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sabato 16 maggio 2015

Problemi di base - 228

spock

E se De Luca non vince in Campania?

E se De Luca vince?

Anche in Germania s’industriano di non pagare le pensioni?

Ci sono i Titi Boeri anche in Germania, fanno parte del rigor?

In Germania licenziano i calciatori: non è questa una riforma del lavoro che l’Italia deve fare?

Anche in Germania i sindacalisti sono sempre in piazza, e mai al lavoro?

La Turchia arma l’Is in Libia, e quello in Curdistan no?

Raul Castro va dal papa Bergoglio e subito si converte: chi è il gesuita?

spock@antiit.eu

Il Sud sotto jettatura

Il Sud incatenato ai resti, a persistenze inerti. Già all’epoca, 1958. Una lettura divertente, non fosse per la seriosità cui l’illustre storico delle religioni ambisce – Umberto Galimberti nella presentazione a questa Universale Feltrinelli ne fa il depositario della “essenza della funzione del magico”, più e meglio di Mauss e Lévy-Bruhl. Un ricerca sulla fascinazione nella “magia lucana”, svolta tra 1950 e il 1957, in molti paesi dell’area apulo-lucana, corredata dalle foto molto “creative” di Ando Gilardi, André Martin e Franco Pinna. E una dissertazione sulla jettatura a Napoli. Prodrome dello studio più famoso, sul tarantismo a Galatina di Lecce, qui anticipato in appendce. Nel quadro della “non storia del Sud” – nel mentre che Pontieri, Placanica, Rosario Villari, Galasso la rinnovavano. Tutte cose remote, un po’ assurde anche per l’epoca.
De Martino ne ha il sospetto, che nell’introduzione dice il confine labile tra “magia” e “razionalità”. E del “materiale relativo alla «magia lucana»”: “In generale il folklore religioso come coacervo di relitti disgregati che l’analisi etnografica astrae dal plesso vivente di una determinata società non è, nel suo isolamento, storicizzabile” – nell’isolamento cioè in cui la mette lo studioso. Ma la fascinazione non traccia negli stati psichici – il “malo vento” della “magia lucana”- che sono il suo luogo, anche morbosi. Privilegiando invece come modi interpretativi l’esorcismo, la religione (diavoleria), la superstizione, e come luogo fisico il Sud. Mentre il formulario della fascinazione che censisce non ha nulla di esoterico o cabbalistico: sono filastrocche, in italiano dialettizzato, quindi recenziori e imitative. La jettatura nobilita con scritti “curiosi” tardosettecenteschi – che Dumas si approprierà nel “Corricolo”, il romando napoletano del 1840 – dicendoli di elevata qualità illuministica, insomma filosofica. Tali da comportare “la trasformazione della fascinazione”, dapprima a Napoli, e poi “da Napoli nel resto d’Europa”. Dove?
Per la “non storia” De Martino si appoggia a Croce. Che la storia del regno di Napoli diceva “ingrata”, ma è uno che si è divertito a rifarla in molteplici aspetti, compresi i teatri.
Un reliquato, dei tempi delle magnifiche sorti e progressive – di buona volontà?
Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, pp. 205 € 8

venerdì 15 maggio 2015

Ombre - 267

“La scelta si basa sull’equità non solo fra chi ha di più e chi meno, ma anche tra chi ha avuto di più, e chi è chiamato a dare di più ma avrà di meno”: Tito Boeri, presidente dell’Inps, sulla sentenza della Consulta. Uno che viene dalla Bocconi. Che per anni,con la voce-info, ha dato lezioni di chiarezza.

Il successo elettorale di Cameron è appropriato dai giornali belli-e-buoni –corretti, europeisti eccetera. Un governo che i disperati dei barconi vuole “semplicemente rimandarli in Africa”.

Anche la Germania celebra la liberazione quest’anno, per i settant’anni. Non è mai troppo tardi.
La celebra anche con parole chiare, benché in cerimonie svelte. E in luoghi fortemente caratterizzato, i campi di concentramento: la cancelliera Merkel a Dachau (prigionieri politici), il presidente Gauck a Bergen-Belsen (lavoro e sterminio). Due politici della Germania comunista. Un pastore luterano e la figlia di un pastore.   

L’acqua-bene-pubblico rincara del 10-25 per cento. E le aziende pubbliche dell’acqua interrompono, anche se non si potrebbe, le forniture ai morosi. In Toscana e in Emilia.

Si magnifica l’accordo europeo sugli immigrati mentre la verità è che tre paesi, Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, se ne sono chiamati fuori. Otto lo boicotteranno: Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovachia, Ungheria, Romania. E due chiudono le frontiere quando vogliono, Francia e Austria.

Raul Castro va dal papa e dice. “Con un papa così potrei tornare cattolico”. Lusinghiero?
Chissà se il papa ha ricordato a Castro i diritti politici e di libertà. L’America Latina è un mondo a parte.

L’arbitro fa vincere scandalosamente l’Inter a Roma contro la Lazio. La “Gazzetta dello sport”, il giornale degli sportivi, e il “Corriere della sera”, il giornale di Milano, fanno paginate sulla partita dell’Inter senza cenno dell’arbitro. Giusto un equivoco: “La Lazio arrabbiata”.
Sarebbe un fatto di poco conto, se non fosse l’aggressione cui sottostiamo da un quarto di secolo ormai: l’Italia? corrotta.

Il messaggio è sbirresco, spudorato: “Chi accetta il 730 precompilato evita i controlli”. Meglio evitare i controlli, un pelo si trova sempre, che portare in  deduzione le spese e le liberalità.

“Altro che social. Il vero obiettivo di Zuckerberg è Google, il primato nella pubblicità”. Bella scoperta, il “CorrierEconomia” ci arriva lunedì: Facebook non è una chat ma un campionario di  marketing.

Si ascoltano i viaggiatori a Fiumicino il giorno dopo l’incendio. I più sono smarriti: temono di non dire la cosa giusta che le tv vogliono che dicano: ritardi, disorganizzazione, paure.

Fra i tanti “gufi” di partito Renzi mette “quelli del 25 per  cento, i vecchi leader che stavano meglio quando si perdevano le elezioni”. È così, ma c’è anche un ragione: con la sconfitta si cambiava gruppo dirigente. Ora Renzi si vuole insostituibile.

Michela Marzano si dice profondamente, vastamente, prolissamente delusa dal Pd in un ‘intervista con Vittorio Zincone. Ma il Pd di prima, quando lei lo ha scelto per candidarsi, era meglio o peggio di questo?
Per candidarsi da indipendente naturalmente, la filosofia non è democratica.

Mattarella diligente ha firmato l’Italicum. Lui che dieci anni fa tuonava contro una legge elettorale, il “Porcellum”, contro cui c’erano stati anche allora ostruzionismo e aventinismo. Non è costituzionale, diceva, una legge che si vota in assenza dell’opposizione, e contro di essa. Ora sì?

Il femminicidio di Carmen

Il delitto passionale ora femminicidio. Sulla traccia della novella di Mérimée più che dell’opera di Bizet (Meilhac-Halévy). Trasportato a Napoli.
È scontato, Napoli è spagnola, etc.,  ma non persuade. Forse perché Napoli e la sceneggiata stancano. Oppure ha ragione Nietzsche, che Carmen è francese. Più probabilmente per la nostalgia dei caratteri forti che muove il remake, una sorta di neo Ottocento.
Iaia Forte anima però Carmen, malgrado tutto – l’attore in teatro può più del regista. E l’orchestra di Piazza Vittorio da sola vale lo spettacolo, per ritmi, sonorità, presenza scenica.
È lo spettacolo in stagione che ha fatto l’esaurito in tutti i teatri: il femminicidio attira – riprovazione o vendetta?
Mario Martone-Enzo Moscato, Carmen

giovedì 14 maggio 2015

Il tifo per i soldi

La Juventus è un squadra di vecchietti, Evra, Pirlo, Buffon, Chiellini, lo stesso Tevez. Con un paio di ventenni anche belli, Pogba e Morata. Avrebbe molte carte per essere simpatica, ma gli occhi e le penne si sgranano solo per il Real Madrid.  Che invece avrebbe tutto per essere antipatico. Una selva di riccastri, superpagati. Raccattapalle che nascondo il pallone quando la Juventus perde, e non perdono un secondo  quando perde il Real Madrid. Una polizia che provoca i tifosi della Juventus. E tifosi che fischiano il madrileno e madridista Morata, che è invece composto e modesto, ed è stato svenduto dal Real Madrid per scarso rendimento.
Ciò malgrado, il Real è il Real. Se perde, la colpa è dell’allenatore. Che è anch’esso italiano e simpatico ai più, Ancelotti. Ma non c’è remissione agli occhi di commentatori e giornalisti: il Real Madrid è regale. E proprio per i soldi: il suo fascino è nelle centinaia di milioni profusi per questo o quel calciatore, quattro e cinque volte il patrimonio della Juventus. E che li spenda esentasse non toglie, come si penserebbe di ogni evasore fiscale, ma aggiunge al fascino. Il fascino è dei soldi, che facciano gol è accessorio. .

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (245)

Giuseppe Leuzzi

Ma questa Expo dei miracoli è una supersagra? Stellata e cappellata, certo, Milano vuole guadagnare molto. Entro la vecchia Fiera campionaria, per cui Milano era famosa. E quanta pubblicità gratuita: un’arte, certo.

Ci sono molti Lombardi a Roma, anche fuori del Parlamento. Non ci sono praticamente Romani in Lombardia, dove pure si fanno gli affari. C’è un motivo?

Ci sono molti Lombardi anche al Sud. Ma poi erano diventati Svizzeri.
Ci fu la Lombardia ovunque in Italia, prima che gli italiani la invadessero.
La magia è del Sud
Sud e magia è un classico, in Africa, in America, Usa compresi, e anche in Italia: perché non c’è Nord e magia? La magia propriamente detta, quella dei maghi, non quella turistica dei posti.
De Martino ipotizza perfino una magia regionale. Connotata cioè quasi amministrativamente. “Sud e magia” localizza nel Regno di Napoli. Di cui però la Sardegna non fu mai parte, e la Sicilia sempre recalcitrante. Mentre la Puglia fa storia a parte, più levantina che napoletana. Di cui la Lucania è stata  propaggine, remota – l’Acquedotto Pugliese, il più grande del mondo, vi prende le acque. Il regno fu napoletano in parte: di una Napoli estesa all’Abruzzo, e alla Calabria fino a Lamezia.
Ma De Martino fa di più: “Sud e magia” vuole “Magia lucana” - della Lucania. E la jettatura a Napoli, che tanto aveva colpito Dumas nel 1836.

Il Sud è pagano
Per molta pubblicistica transalpina, spiega De Martino,il Sud non è magico, nel senso dei maghi, ma pagano. Che dovrebbe essere la stessa cosa ma non lo è: il Sud – il Sud Italia – è pagano nella polemica protestante anticattolica. La Chiesa è pagana perché corriva al Sud pagano e anzi lo fomenta – cioè al Sud si scopre, secondo gli antipapisti, butta via la maschera.
De Martino dice che molti “studi” sono stati fatti in proposito, e ne cita estesamente uno, di Theodor Trede, in quattro volumi, che dice molto dotto, praticamente su ogni aspetto della religiosità popolare. Con l’avvertenza che la superstizione c’è ovunque, ma nell’Italia del Sud “assume proporzioni di un gigante”, così De Martino sintetizza Trede, “mentre in Germania si ridurrebbe a quella di un nano”. 

Calabria
La città e la provincia più depresse d’Italia, Reggio Calabria, hanno la fiscalità aziendale più alta, col 75 per cento del reddito d’impresa. In forza delle addizionali locali. La colpa, cioè, è tutta locale, l’Italia non c’entra.
In tre anni le addizionali sono aumentate del 12,5 per cento. Sì le mafie, sì l’arretratezza culturale, ma il vero nodo scorsoio del Sud è la politica.

Talese, Rotella, la Calabria ultimamente viene meglio con i figli degli emigrati: sanno scrivere, ma sanno anche vedere, e non sono prevenuti.
Fino a metà Novecento non era così, c’erano buoni scrittori calabresi in Calabria. Poi c’è stato il rivolgimento sociale: la borghesia, classe e valori, è stata rovesciata. Da mafia e popolo. Che non costruiscono ma rodono e erodono.

Nelle undici regioni dell’età augustea, la Calabria era nella bassa Puglia, pressappoco il Salento.

Arriva l’Expo e la Gazzetta del Sud dedica all’evento uno speciale, il giornale di Messina per la Calabria. Primo giornale italiano. Una meraviglia, di informazioni e di elogi. Con pubblicità tutta locale, di salumieri, farmacie e fast-food calabresi. Commovente..

Chi, avendo uno scrittore del calibro di Berto, lo trascura e anzi lo ignora? La Calabria. Uno che addirittura ha scelto di vivere in Calabria. Non per una vacanza, né per una consulenza o appalto  di cui la Calabria sa essere prodiga, purché a nessun fine. No, rimettendoci anzi del suo: costruendosi una casa, etc. etc. Nell’indifferenza.

E Campanella? Non uno studio. L’ultimo studioso che se ne occupò, Luigi Firpo, era torinese, mezzo secolo fa. Non una fondazione o un centro di ricerca nella tante università locali. L’editoria anche, è frammentata e disattenta – mai nessuno ha pensato a un’edizione delle opere.
L’odio-di-sé  - il rifiuto - è radicatissimo, una pozione avvelenata ingoiata come un elisir.

San Luca, il paese di Alvaro, fu colpito nel 1951 da un’alluvione e praticamente distrutto – sarà ricostruito a monte. Cos’era successo? “Per dare lavoro ai disoccupati si procedette al taglio dei boschi”, ricorda Alvaro (“Il nostro tempo e la speranza”): “Il paese era appiattato sotto la montagna che già alle prime piogge aveva spalancato una voragine. E il taglio continuava”.

“Sono i fenomeni che rendono l’Italia un paese incomprensibile, imprevedibile, sconcertante”, commentava lo scrittore. Ma anche, restringendo l’obiettivo, l’opera di “una classe dirigente abituata a vedere dalla finestra la miseria”.

“Quest’anno nemmeno una castagna per devozione”. Si dice anche del fico. Si dice quando la frutta di stagione scarseggia, come se fosse doveroso – un rito – assaggiarla.
 
Il sindaco Pd di Reggio e il suo consiglio onorano Piero Battaglia, l’ultimo sindaco democristiano, dedicandogli la sala consiliare. Battaglia non è un morto recente, la dedica vuole essere un atto politico. Contro una giustizia che lo ha tenuto in carcere tredici anni, senza imputazioni precise, dato che è morto innocente.
Il problema del Sud è la mafia, ma nel senso che manca la giustizia.

Da trent’anni, forse da quaranta, flottiglie giapponesi d’altura razziano elettronicamente gli spada e i tonni rossi, le tonnare e spadare di Pizzo e Bagnara avendo portato al disarmo. Una ricca miniera. Dei resti fanno anche il mercato del pesce a Vibo Marina. E magari non pagano nemmeno il pizzo.

leuzzi@antiit.eu

Cose Nostre in Procura

Il metodo sommesso e giusto di combattere la mafia. Che si è nel frattempo autosconfitta con le stragi, opera di assassini dal cervello corto, i Riina, i Provenzano, confermando la quieta saggezza di questo Falcone, come Marcelle Padovani ha saputo capirlo.
Una riedizione per più aspetti commovente. Anche se drammatica, un atto di accusa più contro la giustizia che contro la mafia: il libro è alla rilettura una testimonianza a futura memoria. Non che Falcone sapesse, ma era evangelicamente preparato. Sembra irreale oggi, che lo si celebra come un santino, ma venticinque anni fa, nel lungo isolamento che mise Falcone nel mirino di Riina, Marcelle Padovani fu l’unica sua áncora a sinistra.
Di lui oggi si può dire senza esagerare che ha portato alla sconfitta della mafia, che si voleva invincibile. Da vivo e da morto. Con la modestia dei forti. “Faceva parte di quella categoria”, ricorda Padovani, “di servitori dello Stato che considera «normale» che il suo impegno possa diventare sacrificio”. Ma c’è modo. Il giudice veniva deriso in lettere minatorie dall’interno del palazzo di Giustizia (“il Corvo”), bocciato per ogni carriera dai membri compromissori del Csm, Dc-Pci, a cominciare dall’incomparable vicepresidente Galloni, denunciato ripetutamente come colluso con la mafia in tv da Santoro e Leoluca Orlando. Marcelle Padovani sarà anche a lungo la sola ad averlo capito, prima dell’imbalsamazione e la santificazione. È stato ucciso perché era solo, scrisse sul suo giornale, il “Nouvel Observateur” dopo la strage - giusto il precetto da Falcone a lei dettato.
Solo no, osteggiato con asprezza. Dai magistrati, le loro associazioni sindacali, il Csm, e da una parte della politica, il Pci-Pds, oltre che da Leoluca Orlando. Che si giustificavano con la terribile legge pintacudiana del sospetto. Orlando fu terribile perfino in morte di Falcone. Gli imputò ogni perversità. Benevolmente accolto da “l’Unità”, dalla “Stampa” di Marcello Sorgi, e perfino dalla stampa tedesca – Orlando pretende di essersi addottorato a Heidelberg. Uno che ha sempre preso i voti della mafia, in tutte le sue elezioni, talvolta col 100 per cento della sezione – a sua insaputa naturalmente.
Falcone fu vittima della Superprocura antimafia, che è il suo progetto più innovativo: l’unificazione delle indagini sparse di mafia. Gli negarono per questo la Procura di Palermo, e poi la Superprocura stessa. I giudici ci videro la possibilità di un raddoppio delle carriere e gli fecero una guerra micidiale, per ridurre la Superprocura a un simulacro,quale è ora, un carrierificio. Spartendosene l’eredità, dopo Capaci, in cento Procure antimafia circondariali, con cento Procuratori Capo, e cento Vicari, a Palermo come a Belluno. Una tombola, il raddoppio delle carriere: l’avidità dei giudici non conosce limiti.
Falcone sapeva che un problema di autonomia si prospettava. Della Superprocura dice qui a Marcelle Padovani: “Esiste indubbiamente il problema del suo assoggettamento al potere politico”. Anche perché “un coordinamento fortemente centralizzato non può essere totalmente separato dagli altri poteri dello Stato”. Ma non era questo il problema dei suoi compagni e colleghi, era il posto.
Il seguito getta una luce sinistra sulla perspicacia e la ragionevolezza di Falcone, tra gli stessi ambienti che poi se ne sono fatti il santo protettore, giudici e media. Ancora nel 2004, la sentenza della Cassazione sul fallito attentato all’Addaura, benché greve di allarmanti ipotesi, ottenne sui grandi giornali del 20 ottobre solo una breve. Una sentenza che diceva tutto ma per non dire quello che tutti sapevanoe sanno: un “infame linciaggio” denunciando, messo in atto contro Falcone per “delegittimarlo”, proveniente anche da “ambienti istituzionali”, nonché da “imprudenti” e “autorevoli personaggi pubblici”, che hanno consentito ai “molteplici nemici del giudice d’inventare la tesi dell’attentato simulato”. M senza fare i nomi. E senza dire che il processo si era fatto perché il giudice Falcone era stato sospettato di essersi inventato l’attentato per farsi pubblicità. Dal Pci, dai giudici Domenico Sica, capo dell’antimafia, e Franceso Misiani, allora del Pci, e dal colonnello dei carabinieri, poi generale, Mario Mori, che invece è di destra.
Una vicenda che era stata un segnale: dal polverone sull’Addaura Falcone emerse isolato, e questo significò che si poteva colpirlo. L’isolamento è confermato dai fatti reali, come si sono succeduti. E dalle informazioni buonissime di cui Riina dispose su Falcone, che gli consentirono l’attentato di Capaci logisticamente così complesso e riuscito – la reazione confusa all’assassinio Falcone confermò ulteriormente Riina: colpire Borsellino.
“Che l’attentato alla verità sia un ingranaggio, che ogni menzogna ne trascini con sé, quasi necessariamente, molte altre, chiamate a darsi, almeno in apparenza, scambievole appoggio, l’esperienza della vita lo insegna e quella della storia lo conferma”, Marc Bloch l’ha già scritto al cap. terzo dell’“Apologia della storia”: “Ecco perché tanti celebri falsi si presentano a grappoli… La frode, per sua natura, genera la frode”. Non è facile, “inventare presuppone uno sforzo dal quale rifugge la pigrizia mentale comune alla maggioranza degli uomini”. E allora ecco l’invenzione opportunista: l’interpolazione, la connessione, il ricamo.
A Palermo il gesuita scienziato politico Ennio Pintacuda celebrò i funerali dicendo che la morte di Falcone era opera dell’Antistato. La stessa cosa aveva detto per Salvo Lima. Pina Grassi, deputato Verde, disse invece che era stata strage di Stato, perché, riferì il “Giornale”, “l’agguato è stato teso in una zona vicina a una base Nato strettamente sorvegliata dai militari”. Alla commemorazione dopo il funerale Claudio Martelli disse ai magistrati a Palermo: “Le amarezze più sofferte gliele hanno inflitte quei suoi colleghi che lo hanno talvolta legittimamente criticato e talvolta calunniato”. E aggiunse che Falcone voleva querelarsi. I magistrati abbandonarono in massa la cerimonia, offesi.
Sempre a Palermo, prima ancora dei funerali, due giorni dopo la strage, il grillo parlante Galloni aveva difeso il Csm, che opponeva il procuratore di Palmi, il missino Agostino Cordova, a Falcone come capo della Superprocura antimafia. Aggiungendo che il Consiglio doveva difendere l’indipendenza dei giudici. “Implicitamente”, notò Liana Milella sul “Sole-24 Ore”, “conferma le accuse di scarsa indipendenza fatte a Falcone. Non solo: nega che per la sua esperienza della mafia il magistrato rappresentasse un unicum”.
Giovanni Falcone-Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra, Il Sole 24 Ore, pp. 180 € 8,90

mercoledì 13 maggio 2015

Letture - 214

letterautore

Avanguardie - Arte a programma, di manifesto, hanno operato quasi soltanto manomissioni. Tipiche del Novecento, secolo ideologico. Movimenti politici e non creativi, se non coi resti.

Bozzettismo - È toscano più che lombardo. E in Toscana si esercita con risultati, fino a Palazzeschi, Cicognani, Strapaese (“Il Selvaggio”), e Cassola.

Carmen – Moscato e Martone la ambientano a Napoli. È scontato, Napoli è spagnola, etc.,  ma non persuade. E il perché lo sapeva Nietzsche, che invece ci trovava “lo spirito francese”. Ascoltando l’opera di Bizet Nietzsche  ruppe con Wagner, “furbo serpente a sonagli”. Da Wagner già lo separavano il nazionalismo pantedesco e l’antisemitismo, ma nel sottile verismo-non verismo di Bizet e di Mérimée riconobbe un’altra dimensione.
Usa – usava – far risuonare le arie di “Carmen” nel Duomo di Siviglia per accompagnare i turisti, ma l’effetto era deprimente.

Gala – La regina delle russe muse dei letterati europei tra le due guerre, e dopo, Elena Ianovna Diakonova. Conobbe Éluard in sanatorio in tempi non sospetti, nel 1912 in Svizzera, dove entrambi si curavano la tubercolosi. O così disse lei, lui come sempre soggiacque. Lo sposò nel 1918. E sarà l’anello di congiunzione di altre belle russe nella scena francese, specie di Elsa Triolet con Aragon.
Intanto si era legata, dal 1921, con Max Ernst. Che per comodità aveva traslocato in casa di Éluard e Gala a Eaubonne, in Val-d’Oise. Otto anni più tardi lascerà entrambi per diventare, sui quarant’anni, la musa di Dalì. Col quale vivrà fino alla fine nel 1982. Ma per una ventina d’anni, fino alla morte di lui nel 1952, sempre legata a Éluard, nella corrispondenza e nel sottile erotismo verbale – Gala non si perdeva nulla.

Heidegger - Se Heidegger si potesse leggere in un mondo nazionalsocialista (nazista è del regime breve e sconfitto, anche autodisfatto con la guerra all’Urss e la Soluzione Finale, ma il suo fondo culturale è resistente), avrebbe tutt’altro senso. Tutt’altro che quello con cui oggi viene letto (che oggi gli viene attribuito).  La lettura di Heidegger, quando era possibile in originale (quando la lingua si presentava ancora aperta e percorribile). In “Essere e tempo” no, ma i suoi Hölderlin, Nietzsche, la stesa ontologia e la “Svolta”, e “Sentieri interrotti”, oltre alla innumerevole produzione d’occasione, burocratica, paesana, politica, sono imbevuti di linguaggio nazionalsocialista, il popolo, la libertà tedesca, il destino. Non ideologicamente, non di programma, senza minacce né proscrizioni, ma internamente: la terminologia, i riferimenti, il sentimento, molto piccolo tedesco. .

Georges-Arthur Goldschmidt, franco-tedesco, traduttore in francese, lo rileva di “Sentieri interrotti”: “Heidegger parla innocentemente della manina del cambiavalute (Wechsler). Ma in tedesco la parola cambiavalute è necessariamente seguita da usuraio (Wucherer), e porta dunque tutti i cliché dell’antisemitismo. La sua lingua porta dei cliché sugli ebrei che sono invisibili in francese”.

Günter Grass lo sa, che ci ironizza a lungo in Anni di cani”. Non da socialista, come ora sappiamo, ma dal di dentro, avendo bene i mezzi per stanarlo.

Manzoni – Quanto il romanzo (non) deve al bozzettismo toscano? Quello lombardo non è da meno, ma è posteriore, “manzoniano. Tra i panni sciacquati in Arno Manzoni, che aveva forti capacità di narrazione, come si vede dalle storie, potrebbe avere mediato, insieme col cruschismo purista,  la tradizione bozzettista dei cantastorie, senza il becero. Dal Giusti, tra gli altri, che Manzoni molto apprezzava.

Montalbano - “Montalbano è qui più fascistone che mai”, scriveva questo sito  proposito di ”La luna di carta” (2010), “il fascistone meridionale. Con la fidanzata, con i subordinati, con i cittadini, con i superiori. Simpatico, e giusto – e veritiero. Il fascistone meridionale non è un reduce di Mussolini, anzi lo avrebbe disprezzato, ma è autorevole e autoritario, e tutto dice, sa, fa, e risolve. E non è di sinistra, come l’autore vorrebbe – non eversivo: è conservatore. Dev’essere il centro della simpatia, l’interprete del sentimento comune, quello che tutti vorrebbero essere – magari comunista, una volta, nell’intimo, poiché il Pci, che ha avuto al Sud breve vita, si è creata per quei lontani anni un’aura d’irenismo e giustizia, ma non del Partito.
“La stessa concezione che Camilleri ha del Pci e del movimento è di destra: del galantomismo, per l’ordine e il coraggio. Il che non vuol dire che lui stesso non possa essere stato del Pci fin da ragazzo, come pretende: il Pci si riconosce anche in Malaparte e Montanelli, perfino in Longanesi. È possibile. Ma, scrivendo, privilegia la verità: la spia è nell’assenza del «tutto mafia», l’idiozia del Pci che lo ha sradicato presto dalla Sicilia”.
Su “Lettura” dell’altra domenica, 3 maggio, Camilleri spiega ai lettori che ospita a casa che Montalbano è, in effetti, “un lungo ritratto” del padre: “Il modo di concepire il rapporto con gli altri, la lealtà, l’attaccamento alla parola data, un senso profondo dell’onestà, il discorso sulla verità relativa e l’autonomia rispetto alla autorità, l’opinione personale che si distacca sempre dall’opinione comune”. Anticonformista: “Papà era squadrista, aveva fatto la marcia su Roma”.

Tedesco - Contrariamente al senso comune, non è allusivo e inconcludente. Ma diretto in ogni sua parola, e perfino brutale. Di senso comunque distinto e distinguibile. Non retorico né scolastico. Il giovane tedesco che a quindici anni viene “segnato” dal sistema scolastico alle tecniche e alle commerciali non sarà in grado di leggere o gustare Goethe o Hegel - né lo pretenderà – ma ne capisce ogni parola.

Verso nazionale – L’endecasllabo (Dante, Petrarca..) si può dire quello italiano. Ma anche l’ottonario dei cantastorie e dei giullari non è da trascurare. L’endecasillabo, forse derivato dall’endecasillabo saffico attraverso il decasillabo provenzale,  è serio, logico, e faceto. E dunque
Francese è l’alessandrino, declamatorio. Inglese il pentametro giambico, duttile – blank verse senza la rima.

letterautore@antiit.eu

L’epopea squallida del transgender

Un manuale di libertà sessuale, prototransgender. In altre prose Genet è beatamente pedofilo, il che oggi lo ostracizzerebbe, ma è agli atti come liberatore. Qui accumula storie di “froce femmine e froci maschi”. Sbalzate dalle mura di una cella che si compiace di dire il suo habitat, popolate di figure maschie ritagliate. Impegnato a imporci il bello dell’orrido, che ripetutamente teorizza: sporcizia, sudori, escrementi, puzze, sperma, percosse, trivi e quadrivi, carceri, buglioli, coltelli, malignità e cattiverie, tradimenti, spiate. E il collaborazionismo, sotto la forma morbida di fascinazione per i tedeschi marcianti, che “inconsapevoli, fecondanti come polvere d’oro, scesero su Parigi”. Che vede biondi e angelici, anche quando comandano le stragi. Con contrappunto di pietà religiose: messe, comunioni, Sacri Cuori trafitti, Benedette Soubirous, Gesù Bambini in fasce, e il ritornello del “Veni Creator”. La trasgressione come legge, nella crudeltà come nella pietà.
Un mondo che Genet vuole sordido. Di piccole insignificanti passioni, e vite perdute che non si vorrebbero neanche destini. Niente sociologia, niente politica, un immane ghirigoro e un esercizio di bello stile. O esercizio teatrale: “Amo l’impostura”, proclama onesto. Nel mentre che afferma l’omosessualità del secondo Novecento, altra da quella sofferta e goduta di Gide e Wilde, Whitman e Forster, Isherwood e Auden, o anche, nuovissima, di Edmund White – nonché da quella indagata e rappresentata dal lato femminile, Rachilde, Renée Vivien, Natalie Clifford Barney, Delarue-Mardrus, Sackville-West, Schwarzenbach.
Successo enorme di scandalo a suo tempo, e generazione fertile, seppure non dichiarata. Di Gore Vidal per esempio, e di molto beat. In Italia di molto Pasolini, nella poesia, e nei romanzi fino a “Petrolio”. Dei tanti epigoni di Pasolini, fino a Siti. Di Busi. Di Testori. Di Arbasino narratore, e di alcuni suoi stilemi ricorrenti: l’anacoluto, il narrativo riflessivo, la digressione costante. Un classico del maledettismo, bellico e postbellico.
È anche un primo caso di autofiction, datato 1942. Spudorata, e ancora oggi eccessiva – affannosa, costruita, interminabile. Di una maledizione molto in posa: ben scritta, manierata. E crepuscolare negli effetti, compresa la prigione, il giudizio incombente, la ghigliottina. Una celebrazione quasi sacerdotale del transgender, la cleptomania, la prostituzione, lo sfruttamento. Anche borderline, ma di trasgressione compiaciuta e non sofferta, perfino paludata. Atteggiata e non veritiera, la verosimiglianza Genet bollando “la sconfessione delle ragioni inconfessabili”. Nella ricercatezza – e nell’abiezione costante – il sacrilego stinge.
Una celebrazione che è una sorta di lager del sesso: il sesso come costrizione, triste, da moralista. Una mostra del sesso più che un dramma o una commedia - forse non contro le intenzioni. O un piano quinquennale della deiezione. Seppure non materialista, e anzi con spreco di devozioni e magie. Il maledettismo più che la maledizione, nel tedio del sesso. La traduzione sempre incredibilmente agile di Dario Gibelli vent’anni fa, che il Saggiatore ripropone, non sopperisce alla stanchezza - una prima traduzione nel 1975, di Giorgio Caproni, per lo stesso Saggiatore, era limitata a circa un terzo della stesura originale, traduttore e editore italiani avendo ulteriormente ridotto la censurata edizione francese (era la prima traduzione della narrativa di Genet in italiano, ed era una antologia). 
Schiacciato da Sartre
Non si parla più di Genet. Questo “Notre-Dame-des-Fleurs” si ripropone più per le parti censurate nella prima edizione pubblica, Gallimard 1951 – il racconto circolava sotto banco – dopo il successo a teatro delle “Serve”. Come se fossero pruriginose, mentre non lo sono più, e semmai peggiorano la lettura, aveva ragione il redattore censore di Gallimard. Genet è rimasto schiacciato dal biografismo che Sartre gli ha imposto. E dall’accumulo, sempre sartriano, di notazioni fenomenologiche e esistenziali di cui l’autore avrebbe fatto forse meglio a meno. Un autore che ha squarciato – insieme con Céline, che però veniva da più lontano - la buona letteratura francese di metà Novecento, virtuistica (politicamente corretta, allora “impegnata”) e costruttiva (cioè decostruttiva). Ha impiantato il teatro dell’assurdo, la scuola dello sguardo, e altre avanguardie. E ha liberato i manierismi omosessuali. Nella tradizione del “maledetto”, di un Villon sempre all’ombra della forca-ghigliottina, ma più vantone che disperato. Aggiornato col sesso, quello solforoso da vespasiano, ma con scene, parole e sintassi ricche e variegate – il vero godimento dello scrittore. “Un frammento della mia vita interiore”, Genet propone, raccontato con “la voce del sangue”. Ma l’inchiostro è già sbiadito – inodore, insapore.
Effetto della novità dirompente, la crudità (crudeltà) sessuale, questo Genet è stato oggetto all’uscita di studi importanti che lo hanno seppellito invece di spiegarlo. Quello monumentale di Sartre, “Santo Genet commediante e martire”, tanto delirante che più non si ristampa, e quello critico di Bataille, subito pubblicato in “Critique”, e ora in “La letteratura e il male”. Sartre ne fece la pietra d’inciampo per “mostrare i limiti dell’interpretazione psicanalitica e della spiegazione marxista”. Per “provare che il genio non è un dono ma l’esito che s’inventa nei casi disperati”. Per fare “la storia di una liberazione”. Con esito opposto. Tahar ben Jelloun, che ha frequentato Genet nei suoi ultimi anni, in Marocco e a in Francia, lo dice lontano e anche polemico nei confronti di Sartre e de Beauvoir.
Analogo l’effetto di Bataille, anche se con più ragione, essendo il suo intento critico. La “trasgressione illimitata” isola e sterilizza Genet. Col “male approfondito”, il “male perfetto”, della triade furto, prostituzione e tradimento, Genet si esclude dalla “comunità morale”, e quindi dalla comunità. Dalla “ipermorale” che Bataille vuole dalla buona letteratura e nega a Genet – che però non dovrebbe essere uno stigma per Bataille, autore in proprio di fredde esercitazioni orgiastiche che sono invece il segno di una perversione (qui il senso è chiaro) illimitata, e dunque del male. L’effetto fu di isolare Genet, “mostruosizzarlo”.
Teatro
Alla rilettura, e senza più lo scandalo, che è anzi la sua zavorra, con più evidenza Genet è Villon. E uomo di teatro. Già alle prime prove d’autore, che furono narrative, qui riassemblate, di sesso e perversionePerversione? Bisogna intendersi, Genet è sempre teatrale: la falsificazione, il rovesciamento, il travestimento, la reversibilità dei contrari sono la sua seconda pelle. Subito dopo scriverà “Le serve”, che gli varrà l’immediata messinscena di Jouvet, e la canonizzazione come pietra di fondazione del “teatro dell’assurdo” – portandolo all’attenzione di Sartre e Gallimard, alla pubblicazione spettacolare dei testi “proibiti”.
Il Saggiatore ripropone l’edizione di Dario Gibelli. Che la dice “una rappresentazione rituale”. Genet stesso menziona a un certo punto la sua “logica teatrale”. È la traccia su cui si può e si dovrebbe rileggerlo – tentandone magari un assestamento, dopo lo scandalo e l’oblio: scrittore di teatro. Compreso il suo personale “teatrino” di bambino abbandonato, ladro, battone eccetera. Fu la sua ambizione tutta la vita, anche se resta narratore, con una sola commedia in repertorio – è molto rappresentato invece al cinema, con una dozzina di titoli che a lui si rifanno, e più tematicamente (in tre o quattro opere, per esempio, in questi giorni al festival di Cannes). Troppo letterato per essere un buon autore e uomo di teatro, ma con quell’insopprimibile esigenza: tutto vede e rappresenta come in scena.
Jean Genet, Nostre-dame-des-fleurs, Il Saggiatore, pp. 259 € 17 

martedì 12 maggio 2015

La stupidità non va in pensione

Allarme, presunzione, stupidità: l’onda sollevata dalla Corte Costituzionale con l’indicizzazione delle pensioni ha portato a galla impietosa un concentrato altrimenti inconcepibile di assurdità.
L’allarme è quello dell’opinione pubblica che si vuole fonte esclusiva di virtù in Italia: commentatori, specialisti, giornalisti. La maggiore spesa dell’Inps e delle casse private che la sentenza comporta, 4-5 miliardi, moltiplicano con lievità per tre e quattro volte. E tirano in ballo a ogni virgola la Ue in veste di maestrina correttrice.
La presunzione è quella di Tito Boeri. L’ultimo, si spera, dei professori milanesi a Roma le pensioni in essere propone di ricalcolare col contributivo. Dimostrandosi digiuno, oltre che di diritto, di economia. Molte pensioni, calcolate e corrisposte col metodo retributivo (l’80 per cento della media mensile degli ultimi dieci anni di retribuzione), aumenterebbero se calcolate sulla base delle contribuzioni – il contributivo è stato annegato per anni nel calderone Inps per finanziare i più sfavoriti.
Questo professore è stato peraltro parte per anni dell’opinione pubblica dei belli-e-buoni – i pieni-di-sé: si capisce che non capisca. Ma ora lo doppia Italia Unica dell’infaticabile Passera, che vuole a tutti i costi l’aggravio per l’Inps, per effetto della sentenza della Consulta sulle pensione, in 25 miliardi, cinque e sei volte la cifra vera. In odio ai pensionati? Può darsi, ma prima viene la superficialità e la supponenza di Milano, patria di entrambi i grandi economisti, esperti, tecnici.
che pensare di un certo Zanetti che il professor Monti ci ha imposto a sottosegretario all’Economia, il quale fa lezione ogni giorno al presidente del consiglio Renzi e al ministro Padoan di scienza delle Finanze e di etica politica? Questo commercialista – di suo esercita a Venezia - vorrebbe cancellare le pensioni, essendo un (ricco) pauperista. E va sui giornali, il cerchio si chiude.

Sherlock Holmes a Pietroburgo, contro Ripellino

Si ripubblica l’edizione voluta e approntata da Ripellino nel 1961 per Einaudi, poi riedita nel 1980. Che si segnala sopratutto per la prefazione. Nella quale c’è di tutto, il Narrenspiel, Solov’ëv e il panmongolismo, Butor (Butor?), un parallelo tra Pietroburgo e Dublino, e tra Belyj e Joyce. Nonché i rapporti duri tra lo scrittore e il padre, un matematico importante all’università, Nikolaj Vasilevič Bugaev, in odio al quale il figlio prenderà lo pseudonimo Belyj, il Bianco. Ma non c’è “Pietroburgo”. C’è la città, fredda, cupa, sporca, come c’è nel libro. Ma non c’è il libro, la storia. E nemmeno Belyj. Lo spiritaccio di Belyj. Forse Ripellino lo dà per scontato, ma il lettore vorrebbe saperne qualcosa: dopo aver letto la sua dottissima introduzione non si raccapezza.
La fortuna di Belyj in Italia sta con Ripellino, che ne provocò la tardiva scoperta negli anni 1960 con questa traduzione, e negli anni 1980 con la sua riproposta. Ma lasciandolo nell’oscurità – di cui questa terza edizione sembra vittima. Si legge avidamente Ripellino, ma con sgomento. Fa di Belyj perfino “un razionalista”, poiché leggeva Kant, e il neo kantiano Hermann Cohen. Che sa di bislacco, Belyj visse tra i teosofi: i nipoti di Solov’ëv, Florenskij, Steiner. L’unica prospettiva, si può dire, che Ripellino non prospetta, di questo romanzo senza “alcuna prospettiva”, è quella vera, oltre che più stuzzicante: quella comica.
La storia è di un atto terroristico in famiglia. Che nessuno in realtà vuole, se non una volontà segreta, anonima e inafferrabile – le infiltrazione tra rivoluzionari e servizi segreti sono interminabili. Non succede null’altro, neanche quando la bomba scoppia: è una storia senza una fine, la fine è il modo di raccontarla. Che si rifà a Sherlock Holmes – il richiamo a Conan Doyle è l’unico di Ripellino in tema. Ma anche al futurismo, e al surrealismo: il dettaglismo di Belyj è molto onirico, al limite del meccanico. Il simbolismo russo è una tarda professione, post-futurista e pre-surrealista. Le quattrocento pagine si reggono sull’invenzione costante, di linguaggi di punti di vista, di tempi sfalsati, di maschere su maschere. Si procede con la moltiplica, a ritmo accelerato. Si vive una realtà altra, non quella canonica del “personaggio”.
L’attentato è in realtà un addio al mondo, azionato dalla vittima – al romanzo Belyj lavorò per oltre un decennio, con riedizioni e rifacimenti. L’addio alla carriera, all’ordine, alla carriera dell’ordine, alla famiglia, a tutto ciò che nella figura del padre s’impersona, la moglie in fuga a sessant’anni col cantante d’opera, il figlio perduto in “una rara forma di squilibrio mentale”. Non la rivolta del figlio, attentatore suo malgrado, per una serie di equivoci,  ma la constatazione della sua inadeguatezza. In effetti Sherlock Holmes si sarebbe divertito.
Andrej Belyi, Pietroburgo, Adelphi, pp. 384 € 22

lunedì 11 maggio 2015

Recessione - 35

“Rate non pagate a livelli record., superata quota 56 miliardi”, calcola “Il Sole 24 Ore”: “Per il 90 per cento gravano sulle famiglie”. I consumi sono molto più contratti di fatto di quanto figurino sulla carta. 

Si incontrano stabilmente nei mercati rionali e nei supermercati persone dignitose in età perplesse su ogni acquisto, che soppesano e valutano, rifacendo mentalmente i conti. Fruttivendole, commesse e cassiere ne riconoscono la tipologia, che trattano con generosità, nel peso e nel costo. 

In aprile gli acquisti sono diminuiti del 20-30 per cento a Roma, calcola Confesercenti. Per abbigliamento e scarpe il blocco è praticamente totale.

La disoccupazione torna al 13 per cento.

Vengono allontanati in blocco, soprattutto nello Stato e nella grande distribuzione (Auchan, Carrefour, MacDonald), i vecchi contrattisti a termine, per le nuove figure interinali, avviate dai Centri Impiego, con oneri sociali a carico dello Stato. Che in futuro dovrebbero sboccare in contratti a tempo indeterminato, ma nell’immediato hanno riavviato alla disoccupazione più giovani di quanto beneficiano del Jobs Act. 

La fine dei cristiani nel Medio Oriente

Era inevitabile, e la storia si rovescia. Dopo lo sbandamento anticristiano in Europa, il movimento di bascula porta ora in vita le persecuzioni contro i cristiani, i pogrom, le vendette quotidiane, gli stermini. A una coscienza schierata a difesa dei ceceni, dei bosniaci bosniaci (cioè antiserbi e anticroati), e dei kossovari, anche banditi e trafficanti di droga. Vittime migliaia, decine, centinaia di migliaia, milioni di cristiani, e più di quelli che in qualche modo si collegano alla chiesa di Roma. Segno, anche, di un disegno non tanto occulto.
Il lavoro di Riccardi è storico: la ricostruzione dell’eccidio in Turchia cent’anni fa, nel quadro dello sterminio degli armeni, di comunità raccolte nella città di Mardin che avevano illustrato quella terra per millenni e oggi sono dimenticate: i siriaci, i caldei, gli assiri. Una strage doppiamente colpevole, arguisce, per il silenzio ostinato di cui si è voluto ricoprirla.      
Andrea Riccardi, La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondoLaterza, pp. IX-228 € 18

domenica 10 maggio 2015

La Federazione Calcio ci paghi i danni

Perché la Lazio non chiederebbe i danni? Non la società, un tifoso qualunque, o un azionista – la Lazio è ben in Borsa, l’arbitro Massa è un sabotatore. C’è la responsabilità civile dei giudici, perché non ci sarebbe degli arbitri e dei loro danti causa? Quelli di Massa non sono stati errori, né segni di incapacità, ma decisioni extracalcistiche.
Dà un fallo da ultimo uomo che non è da ultimo uomo. Espelle l’autore del fallo, veniale, benché nessun regolamento lo preveda – in Champions League veri falli da ultimo uomo, a un passo dalla porta, sono stati sanzionati solo con la punizione. Sulla conseguente punizione non vede i calciatori in nettissimo fuorigioco che propiziano il goal. Una sequenza orrenda. Ma non è finita: l’incredibile Massa dà poi un rigore e un’altra espulsione su fallo che non c’era, c’era la simulazione del fallo. Che altro?
Non si può simpatizzare con la Lazio, i suoi punitori sono laziali emeriti, Mancini, Hernanes – il ghigno dell’uno nel postpartita e le bugie dell’altro ne misurano l’etica. All’origine dello sfascio c’è peraltro il presidente laziale Lotito, col suo compare Tavecchio. Ma questo non è sport. Ci hanno speculato? Non vogliono andare in Champions League – i mediocri temono l’eccellenza? Ma un arbitraggio così scandaloso non si può passare sotto silenzio.
Il ghigno di Hernanes e le bugie di Mancini sono stati esibiti, non contestati, alla “Domenica Sportiva”, e questo è un altro lato del problema: lo squallore morale della Rai, che non è una novità. Per altre squadre e atre partire guardano ai millimetri in interminabili falsate moviole, per i furbi - o i veri potenti - onore al merito..

Stupidario europeo quater

L’ebook non è libro per l’Unione Europea

Il profugo non è vittima

Le frontiere aperte si chiudono alle Alpi

La Russia non è Europa

La Grecia è da vedere

Il grana si fa nei paesi Baltici, anche in Polonia

Il pelato di pomodoro in Olanda

L’ebreo incapace di amare

Alla rilettura è peggio: è un romanzo antisemita. È la storia di un ebreo condannato a non amare, per una colpa che non viene detta, quindi per la sua condizione esistenziale. E d’ignobile sadismo, sotto forma di gelosia, incapace di apprezzare la musica e ogni altra bellezza, che la politica di cui vive riduce a conventicola e carriera.
Un accumulo di revulsioni. Tutte distintamente marchiate dall’ebraismo. Sulla stessa tela di fondo, a Ginevra, di cordate, intrighi, superficialità, snobismi, che spinsero Céline a vomitare – Cohen fu diplomatico al Bit di Ginevra negli stessi anni in cui Céline era all’Oms. Un atto di dolore? Personale – Cohen è anche lui nativo di Corfù come il protagonista? No, lo scrittore non appariva intristito a “Apostrophes” all’uscita del suo romanzone, né addolorato, solo contento del suo piccolo successo.
È una violenta parodia dell’amour fou, o dell’amore. Ma a danno di una donna senza volto? E perché il cattivo è un ebreo di Corfù, con i suoi strampalati parenti? Tutti peraltro improbabili, il protagonista compreso, e innecessari. Qual è la chiave – altra che l’odio-di-sé?
Cohen ha pure scritto un libro d’amore. Per sua madre. Nasce da lì l’insolenza contro le donne – l’insolenza?
Albert Cohen, La bella del Signore