemila cavalieri arabi d Lucera al seguito di Federico II, e di
duemila tedeschi, cavalieri teutonici o famigli dei principi del sacro romano impero. I
duemila tedeschi
c’erano – un po’
di meno ma c’erano:
l’imperatore era di passaggio al ritorno dalla Germania E c’erano i moltissimi veneti (padovani,trevigiani, trentini, vicentini e veronesi) forniti da Ezzelino III da Padova, i ghibellini di
Cremona e Pavia, e di Modena, Parma e Reggio, e le truppe toscane di Gaboardo di Arnstein. Ma i settemila
arabi non saranno stati 700, o 70? C’erano settemila
arabi, bambini e donne compresi, a Lucera nel 1237? E
settemila cavalieri, come
immaginarli? Ma molto nemico molto onore.
È vero invece che Federico II,
dopo queste scorribande, mostrò tatti nevrotici e tirannici prima a lui sconosciuti.
Amare
la bellezza
Simone Weil, “Forme dell’amore
implicito di Dio”: “La tendenza naturale dell’anima di amare la bellezza è la
trappola più frequente di cui si serve Dio per aprirla al soffio che viene
dall’alto. È la trappola in cui cadde Core. Al profumo dei narcisi sorridevano
tutta la terra, la volta del cielo e il turgido mare. Appena la povera ragazza
tese la mano, fu presa al laccio. Era caduta nelle mani del Dio vivente. Quando
ne uscì, aveva mangiato il chicco della melagrana che la legava per sempre. Non
era più vergine; era la sposa di Dio”.
“Amare la bellezza”. Bova ancora
festeggia Core, la ragazza, di nome Persefone. La domenica delle Palme, con le
“persefoni”: una processione di grandi figure femminili di rami d’ulivo
intrecciati, su telai di canne, punteggiate di fiori, e dei gialli e rossi
degli agrumi – Bova, ricca di ulivi come tutta la Calabria, nutre agrumi
portentosi. Core-Persefone è peraltro presente tutto l’anno: un comitato cittadino
a Locri prepara la petizione, che una delegazione porterà biennalmente a
Berlino, dove non viene ricevuta, per chiedere la restituzione della grande
statua che è l’attrazione dell’Altes Museum, il museo antiquario della capitale
tedesca, e ripristinare l’antico luogo di culto. Una statua gigante, di grande
interesse anche per la simbologia, la mitologia, la linguistica. Fu tagliata a
pezzi e trafugata dalla località La Moschetta (mesquita) nel 1911 da trafficanti tedeschi. Che poi la vendettero
allo Stato Prussiano a caro prezzo. Legalmente, si dice, allora si potevano
“esportare” i beni culturali, seppure non a pezzi e di nascosto. Ma in
contanti: il museo non ha alcuna pezza giustificativa dell’acquisto.
Corrado Alvaro racconta il
trafugamento in “Mastrangelina”.
La
mafia arriva col Piemonte
L’esercizio non usa più, ma
furono molte e fantasiose ai tempi di Sciascia le scorribande di mafia.
Dell’origine della parola. Metà erano nell’arabo. Che nessuno conosceva, ma la
Sicilia già allora teneva molto al dominio arabo. Gli arabisti, interpellati, non seppero proporre niente di
meglio
che Mu Afah, forza e protezione, Maha, cava di pietra, Ma Afir, la stirpe saracena che prese
Palermo, e Mahias, presuntuoso. Sciascia virò allora sulla Spagna, dicendo che Manzoni, leggendo “Don Chisciotte” in spagnolo e annotando su un quaderno i termini ancora vivi nel
dialetto milanese,
trascrisse anche “mafia”. Ma, forse, Sciascia insinuava che la mafia
era milanese, poiché nel
“Chisciotte” non si trova, e il quaderno nemmeno. Da ultimo Sciascia la trovò a
Firenze nel Cinquecento, con la doppia alla fiorentina, sinonimo di “povertà,
miseria”, nelle “Lettere di cortigiane del secolo XVI”. Ma nelle “Lettere” non c’è. C’è invece, con
la doppia, come voce gergale, e nel significato di miseria, nel Tommaseo – “mi dolgono i tommasei”, diceva
Manzoni degli importuni, anche non
riferito al facondo fedelissimo.
Nell’Ottocento mafia è in Piemonte: mafiun sta per “uomo piccino, gretto,
meschino”. Il “Nuovo dizionario siciliano-italiano” (1876-1881) del barone Vincenzo
Mortillaro la dice di origine piemontese, importata con l’unità, e l’apparenta a camorra. Qualche anno prima
del barone, nel 1868,
anche il Traina, nel suo dizionario siciliano-italiano, considerava “mafioso”
un neologismo postunitario, “per indicare azione, parola o altro di
chi vuole fare il
bravo” – il bravo alla Manzoni.
Di origine piemontese potrebbe
essere pure il termine cosca, dalle “bande di barabba”, o “coche”, che
proliferavano nel secondo Ottocento a Torino. Lo ricorda Gaetano Mosca, nel sempre
ottimo “Che cos’è la mafia”, 1900, in senso diminutivo - nulla al confronto con
la mafia siciliana: “La cosca mafiosa ha una saldezza di compagine, una forza
d’azione e soprattutto una vitalità infinitamente superiori a quella della
cosca barabbesca”.
leuzzi@antiit.eu
Gli scrittori meglio usa e getta
La letteratura del Duemila è, nell’ordine:
Michele Serra, Piccolo, Fabio Fazio, Crozza, Littizzetto, Severgnini, i
vignettisti in blocco, Antonella Cilento, Michele Mari, Wu Ming, Andrea Vitali,
Paolo Giordano, Scurati, Gipi (poesia a fumetti), Roberto Vecchioni, candidato
al Nobel, e altri cantautori, la tv-verità, “Braccialetti rossi”, WhatsApp, con
rimando a Ezra Pound, anche a Joyce, e a Apollinaire, e a Derrida (saggetto
molto “alto”, qui Paolo Costa, pluricontributore divertito più degli altri,
esagera), Amazon, i blog, google e il big data, google Italia, le librerie bar, il digitale e l’editoria fai
da te (una vera ricerca, questa, di Laura Cerutti, molto precisa, aggiornata),
l’e-book, il diritto d’autore, il kindle, la distribuzione congiunta
Messaggerie-Feltrinelli, “la retorica
della commozione” per invitare a “una presa di coscienza sulla condizione
omosessuale”, e il calo delle vendite, forse non dovuto alla crisi
economica. Con la fame nel mondo naturalmente – aggiornata: ora la fame è in
Africa, con le malattie.
Ci sono anche
Magris e Maurizio Cucchi, trattati, come
Piccolo, con qualche deferenza. E Romano Montroni – che ha reinventato la
libreria - che sa di che si parla. Per il resto, il “volume tiraturesco” 2015 Vittorio
Spinazzola decide che è, al quindicesimo anno del millennio, la letteratura del
secolo, se non del millennio, e rovescia tutto. La celebra con una cinquantina
di monografie. E liquida quella degli sperimentatori, delle avanguardie,
ammesso che ce ne siano ancora, e di ogni altro sopracciò, decidendo che il
giornalismo è meglio, e farsi leggere è tutto - meglio senza ingombro. Proprio
ora che il giornalismo è moribondo? È un canto alla memoria che il professore
emerito si concede con questo suo annuale almanacco?
Una divertente compiléscion. Con tono
grave, come si conviene a un’analisi che nasce sociologica, di sociologia della
lettura. Ma come prenderla sul serio. Spinazzola, professore emerito di
contemporaneistica, ne ha sicuramente viste di peggio – è uno dei pochi
italiani a non essersi biografato su wikipedia: non si prende sul serio, viene
da pensare, data la materia che annualmente lo prende. Qui accetta tutto, sul
presupposto che l’alto e il basso non debbano distinguersi. E non può essere
che un’antifrasi rabelaisiana.
Il Novecento voleva che si scrivesse
difficile, il Duemila non più. “L’epoca
duemillesca ha capovolto le carte in tavola, perché ha accettato il principio
funzionale della leggibilità. Le opere scritte sono fatte per essere lette”. E
quindi anche scritte mediocremente, senza lasciare traccia? Si. “Una cosa resta
comunque certa: oggi come oggi, un rispetto particolare va riservato a coloro
che si adoperano in favore di un incremento dei valori extraletterari più
consentanei a un incrocio di liberalesimo e democrazia; assieme, un privilegio
di simpatia spetta a quanti ricorrano a una scrittura di mediazione fra
nitidezza affabile e cordialità
disinvolta”.
Anzi, “all’aspetto più significativo di questo volume tiraturesco: il richiamo
dell’attenzione su quella categoria di scrittori-giornalisti che lavorano per
la grande stampa ma soprattutto per i mezzi audiovisivi”. Se non è ironico, il
lettore ci guazza doppio, che deve rifarsi dei tanti euro spesi inutilmente, per
libri di cui non ricorda nulla - il
giornale, come si soleva dire quando se ne facevano, il giorno dopo serve a
incartare il pese, il talk-show è dimenticato coi titoli di coda.
Essendo offerta
graziosamente dal Saggiatore, la lettura non fa male: bisogna sapere, in questo
il professore ha ragione, in che epoca si vive – lui non si spreca per più di
due paginette. Si lgge anche come il giornale, più in fretta.
Vittorio Spinazzola (a cura di), Tirature ’15. Intellettuali che fanno opinione,
Il Saggiatore\ Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 258 free online
martedì 21 aprile 2015
Problemi di base - 225
spock
Ora che il gas di Ischia va a Bologna, chi ci racconta un
po’ di retroscena?
Ci toccherà invocare D’Alema?
Ci sarà un centro di recupero per l’astinenza
da intercettazioni“
E perché Milano non intercetta più,
è rischioso?
Perché il Parlamento s’intigna a
votare?
Ai tempi del fascismo\ non sapevo
di vivere\ ai tempi del fascismo”, H.M.Enzensberger: si è fascisti senza
saperlo?
Frontex ha sede a Varsavia: l’Europa
si prepara agli sbarchi dei russi?
Ma l’Africa, non era stata scoperta
prima di Gesù Cristo?
spock@antiit.eu
La Resistenza fu anche gappista – terrorista
L’assassinio di Gentile è un cold case, dice l’editore, che dopo
settant’anni resterebbe da esplorare. E perché? Il Pci lo rivendicò, dopo una
ribadita condanna – Togliatti sull’“Unità”, che allora si pubblicava a Napoli, se ne inorgoglì, riducendo il filosofo a “bandito
politico” e “camorrista, corruttore della vita intellettuale italiana”. I
gappisti fiorentini se sono assunti la paternità.
È un brutto storione, e si presta alle
ricostruzioni, questo sì. Questa è particolarmente insinuante, un labirinto. Di
nomi, riferimenti, retroscena, progetti e complotti politici, aggrovigliati e quindi
confusi. La parte migliore sono i “ritratti” di molti personaggi dell’epoca,
nello specchio dell’evento, dell’assassinio: Berenson, Croce, Markevitch, Gelli,
i gappisti Fanciullacci e Martini, Garin, Guido Calogero, Concetto Marchesi,
Antonio Banfi, Bianchi Bandinelli. Un terzo del testo è di note (con bibliografie),
che però non chiariscono. L’ennesima ri-narrazione, il “caso” resta “freddo”.
Mecacci si basa su una insinuazione di
Cesare Luporini, in un’intervista radiofonica del 1989: ci sono “cose che forse
ancora non si possono dire”. Con l’aggravante che Luporini è – era - “una delle
teste pensanti del Pci”. Dopo essere stato - si può aggiungere ma a nessun
effetto risolutivo, giusto per intorbidare ancora più le acque - a Firenze con
Cantimori, altra testa pensante a guerra perduta del Pci, vicino al nazismo,
antisemitismo compreso: Luporini studiò in Germania con Heidegegr e Hattmann,
il itolare di filosofia a Belino negli ani di Hitler, Cantimori da Firenze si
legò a Moeller van den Bruck (“Il terzo Reich”, 1923) e Carl Schmitt. Ma la
verità non è tutta qui, nelle cose che si sanno?
No, Mecacci ci aggiunge il quadro
internazionale, di spie e affari riservati, inglesi e americani, in Italia. Un
quadro anch’esso risaputo. La “ghirlanda fiorentina” è il titolo di un taccuino
di un italianista scozzese che si vuole agente dei servizi segreti britannici e
in missione a Firenze durante la visita di Hitler nel maggio 1938, John Purves.
Sono molti i britannici uomini di lettere che si vogliono agenti segreti contro
le dittature. Ma pensare che gli americani, o gli inglesi, avessero in mente di
sconfiggere Hitler uccidendo Gentile è un po’ troppo, probabilmente si
occupavano di altro.
I retroscena
sono piuttosto l’evidenza. Un attentato facile – nulla a che vedere con l’agguato
di via Fani, che Mencacci evoca – che bastava solo concepire. Gentile era indifeso, benché fosse personaggio eminente nella
Repubblica di Mussolini. E non era in sintonia col fascismo estremista toscano e fiorentino. Ma anche l’ipotesi di
un regolamento di conti all’interno del fascismo, proseguito con l’eliminazione
del filosofo, non regge. Perché si sa come andò: chi decise l’assassinio e chi
lo realizzò. Il Pci fiorentino avallò l’operazione, il resto del Comitato di
Liberazione Nazionale cittadino lo criticò.
Gentile
era migliore
La narrazione resta tuttavia accattivante.
Per i personaggi – Firenze ieri, e oggi - e qualche retroscena. Fu Bianchi
Bandinelli il mandante? Uno dei mandanti, come disse la Polizia subito dopo
l’assassinio, che lo arrestò? Sì. “Sai bene quello che gli hai fatto”, gli avrebbe
detto Pompeo Biondi, suo padrone di
casa, quando vennero per arrestarlo, annota Mencacci. E uno s’immagina bene
Biondi, gigantesco e sbuffante, sempre un po’ agitato, di fronte all’irruzione.
Ne viene fuori anche un Gentile migliore di molti.
È questo forse l’oggetto vero dalla
lunga rappresentazione dello psicologo Mencacci. Qui c’è il Gentile degli ultimi
scritti, sotto l’occupazione tedesca, ministro di Mussolini ma pensatore in
proprio, per la concordia e la ricostruzione. Per la continuità dell’Italia e
dello Stato italiano. Come disegno politico e non come fatto bellico, di guerra
civile. E non come complotto, o disegno surrettizio. Ma non vale l’ipotesi
della “pacificazione nazionale” che Gentile avrebbe patrocinato e gli inglesi
avversato: Gentile era pur sempre un “irriducibile”. Invocava la “concordia”,
ma sotto la guida di Mussolini, “voce
antica e sempre viva della Patria”, e a fianco del “Condottiero
della grande Germania”. E per i partigiani aveva parole di disprezzo -
“i sobillatori, i traditori, venduti o in buona fede, ma
sadisticamente ebbri di sterminio». Mentre non si fa abbastanza caso del
terrorismo urbano, allora “gappista”, che è pur sempre un dato di fatto.
Specialmente in Toscana, all’epoca, e a Firenze. Più la Liberazione si
allontana più i libri che la celebrano si allontanano dalla storia invece di
chiarirla.
Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, pp. 520 € 25
Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, pp. 520 € 25
lunedì 20 aprile 2015
La Resistenza vedova del Pci
“Il mito
conteso della Resistenza della Liberazione” Emilio Gentile celebra al Parco
della musica a Roma il 25 aprile. Il mito in verità non saprebbe essere
conteso, perché non c’è di che. Gli stessi fascisti hanno accettato e accettano
la sconfitta, senza alcun revanscismo – sono loro che meglio di ogni altro
accettano, sia pure polemicamente, la Repubblica nata dalla Resistenza, o la
Resistenza come mito. No, la celebrazione non è sentita perché non c’è più la
Liberazione, mancando del tutto dal ricordo la sconfitta e gli Alleati. Il
ruolo degli Alleati nella Liberazione e alla Liberazione, come ideologia e come
amministrazione. Né si rimedia alla scomparsa del Pci, che la Resistenza aveva
monopolizzato.
Si
pensava che ci sarebbe stata più Liberazione, più Resistenza nella sua vasta
gamma, con la scomparsa del partito egemone della storiografia italiana, e
invece no. Siamo a una sorta di orfanaggio, di vedovanza. La cultura in Italia,
la cultura storica, è come in trance.
O in stato di shock prolungato, non essendosi ancora ripresa dalla devastazione
ingloriosa del sovietismo. Che pure era, avrebbe dovuto essere, piccola cosa di
fronte alla Resistenza, così varia e
complessa – ma evidentemente non lo era.
È questo
lutto prolungato all’origine della cancellazione degli Alleati dalla
Liberazione? Anche: la cancellazione è avvenuta prima del crollo del comunismo,
a opera della stessa storiografia picista. Contro ogni verità storica, dai
rifornimenti – tutti Alleati – alle forze in campo, tra le quali i comunisti
erano minoranza. Ma il Pci è morto da molto tempo – è durato quarantacinque anni,
è morto da venticinque. La memoria della Liberazione, con tutto il concetto di
Resistenza, è morta per conto suo, malgrado le celebrazioni rituali. Renzi, che
è appena stato in America, non ha nemmeno pensato di invitare qualcuno alle celebrazioni,
magari un’associazione di reduci, una delegazione ai cimiteri di guerra, una
società patriottica italo-americana.
Il compromesso della Resistenza
David Bidussa fa dialogare Bobbio in
veste di filosofo applicato e Pavone storico sul suo proprio terreno. Oggetto:
il “nuovo sguardo” sulla Resistenza, dopo quarant’anni di mitografia. E da
allora, quando il dialogo tra Bobbio e Pavone sfociò ne “Le tre guerre”, il
titolo che Pavone avrebbe voluto alla sua ricerca, poi, nel 1991, pubblicata da
Giulio Bollati come “Una guerra civile”, la Resistenza e la Liberazione non
sono più state le stesse.
È il periodo più controverso della
storia recente, dall’armistizio dell’8 settembre alla Liberazione il 25 aprile,
un anno e mezzo. Ma solo all’apparenza, per una revisione che si vuole
traumatizzante della mitografia della Repubblica nata dalla Resistenza. E non
si vede perché, non in questo libro.
Bobbio e Pavone concordano: la guerra in
quell’anno e mezzo fu patriottica, contro l’occupante Germania, ma anche di
classe e civile. La seconda connotazione era compresa nell’idea della
Resistenza, la terza ha sostituito ogni altra connotazione della Resistenza
stessa. Arbitrariamente.
Manca però la Liberazione, la
guerra-guerra, gli Alleati.
Nella pubblicistica che si accavalla per
i settant’anni della Liberazione, questo scambio tra Bobbio e Pavone è di
intelligenza superiore. Manca però la guerra-guerra, gli Alleati. Come
combattenti, e come ossatura della Resistenza. Dallo sbarco in Sicilia all’8
settembre nella rotta. E dall’8 settembre nell’organizzazione, l’approvvigionamento
e i rifornimenti di armi, munizioni e strumenti delle forze partigiane, dei gruppi
di difesa. La Liberazione, gli Alleati, c’erano nella prima letteratura della
Resistenza, sono scomparsi negli anni 1970.
La questione – la “scomparsa della
Resistenza” - è in realtà interna alla società, e alla sua cultura. Che da
troppo tempo è quella, sempre, dell’ex Pci – ora per inerzia. La pretesa di
egemonia di Berlinguer, che non trovò nessuna resistenza a esercitarla, e teorizzò
nel compromesso storico, il grande assente della storia politica di questi
decenni. Di cui il dibattito sulla Resistenza è parte. Una sorta di Cln senza il
nemico, e quindi senza polarità positiva: della politica come corpo morto. Ora
“democristiano”, nuovamente, ma non è quello il problema. Il problema non è la
Resistenza, sia pure tripartita, patriottica, di classe e civile, ma il tradimento
della Resistenza. Un vero dibattito sula Resistenza dovrebbe essere su questo
compromesso.
Bobbio e Pavone se lo dicono ma non lo
dicono – e nemmeno Bidussa. Che il modello del nulla, su cui l’Italia si è
creata con la Resistenza, o dell’interruzione della storia, non regge. È
singolare che l’ipotesi storiografica dominante nei primi quarant’anni della
Repubblica, quella del Pci, regga ancora tanti ani dopo la caduta del Muro e lo
scioglimento del partito Comunista. Lo schema fondamentalmente di Gramsci, per cui
la periodizzazione non è Risorgimento-Fascismo-Repubblica, ma
Risorgimento-Fascismo-Vuoto-Stato Nuovo (Resistenza). Con la cancellazione della
guerra civile, certo. Ma anche della Liberazione, degli Alleati. E della
Resistenza militare, e della luogotenenza.
Norberto Bobbio-Claudio Pavone, Sulla guerra civile. La Resistenza a due
voci, Bollati Boringhieri, pp. XXIII-177 € 15
domenica 19 aprile 2015
L’Europa senza
C’è, a ogni ecatombe di africani poveri nel
canale di Sicilia, invariabile il lamento del papa e del governo italiano all’Europa. Che si mostra come un
palazzo con le bandiere e le parole di un portavoce senza nome. È una trenodia più
che un mortorio da prefiche, una cosa igienica, molto asettica. Molto per bene
anche. Forse domani l’Europa stanzierà qualche milione in più per la Marina
italiana.
Si dice di queste reazioni che sono senza
cuore, ma questa Europa è senza niente.
Lo stesso per le decapitazioni di cristiani,
ora anche etiopici, di cui l’islam non sa più come affollare la rete. Quando
non li butta in mare. Sono africani e mediorientali, ma pur sempre vicini di
casa. L’Europa non si lamenta nemmeno, come si farebbe di condomini importuni.
Un banchiere centrale che invita alla
speculazione era da
vedere. A fine settimana, per far preparare meglio gli arsenali. In supporto alla offensiva del superministro tedesco, se qualcunonon avesse inteso. Un banchiere d’affari che diventa banchiere centrale, anche questo era
da vedere. Quali altri record batterà Draghi? Quali altre infamie ci riserva
questa Europa?
Ombre - 264
Emilio
Gentile racconterà al Parco romano della Musica il 25 aprile “Il mito conteso
della Resistenza e della Liberazione”. Che nessuno contende – i fascisti, neo
ed ex, da tempo hanno accettato la Repubblica. Forse lo storico dirà, finora
non lo ha detto, chi contende l’antifascismo e la liberazione.
Nessuno
contesta l’antifascismo eccetto la sinistra - Gentile quindi incluso. La quale ha soppiantato la
Resistenza e la Liberazione con la guerra civile. Per non dover ringraziare gli
Alleati? Per introdurre alla storia che non si fa ma che sarà inevitabile della
Volante Rossa e del Triangolo della morte? Della voglia, se non di un progetto,
di sovversione.
Sarà
un caso, ma si assiste con la “Seconda Repubblica” a un inconcludente quanto interminabile
manipolazione delle carte Da prestidigitatori
e forse da bari. A opera, bisogna dirlo, degli storici e non dei politici, che
quindi qualche onestà la conservano.
La
Seconda Repubblica data, più o meno, dalla caduta del Muro. Dalla caduta delle
illusioni di cui la storia non è stata fatta e, come sembra, è vietato fare.
Paolo
Conti sul “Corriere della sera-Roma” depreca “una città al collasso”. Oggi e
non ieri, lo fa a giorni alterni. Ieri ne celebrava la bellezza – come di
consueto gli altri giorni alterni – sotto le specie di un glicine al Gianicolo.
È un modo di essere romano, essere e non essere. È da Roma che la politica italiana
ha preso il suo modo di essere?
Il
17 aprile, venerdì, Renzi torna dall’America, va a Pompei e dichiara: “L’Italia
è una superpotenza culturale, il mondo chiede Italia”. Era Mussolini che il 2 ottobre
1935 dichiarava guerra all’Abissinia invocando “questo popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di navigatori, etc.”. Me nessuna
ironia si legge. Nemmeno sul venerdì 17. Mussolini si riserva per Berlusconi: è
la logica di regime.
Allarme
tg: “Un peschereccio italiano fermato dalla Marina libica nel canale di
Sicilia”. C’è una Marina libica? C’è la Libia?
Dunque,
dieci mesi dopo aver condannato Berlusconi perché “non poteva non sapere” in
materia di fisco delle sue aziende, la Cassazione stabilisce il contrario, a opera dello stesso giudice relatore, Amedeo Franco: che
il reato fiscale non si può presumere, deve essere provato.
C’è
del trucido in Cassazione. E non può essere altrimenti, è il vertice di un
“ordine” giudiziario marcio.
Con
le parcelle milionarie che deve ai suoi tanti avvocati, Berlusconi ha dovuto
aspettare che un qualche giudice o impiegato della Cassazione segnalasse a
“Libero” la doppia morale della Corte. E allora: o Berlusconi ci guazza in
questa giustizia, il masochismo esiste, oppure è un pirla, se ne approfittano
tutti, giornalisti, onorevoli, e anche gli avvocati.
Abbattere
il governo per la legge elettorale, evidentemente si può. Ma che lo faccia il
Pd, contro il suo governo, che senso ha questa “dura opposizione”? Da parte di
parlamentari che esistono solo nei talk-shows – non sono politici, non hanno
fatto politica, non fanno politica, solo si mettono in mostra. Ogni partito ha
le sue starlettes, anche se con la barba.
Non
ci sono i milanesi in Duomo per i
funerali della strage al palazzo di Giustizia. Né dentro né fuori, dove erano
state preparate inutili transenne. Benché, dice Lerner, solo di avvocati a
Milano ce ne siamo 18 mila. Ma li assolve, gli avvocati e i milanesi: “Il funerale
di Stato ha trasmesso la sensazione di una Roma venuta a Milano sospinta dal
timore”. Dalla colpa cioè.
I
milanesi, diceva Malaparte, buttano sempre l’immondizia al piano di sotto.
Comincia
Porto-Bayern, Neuer abbatte Jackson Martinez. Era gol fatto, ma Neuer è solo
ammonito. Noblesse oblige, Neuer è
campione del mondo.
E
poi la finale di Champions si gioca a Berlino, una squadra tedesca ci vuole.