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sabato 6 giugno 2015

La verità del calcio

Il calcio è un business in forma di sport. Un business dello sport. Questa è la prima verità. In Italia è dominato da Berlusconi. Più delle televisioni. Anche come profitto, sicuramente come potere. Attraverso la Lega di Beretta, cioè di Galliani, la Federazione di Tavecchio (Tavecchio!) e Lotito, e gli arbitri del famiglio Collina. Gli altri sono complici o fresconi. Potrebbe essere il caso degli Agnelli-Elkann, nella migliore delle ipotesi, i soli a non capire che il calcio è immagine, non da ora: fuffa, e moviole truccate - Berlusconi li ha sempre messi nel sacco, fin dai tempi dell’Avvocato, parte della trasmigrazione di Torino, capitale degli affari, a Milano..
La Juventus doveva andare a Berlino per tirare la volata a Canale 5. E per moltiplicare gli abbonamenti in vista della privativa Champions che Berlusconi si è assicurata – con una “scaletta” precisa, la finale di Champions 2016, il primo anno dell’esclusiva, sarà a Milano. Ma non vincere - sarebbe diventata potente e poteva sparigliare.

Tutto questo è risaputo e tenuto da conto nelle redazioni Mediaset. Il”vecchio” tifo sì, il “vecchio” calcio delle vecchie glorie, tutto finezze e gladiatori, ma fino a un certo punto. Alcuni commentatori si trovano a disagio, Sacchi, l’onesto Serena, Tacchinardi. Ma Berlusconi è un ottimo uomo d’affari, di questo non si può dubitare – ha appena venduto il niente di una non-entity per mezzo miliardo. E, non si dice, ma ha già condiviso i diritti Champions, con un profitto, con Sky (la cosa è stata camuffata con le celebrazioni dei due “figli”, di Sky e Mediaset). Non si può contrastare.

Stupidario Champions

C’era Collina a Berlino, non c’era partita

Si disputavano la Champions due allenatori licenziati per incapacità


È la Gazprom di Putin che ci paga la Champions, senza sanzioni

Barcellona, paternostri e milioni: Dio è sensibile

Giocavano una squadra di refoulés, Evra, Tevez, Pirlo, Morata, Llorente, contro una di milionari: il calcio deve rispettare i bilanci

Morata non va bene in Spagna perché non si segna?

L’arbitro turco è stato perfetto: ammonizioni subito alla Juventus, simulazioni libere per il Barcellona, dell’osceno Suarez in testa, per interrompere il ritmo della Juventus, e niente punizioni contro, solo alla fine, nell’area di Buffon. Sembrava Collina, con i capelli

La Fifa è corrotta e l’Uefa no. Com’è possibile?

Letture - 217

letterautore

Autofiction – Vira al sacro? Torneranno le prime comunioni? Anche il catechismo. Invece dei turbamenti sessuali e le inevitabili crudeltà, mutuati dalla psicoanalisi volgare.
In rapido sorpasso ultimamente dai social: Facebook, Insegreto, Instagram, PostSecret, Erbadelvicino, Sfoghiamoci, Snapchat, What’a app. Sarà per questo che i più assidui cultori del genere, Carrère, Houellebecq, anche Veronesi, hanno virato al sacro. Come memoria meno frequentata, o peccaminosa a rovescio, delle gelosie e le fantasie morbose - anche il sacro può essere morboso, ma nel genere dilettazione, senza orgasmo, richiede cioè più raffinatezza.

Dante – “Ha messo in scena una delle più grandi autofiction della storia letteraria”, dice Vittorio Sermonti, il suo massimo frequentatore . O non voleva dire il contrario? Lo stesso Sermonti continua, parlandone con Roberta Scorranese sul “Corriere della sera” domenica 31: “Scrive di un esilio già avvenuto come se dovesse avvenire”. Un autore esiliato, e perseguitato nell’esilio, come Dante è stato, non avrebbe parlato di altro. Lui è stato capace di qualcosa dei tutto diverso.
Ancora Sermonti: “Dante si meraviglia in continuazione. Delle miserie umane come delle altezze”.

Dialetto – Le intercettazioni di Mafia Capitale danno curiosamente ai protagonisti delle cooperative ex carcerati, quelli che usano il romanesco come vera lingua, una dimensione meno corrotta, e comunque non squallida, rispetto ai loro interlocutori nell’amministrazione e la politica. I “burocorrotti” sono falsi anche nella parlata. “Piccoli”, nel senso che la loro corruzione è micragnosa, ed è anche diffusa – non è “mafia”, è proprio un modo di essere. Il romanesco di Buzzi e Carminati è invece solido, disincantato come dev’essere il romanesco (quello di Gadda, giustamente, non di Pasolini), misuratamente inventivo (quel “mondo di mezzo”…) come in Belli, e non è avido. È acconciarsi, uno che ha fatto vent’anni di carcere sa qual è il galateo, a un modo d’essere. È una lingua “onesta”.
È una verità linguistica onesta, quella dei capimafia di Prestipino e Pignatone, anche nei confronti dei cronisti e dei commentatori. Tutti (più o meno) corrotti, nel loro piccolo ovviamente, che si stacciano le vesti al lamento: “Gentaglia!”

Femminicidio – Continua a latitare in letteratura, malgrado sia al centro dell’attualità, cui il romanzo da qualche decennio è sensibile. Ci sono romanzi sul terrorismo, sulla pedofilia (ora in declino) e gli orchi, molti sugli immigrati, il femminicidio invece non attecchisce. Nemmeno come “scrittura femminile”, come usava dire. Nemmeno in aspetto esotico, il femminicidio in India o in ambito islamici, delle figlie, delle sorelle, delle adultere, delle donne sole. È per stanchezza dell’instant-novel? È che, malgrado il clamore, il fatto è “scontato” – vecchio, tradizionale, al limite della follia o del suicidio? O gli uomini, che ancora fanno i quattro quinti dei narratori, non sono più “femministi”.

Primo Levi – È probabilmente l’autore più dantesco, anzi il solo, del Novecento. Senza volerlo, ma più di altri che ci avrebbero ambito e ne hanno fatto il progetto. Uno che all’inferno c’è stato realmente. E poi ha saputo elaborarlo – l’elaborazione del lutto. Altri se ne sono fatti schiacciare, o ne hanno fatto mercimonio, Primo Levi è andato molto più a fondo nell’ignominia. L’ironia, il distacco invece del furore, lo tiene lontano da Dante, che è citazione facile che lui non fa, forse non amandolo, ma allora è un dantesco senza volerlo: i suoi racconti sono le “montagne” dello sterminio, il suo viaggio notturno, “Se questo è un uomo” è l’“Inferno”, “La tregua” il “Purgatorio” e il “Paradiso” insieme, col riso invece del sublime.

Mondialatinizzazione – “Il mondo oggi parla latino (più spesso attraverso l’anglo-americano”, sostiene Derrida in un saggio del 1995, “Fede e sapere”. Lo rileva in fatto di religione, parola e concetto tutto latino, ma poi degli altri linguaggi fondamentali, giuridico, filosofico e anche scientifico e “ciberspaziale”, tutti legati originariamente alla religio. “La questione della religio non si confonde semplicemente, se si  può dire, con la questione del latino?”.

Successivamemte, nel saggio-intervista con Michel Wieviorka, su “Le Monde des Débats”  del 9 dicembre 1999, Derrida precisa di usare mondialatinizzazione al posto di “mondializzazione”, che il francese preferisce a globalizzazione, “per prendere in conto l’effetto della  cristianità romana che surdetermina oggi tutto il linguaggio del diritto, della politica, e anche l’interpretazione del cosiddetto«ritorno alla religione». Nessun preteso disincanto, nessuna secolarizzazione viene a interromperla, anzi al contrario”.
Era la lezione di Hannah Arendt storica delle idee, che tutta la terminologia (e le forme e le procedure, specie in materia di elezioni, rappresentanza, autorità) politica moderna e contemporanea era derivata dal latino - ma attraverso e nella chiesa, che Derrida non nomina. La mondialatinizzazione peraltro Derrida teorizzava quando già l’Europa e la stessa cristianità romana avevano da tempo e con costanza rinunciato all’eredita latina.

Non luoghi – Hanno disidratato la letteratura. Che mentre è affollata, e moltiplicata nei tempi, accelerati, ritardati, fermati, proiettati nel futuro e nel passato, in millenni e anni luce, è singolarmente omogeneizzata in quanto ai luoghi. Che più non si danno – sono nominati, ma di nomi che suonano falsi anche quando sono veri, e a cui non corrisponde nessun carattere. Che è invece il proprio dei luoghi, quello che fa una cultura, e dà diversa dimensione alle personalità, e agli stessi eventi. La vita si vuole radicata.
Peter Handke lo dice di suo a Alessandra Iadicicco su “Lettura” domenica: “Sento la mancanza di una letteratura mondiale, di quella che Goethe chiama la Wetliteratur, che nasce dall’eterno scambio tra i popoli attraverso i confini e i linguaggi”. Mentre “i confini culturali” si fanno “sempre più forti”, i libri sembrano venire da un altro mondo: “I libri… sono scritti dappertutto nello stesso modo, in America, Russia, Cina”. Precisa: “Non parlo di libri veri”. Ma chi ne parla? 
Handke riferisce lo spaesamento a se stesso, come di un problema personale: “Sarà perché soffro da sempre per la mancanza di un luogo, perché dall’infanzia conosco il dolore dello sradicamento”. Questo è vero anche per gli “emigrati dall’interno”, per  esempio nell’Italia leghista – localista, campanilista, razzista.    

Traduzione – Non un’evasione ma una riscoperta della propria lingua, del proprio mondo, per il traduttore: una immedesimazione in se stessi. Una ricerca su se stessi prima che sul mondo del’autore  o del’opera d a tradurre.

“Tradurre è vampiresco”, sbotta Handke nella stessa intervista con Iadicicco, basandosi sulla sua esperienza personale: “Ti divora l’anima, non la nutre a sufficienza”. Ma poi riconosce anche lui che è servita a radicarlo – lui dice a salvarlo: “La lingua che usai per tradurre mi riportò al mio posto” - al tedesco, a Salisburgo, all’Austria originaria in vario modo rifiutata.

letterautore@antiit.eu

L’Is vent’anni fa - Dio è morto, ma non per l’islam

Dio è morto, dunque, ma non per l’“islamismo”, è qui la radice dell’alluvione “islamica”. Derrida mette la parola tra virgolette, per sottintendere che ciò che sul campo di battaglia si richiama all’islam non è l’islam, che la guerra di religione non è la religione. Ma poi se ne dimentica – vuole essere politicamente corretto, vent’anni fa era d’obbligo, poi la verità del fatto lo sopraffà. 
Derrida procede circospetto ma per sapere già molte cose. Aperto al solito, problematico, ipotetico, possibilista, mentre ha salde verità. Invitato a Capri il 24 febbraio 1994 a un convegno di “filosofia europea”, propone come tema la religione, lui steso non sa perché, e si esercita ad abbattere molti degli stereotipi d’uso. La religione è qui, non ritorna. La religione va di conserva con la ragione – Voltaire lo sapeva, Nietzsche pure.  Il “ritorno della religione” è altra cosa, è cioè il déferlement dell’islam, lo straripamento La tolleranza è intollerante. “Ci si accecherebbe al fenomeno detto della «religione»”, invece di chiarirlo, “o del «ritorno della religione» oggi se si continuasse a opporre così ingenuamente la Ragione e la Religione, la Critica o la Scienza e la Relgione, la Modernità tecnico-scientifica e  la Religione”.
Un déferlement anche del filosofo, imperioso e incontenibile, come se fosse caduto, sia pure per caso, in un terreno fertile, a ogni riga. Dapprima vertiginoso. Per esempio al § 29 del post-scriptum: “La religione´? Risposta: «La religione, è la risposta»”. E mille altre sottili contestazioni della vulgata del Dio morto, del neo positivismo. In dialogo ostante con Benveniste, “Il Vocabolario delle istituzioni indo-europee”. Poi al solito contorto, in avvitamento costante. Partendo dall’ingolfamento repentino nella “sacro-santità dell’effetto fallico”, o “carno-fallogocentrico… percorso di un lavoro avvenire”. Per la notoria golosità, e per il feticismo verbale – il filosofo praticava troppe lingue.
Il femminicidio – c’è pure il femminicidio - a questo punto mette in carico alla religione, non più ragione ma circoncisione, del cuore se non della carne, con toni da propaganda di guerra: “Nello scatenamento più assassino di una violenza indissolubilmente etnico-religiosa, da tutti i lati, le donne sono delle vittime privilegiate non soltanto, se si può dire, di tante condanne a morte, ma degli stupri o mutilazioni che le precedono o le accompagnano”. Per concludere: “La religione del vivente, non è questa una tautologia?” Meglio quella del non vivente?
Ma più tempi Derrida pone icastico – qui al suo meglio: motorino d’avviamento, moltiplica e albero di trasmissione. Quello principale invece, che merita evidenziare, riporta a Kant, “La religione nei limiti della sola ragione”. La religione oggi? La religione (atto di fede, promessa, avvenire, attesa senza attesa, della morte e dell’altro, rapporto alla singolarità dell’altro) “non può che cominciare e ri-cominciare, quasi automaticamente, meccanicamente, macchinalmente, spontaneamente… nel deserto nel deserto”. Cioè nel vuoto. Siamo in tema in puro derridiano, con la cosa della cosa, e la performatività, ma il senso resta chiaro - benché scoperto, e un filo filisteo: l’essere rifugge dal vuoto, e il “ri-legare” (il senso originario di religio) torna “spontaneamente, cioè, come la parola indica, insieme come l’origine di ciò che scorre da una sorgente, sponte sua, e con l’automaticità del macchinale”. Per il meglio e per il peggio, “senza nessuna assicurazione né orizzonte antropo-teologico.
Nell’erranza – il pastore errante nel deserto, etc. - la religione “ritorna”, cioè riemerge, riappare. Un po’ remota per noi che “condividiamo… un gusto senza riserva, se non una preferenza incondizionale, per ciò che, in politica, si chiama la democrazia repubblicana”, emergendo dogmatica, non ortodossa. Ma è il fondo ineliminabile del messianismo, dell’attesa. Cui si coniuga la khora, altro derridismo, derivato da Platone. La patria fuori le mura della città, il luogo figurato tra essere e non essere in cui le “orme” originarie si trovano, in attesa di dispiegarsi – Heidegger ne aveva riparlato come di una clearing house, un spazio fuori dogana in cui l’essere si esercita. L’indefinito individuale, un sostrato, “né soglia né lutto” (ni seuil ni deuil): “Nella nostra memoria ciò che non è riappropriable….. questo immemoriale di un deserto nel deserto”. L’opinione – i “caratteri fondamentali della storiografia degli Annales vi si avvicinano di più.
 Alla religione Derrida paga tributo, riconoscente se non devoto - da buon conoscitore della dogmatica, la patristica, la ritualità e perfino la storia politica del cristianesimo romano. Contesta che ci sia un “ritorno alla religione”, poiché non c’è stato allontanamento.  Lo fa attraverso il concetto, apparentemente collaterale, del linguaggio della religione, che è il latino. Proponendo anzi di ribattezzare “mondialatinizzazione” la “mondializzazione”, francesismo per globalizzazione, “per prendere in conto l’effetto della  cristianità romana che surdetermina oggi tutto il linguaggio del diritto, della politica, e anche l’interpretazione del cosiddetto «ritorno alla religione». Nessun preteso disincanto, nessuna secolarizzazione viene a interromperla, anzi al contrario”. La religio è qui: sia nell’etimologia-accezione di Cicerone, relegere, e cioè “l’attenzione scrupolosa, il rispetto, la pazienza, se non il pudore e la pietà”, sia in quella di Lattanzio e Tertuliano, religare, “inventata dai cristiani” secondo Benveniste, per connettere la religione al “legame”, a un obbligo, “e dunque al dovere e dunque al debito, etc., tra gli uomini e verso Dio”
“Pensare religione è pensare il «romano»”. A Capri, non lontano da Roma ma già in ambiente “italico” e non “romano”. In ambito cosmopolita ma circoscritto, isolato, quasi eremitico, e occidentale, europeo, in quattro lingue, francese, tedesco, spagnolo e italiano. “La cui «cultura» comune, diciamolo, più è manifestamente cristiana, appena giudeo-cristiana”. A proposito di una religione che, “europea, fu anzitutto latina”. Fu, dunque.
I convenuti di Capri discutono del “ritorno al religioso”, ma in che senso – nella domanda è la risposta. “Un’alternativa opponeva da un lato la Religione, dall’altro la Ragione, l’Illuminismo, la Scienza, la Critica (la critica marxista, la genealogia nietzscheana, la psicanalisi freudiana e la loro eredità), come se non si potesse non finirla con l’altro”? O non “ciò che “la doxa”, l’opinione pubblica, “determina confusamente come «fondamentalismo», «integrismo», «fanatismo»”? E insomma, sia pure l’integralismo comune a tutte le religioni monoteistiche e esclusive, “che dire dell’islam, giustamente”? Il “ritorno” all’islam, dunque. Dell’islamismo e non dell’islam, certo, ma quello non “si esercita nel nome di questo”? Di più: “Mai trattare come un accidente la forza del nome in ciò che avviene, si fa, si dice nel nome di una religione, in questo caso dell’islam”.
Sull’islam il giudizio è poco filosofico. Anche il giudizio politico è semplicistico. Ma c’è di mezzo la storia vivente, l’attualità, con robuste evidenze – comprese quelle digitali: “Come altre in passato, le nuove «guerre di religione» si scatenano sulla terra umana (che non è il mondo) e lottano anche oggi per controllare il cielo col dito e con l’occhio: sistema digitale e visualizzazione panottica virtualmente immediata”. Tenta all’inizio di metterla sul difficile: “Non si capirà l’inondazione «islamica»… se non si determina il luogo del passaggio tra questa interiorità e tutte le dimensioni apparentemente esterne (tecno-scientifiche, tele-biotecnologiche, cioè anche politiche e socio-economiche, etc.”. Ma non ce n’è bisogno. Di fatto è il conflitto del mondo arabo, del deserto proprio, con la modernizzazione. Che però c’è stato per secoli senza fondamentalismi, fino a Khomeini  - che in realtà è un falso fondamentalista, un realista nazionalista.
Il tema è questo: “Ciò che si assembla precipitosamente sotto il riferimento «islamico» sembra oggi detenere qualche privilegio mondiale, o geopolitico, a motivo delle natura delle sue violenze fisiche, di alcune delle sue violenze dichiarate del modello democratico e del diritto internazionale (il «caso Rushdie» e tanti altri – e il «diritto alla letteratura»), a motivo della forma insieme arcaica e moderna dei suoi crimini «nel nome della religione», delle sue dimensioni demografiche, delle sue figure fallocentriche e teologico-politiche”. Sembra, dunque.
Che dirne? È una congiuntura politica e non un destino – Derrida non lo dice, ma lo è. Fallocentrica solo se non si oblitera la donna in quella “cultura”, dove è al centro delle politiche tribali matrimoniali, e formatrice, non solo fattrice, della discendenza, così centrale in quella khora. E perché non petrolifera? Il petrolio non è filosofico ma è storico.
Il saggio fu pubblicato in italiano nel 1995 da Laterza come “Annuario Filosofico Europeo”, sotto titolo “La religione”, a cura di Vattimo e dello stesso Derrida. Non più ripubblicato in Italia, non conciliandosi con la presumibile intenzione dell’editore, “Fede e sapere” è rimasto fertile in Francia.
Derrida non lo fa – di proposito? – ma è impossibile non collegare i due termini che nella sua trattazione ritornano e s’intrecciano: il Dio vivente e il déferlement islamico”. Tre con la “mondialatinizzazione”, il latino anglosassonizzato della comunicazione, della politica e del diritto.
Jacques Derrida, Foi et savoir, Editions du Seuil, pp. 133 € 7,50

venerdì 5 giugno 2015

Ombre - 270

Grande delusione alle elezioi perché a Arezzo, la sua città, Boschi non ha vinto, il candidato Pd. Boschi che già si fantasticava prima presidente del consiglio donna, etc. Ma perché non avrebbe vnto? Ha vinto il candidato di Verdini, e dunque? Boschi Verdini pari sono, che differenza c'è - il Genere (sesso) non fa più differenza.  

 il candidato di L’economista Giavazzi volentieri vedrebbe la Grecia fuori della Ue. Ma ha un dubbio: “La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera  geopolitica fra Europa e paesi islamici, in primis  la Turchia”.
Dio ne liberi? Ci interessa è la parola giusta - è l’Europa. Ma la Grecia ponte alla Turchia?

160 bergamaschi sono sulla “Gazzetta dello Sport” perché tifano Barcelona, e sabato saranno a Berlino o a Barcellona a festeggiare. Non per odio contro la Juventus, per amore del Barcellona: sono i membri di due circoli, orgogliosamente ribattezzati peynas, catalani. “Siamo la regione più catalana d’Italia”, vantano orgogliosi. Tanto da rendere la Catalogna e il Barcellona antipatici.

Jovanotti ospite d’onore all’Ateneo fiorentino, spiega agli studenti che lavorare gratis fa bene. Ateneo fiorentino? Gli studenti erano entusiasti.

Lo stesso Jovanotti ha spiegato ai giovani dell’Ateneo fiorentino che la politica “non conta niente”. Tutto pur di non dire che il sovetismo ha fatto il suo tempo: i resti del Pci non finiscono di avvelenare l’Italia.

Non si ha idea dai media del panico in cui le Regionali hanno precipitato il Pd. In ogni città, in ogni paese è una corsa a smarcarsi: sindaci contro vice-sindaci, e viceversa, assessori che tornano di corsa alle professioni, segretari di sezione contro candidati consiglieri regionali, candidati contro segretari. È un partito di vincenti?

Vergaio. Il paese di Benigni e di Berlinguer santo, ha votato Lega.
Fischia il vento, infuria la bufera,
urge cambiar bandiera.  

Rafaella Paita, che ha perso in Liguria contro Toti, si porta vincente da Floris: “Toti ha un solo consigliere di maggioranza, gli renderemo la vita difficile”. Ed è certa che presto si rivoterà. Per la governabilità?

Visco, governatore della Banca d’Italia: “L’eccesso di deregulation finanziaria è una della ragioni della recessione”. Si sapeva, ma non doveva occuparsene Draghi, da capo del Financial Stability Forum? Che non ha fatto nulla, cioè ha fato che non si facesse nulla. Anche da presidente della Bce, che tanta speculazione ha favorito, a spese dell’Italia e della Grecia.
Draghi è un uomo delle banche, della derelation finanziaria, ma non si dice. Non si può dire?

Travaglio e Cofferati non fanno in tempo a finire la frase contro Renzi che un applauso li copre nello studio di Floris martedì. E poi al comizio senza interruzioni di Salvini. La regia è inflessibile, un applauso ogni dieci secondi, l’ascolto una tortura. Ma non si deve pensarne male: il pubblico, sempre “molto bello”, per una volta si è guadagnati i 50 euro di paghetta.

La 7 cavalca Salvini? E a che pro, la Lega non fa audience. E poi, Floris non è un progressista, e anzi uno del Pd? No, è il giornalismo investigativo all’italiana, furbo, furbissimo.

Perdono due milioni di voti – l’uno – Renzi, Berlusconi e Grillo. Solo Salvini li aumenta, di una quarto di milione. Con la campagna elettorale del bulldozer nei campi rom. Che segno dare alle elezioni?

Nel centenario della guerra con un milione e mezzo di morti per liberarne i confini, il Veneto vota 7-3 per la Lega.

I candidati democrat alle Regionali sono tutti – erano – contro Renzi alle primarie, quando votarono Bersani.

È da ridere Berlusconi che sbaglia comizio nella “sua” Segrate, e va a patrocinare  il candidato sindaco del Pd? Sì, ma non è una gag del produttore emerito di “Drive In”: è la sindrome del capo sono io e faccio tutto io,i tanti attendenti che lo servono non vedono e non capiscono nulla.

Firenze si allarga l’aeroporto a Peretola. Deridendo ogni obiezione, compresa la limitrofa università. Un aeroporto che sarà per necessità asfittico, serve giusto a portare i charter del turismo dei pensionati a basso prezzo.
Peretola era un aeroporto militare: si chiudeva il traffico sulla statale quando scendeva o decollava un aereo.

Firenze, una capitale della cultura, che confina l’università all’estrema periferia, tra autostrada e aeroporto, per fare largo in città ai turisti, cioè ai paninari. La cultura ha cambiato segno

Nove miliardi di abbonamenti ai telefoni cellulari nel mondo, per una popolazione di sette miliardi.  Due ogni persona adulta, ricchi e e poveri uniti nella lotta. Never had it so good, come in questa epoca di crisi – la crisi è dell’Europa, che non sa vivere la globalizzazione.

La grande carestia maoista

“La Grande Carestia avrebbe causato alla popolazione cinese la perdita di circa 36 milioni di persone”. “Avrebbe”: il linguaggio è quello remissivo dei liberali, anche del “Bruno Leoni”,  sempre più panda allo zoo. Il fatto è agghiacciante, l’immolazione di milioni di cinesi a un ordine di Mao, la storia del comunismo non finisce di rivelarsi catastrofica, e non per caso.
 Forse i morti furono 17 milioni, secondo una stima, forse 23, secondo un’altra stima, forse  “trenta o quaranta milioni di persone”. Trenta o quaranta? Questo è il peggio di tutto: che i cinesi morivano a milioni, nessuno ne sapeva niente, fuori della Cina e probabilmente anche in Cina, e un cinese morto non contava, non se ne faceva nemmeno la statistica.
Morivano non per la siccità, per mancanza di cibo. forse per l’esosità dei rimborsi pretesi dall’Unione Sovietica – l’internazionalismo rivoluzionario non era gratuito. Forse per la disorganizzazione della Cina di Mao, per la collettivizzazione forzata, per la decisione di sradicare quell’immenso popolo di contadini, un miliardo?, che era la Cina. Per l’idea forsennata del balzo in avanti, del demiurgo, del redentore. Sicuramente per la corruzione.
Non nel Medio Evo, cinquant’anni fa.  
Yang Jisheng, Tombstone. La grande carestia cinese (1958-19962), estratto free online www.brunoleoni.it

giovedì 4 giugno 2015

Il vaffa di Tsipras, la gloria del G 7

Si risolve la crisi greca perché “Berlino vuole l’accordo”. Angela Merkel “ha convocato” - proprio così - a Berlino Lagarde, Draghi, Juncker e Hollande e ha detto che la Grecia va salvata.
Merkel “salva” la Grecia perché vuole un G 7 “storico” a Berlino. È per questo su tutte le tv delle capitali del mondo con interviste illuminate. E ha per questo chiuso le frontiere ai black bloc e affini, fregandosene di Schengen - le ha chiuse a sud al Brennero, che in teoria sarebbe Austria. Ma la salva anche perché Tsipras ha sfidato Berlino e i suoi accoliti: lo ha fatto alla Grillo, con un “vaffa”, ma le banche, che sono soprattutto tedesche, hanno capito che non era aria, e hanno scelto di recuperare qualcosa invece di niente. La minaccia del “grexit” essendo spuntata, nulla di peggio potendo comportare per la Grecia.

La Germania non è più quella, la Ue non è una famiglia

Una brutta crisi con una brutta lezione: l’Europa è stata abbandonata alla Germania, e la Germania ha fatto di tutto il peggio. Al solo scopo di avvantaggiarsene in proprio.
La Germania vuole la Grecia salva dopo sei anni di persecuzioni e di lutti. Della Grecia avendo fatto uno scoglio, su cui portare – letteralmente portare – al naufragio mezza Europa, l’Italia per prima. È il modo di essere di Angela Merkel e dei suoi governi, alternatamente di sinistra e di destra. È anche il modo di essere della Germania, ma questo lo sostiene Merkel: l’opinione in Germania è meno compattamente merkeliana di come si fa presentare.
È sicuramente il modo di essere dell’Europa, Italia compresa per la sua inettitudine.
Storicizzando, la Germania non è più quella divisa, e nel bisogno, è una potenza continentale, che guarda a se stessa. Non da ora, ma nella crisi a maggior ragione. L’Europa non è una famiglia come vuole la melensa vulgata. O allora una di fratelli coltelli.
Si guarda all’Europa, i media la presentano, come un consesso fraterno, di famiglie unite, mentre sono famiglie composite e disunite. È anche giusto che sia così, è solo stupido pensare altrimenti. Gli errori si riconoscono e si correggono, ma non ci sono scuse da presentare, perdoni da professare e meritare. Gli interessi degli uni e degli altri si soppesano e si valutano. Si dovrebbe, ma alcuni non lo fanno.

Il partito filotedesco

Un discorso a parte necessita in Italia il partito filotedesco. Giornalistico soprattutto, ma anche di affari e, stranamente, politico. Quello giornalistico, di inviati, corrispondenti, commentatori, salta agli occhi perché più tedeschizzante della stampa tedesca, la quale è invece aperta, e anche critica e autocritica. Più consistente è quello politico, effetto di politiche inadeguate e suicide. Monti e il suo governo non sono isolati. C’è molto patriottismo tedesco al ministero degli Esteri, incapace di una sia pur minima protezione degli interessi italiani in Europa, al Tesoro, e in Banca d’Italia.
Due pesi,ma è meglio non dirlo
La Banca d’Italia lo è in modo peculiare. Avendo conoscenza diretta dei fatti, nei consessi monetari dall Bce in giù, la Banca d’Italia è molto critica del modo come la Bundesbank e la Bce hanno nella prima fase della crisi (2007-2009) salvato le banche tedesche (con la Francia e il Benelux) con “almeno” 600 miliardi di fondi europei, per poi imporre la lesina sul debito. Ma si fa una virtù di non dirlo.

La fine di Parigi

La crisi greca si risolve anche perché Tsipras ha sfidato Merkel e la “Germania”, i vari Draghi, Lagarde e Juncker. I piccoli, diceva Hobbes, hanno sempre il potere di nuocere, e la Grecia che non paga fa più danni alle banche che alla Grecia stessa, che ormai è all’osso.
È il modo di essere dell’Unione europea. Per la Germania unita che è un’altra rispetto a quella di Bonn, senza più i russi in casa. E per l’eclisse di Parigi. Che si può imputare a due presidenti specialmente imbelli, Sarkozy e Hollande. Che tuttavia sono stati e sono tuttora la Francia, non ce n’è altra.
Merkel è andata in Francia, in Normandia prima e poi a Cannes, per imporre la crisi europea di cui ha fatto le spese l’Italia. Con l’assenso pieno di Sarkozy. Di cui i giornali francesi scrissero che la Merkel rideva in privato. L’insignificanza di Hollande è cronaca, sulla Grecia come sugli immigrati, la Libia, l’Is – un piccolo, inutile, yesman, anche somaticamente, su ogni questione emergente. .
L’Europa è a Berlino, e di questo bisogna tenere conto.

Maigret scritto meglio che al cinema

Una storia a cannocchiale come è consueto per Simenon, di un delitto che ne rivela un altro, come un fuoco d’artificio nero. Il cadavere che un giudice a riposo si ritrova in casa e di cui tenta di sbarazzarsi in mare con l’alta marea è l’innesco di molte altre vicende, anche qui più turpi che non. 
I racconti di Maigret più ancora di quelli “duri” sottolineano la capacità di Simenon di fare letteratura durevole con una scrittura “bassa”: colloquiale, disadorna. Applicata a un mondo grigio, disadorno, come nei racconti “duri”.
È il mondo, sempre, del Nord. Non detto, ma non ce n’è altro. Di maree, nebbie, acquitrini, marcite, paludi, biliardi, alcol, mescite anonime, periferie urbane, paesi senza anima. Simenon ama il Sud, ma lo scrittore si vuole del Nord.
Anche questo, come altri Maigret, s’impersona ormai nell’ammirata serie tv di Bruno Cremer. Ma l’originale è diverso. Maigret è, sì, “enorme”, “pesante e flemmatico”, fuma la pipa e beve, ma porta la bombetta, ha la schiena a volte “curva”, “le spalle incassate”, a volte “una sfumatura di ansia” sul viso, ed è seguito dalla moglie. Anche in Vandea, dove il commissario è stato esiliato da Parigi. Ed è di destra. Nessuno e  niente lo dice, ma simpatizza con i delinquenti, anch’essi vittime,  e non ama i benpensanti. È distintamente anni1930, mentre quello di Cremer è postbellico, anni1950-1960, e anche questo fa un’atmosfera.

A differenza di Montalbano, che Alberto Sironi nella serie tv miglior molto, Maigret scritto è invece meglio: svelto, semplice, denso. Le sceneggiature di Maigret seguono passo passo il libro, fin negli aggettivi, e Cremer è malgrado tutto Maigret, ma è una filologia che lo limita al cinema, mentre Montalbano è Zingaretti, non può essere altrimenti.
Georges Simenon, La casa del giudice, Corriere della sera, pp.145  € 1,90

mercoledì 3 giugno 2015

Secondi pensieri - 219

zeulig

Colonie  - Ci sono sempre state colonie – nel senso del colonialismo: occupazioni. I miti fondanti sono tutti fatti per celebrare-occultare il colonialismo, la presa possesso di un bene, territorio, popolo alieno. Le stesse forme culturali sono coloniali, essendo tribali (etniche, marchiatrici).

Dio – È testimone - il sacro è testimonianza. Autonomo e non: nella riflessione di Derrida (“Fede e sapere”) “la sfida di qualche promessa giurata non può, prendendo subito Dio a testimone, non avere già, se si può dire, generato Dio, macchinalmente” – un “a priori  ineluttabile…. un terzo (terstis, testis) assoluto”, senza il quale “ogni attestazione diventa superflua, insignificante o secondaria”, che però viene dal basso. Testimonianza essendo la radice di religio – sia nell’etimologia-accezione di Cicerone, relegere, e cioè l’attenzione, il rispetto, la pazienza, sia in quella di Lattanzio e Tertulliano, religare, il legame, l’obbligo, il debito, tra gli uomini e verso Dio.

Giustizia
– È un potere dello Stato, un potere. Per esercitare una funzione dello Stato, l’osservanza delle sue leggi.  Con l’ambizione e nell’alveo di un’istanza preterstauale, e anzi antistatuale. Tanto meno la frizione è acuta, tanto più la giustizia è giusta.  
La giustizia politica è un potere alla doppia potenza. Che si esercita dichiaratamente, di proposito, doppiamente contro la giustizia, sia di Stato che etica.

Illuminismo – È laico e anticlericale, ma anche cristiano, e esoterico. Inteso comunemente come il secondo Settecento francese, laico e repubblicano, anche un po’ rivoluzionario, ha più accezioni – sotterranee peraltro all’Illuminismo francese, e con esso convergenti. Già nella sua definizione corrente, della storia politica e delle idee connessa con la fine delle guerre di religione del Seicento e le rivoluzioni europee, quella inglese del 1688 e quella francese un secolo dopo, del 1789, l’Enlightenment e le Lumières. Con una basica connotazione laica, della natura e di un deismo contrapposti alla rivelazione cristiana, in una teodicea o trionfo della ragione come opposta alla religione. Ma lo è anche la Aufklärung tedesca, di Christian Wolff, Lessing, Hamann, Herder, Jacobi, coronata da Kant in un quadro non anticristiano, anzi, con “La religione nei limiti della sola ragione”. Parallelo alla Aufklärung e ad essa originariamente collegato, è l’illuminismo esoterico, da J. Boehme a Baader e agli illuminati di Baviera, post-rivoluzione dell’Ottantanove, fino a Rudolf Steiner e Jung.

Perdono – Ha avuto una stagione breve. Anzi, morto papa Giovanni Paolo II, è morto con lui, nessuno chiede più perdono. Anche nella sua breve stagione, del resto, è stato parallelo ai Tribunali speciali, dell’Aja, del giudice Garzon. Ed è speciale, per fatti abnormi. Altrimenti sarebbe quotidiano e triviale: ogni evento, si può dire, trascina un torto, per cui tutti dovrebbero dirsi responsabili e chiedere perdono, ma allora a chi? Sarebbe come il buongiorno tra conoscenti che s’incontrano.
Non è stato tema di riflessione, a parte Hegel, che peraltro tutto dice perdonabile, eccetto il “peccato contro lo spirito”, e cioè contro la potenza riconciliatrice del perdono. Mentre il “peccato contro lo spirito” storico o contemporaneo, il “crimine contro l’umanità”, si pensa piuttosto imprescrittibile. Derrida, che avrebbe ambito rifletterci su, è indeciso, ugualmente contro l’imprescrittibilità - già dal tempo della polemica con Jankélévitch - e contro il perdonismo papale. Tuttavia è certo che dovrebbe essere eccezionale e per fatti abnormi. Come un’intrusione, sia la colpa che il perdono, in un corso altrimenti normale (storico, accettato) degli eventi.   
.  
Tolleranza – È esemplare e magisteriale, è supponente. Quindi gerarchica: magisteriale al limite del padronale – di chi la dispensa. Si può codificare, è di fatto ora codificata, ma nel senso sempre del “riconoscimento”, della “accettazione”.

È cristiana, arguisce Derrida, “Fede e sapere”. Anche quella di Voltaire, dell’Illuminismo francese, non lontana, al fondo, dalla Aufklärung di Kant – della sua “fede riflettente” e della moralità “pura” come cosa cristiana: “A questo riguardo, Aufklärung e Illuminismo furono di essenza cristana”. Come Kant, Voltaire pensa al cristianesimo come  alla sola religione morale. Anche Nietzsche, che tanto lo contesta: non ha altra religione, e questo non è possibile, non avere religione.

“Un’altra «tolleranza»”, sostiene Derrida, “si accorderebbe all’esperienza del «deserto nel deserto», rispetterebbe la distanza dell’alterità infinita come singolarità”. E la rispetterebbe come “religione”, la religio intenendosi come “ri-tenzione, distanza, dissociazione, disgiunzione”.
Ognuno per sé, il “dialogo delle fedi”, cioè il dialogo, non deve suscitare illusioni: si procede per discordie concordate. Per aporie.

Uomo-Universo – L’uomo è sempre più solo e un’eccezione nell’universo, le foto di Hubble lo documentano. In un universo forse infinito, talmente grande che non si può contare: 200 miliardi di galassie, probabilmente (secondo la teoria del multiverso molte di più), che si allontanano l’una dall’altra a una velocità maggiore di quella della luce, tale che in un tempo non incalcolabile la sua luce può non essere osservata, ognuna di centinaia di miliardi di stelle. Ma fatte di polvere.
L’uomo è un incidente, un caso, il suo mistero è tutto qui. Non può essere lui stesso il suo Dio, poiché viene dopo i minerali, la vegetazione e tante altre specie animali. Ma il suo segreto è questo caso o accidente. All’origine, se la materia è polvere, anche la sua indeterminatezza. Dove, quando e come è cominciata. Se è cominciata. O altrimenti bisogna pensare un altro universo, se non si vuole chiamarlo Dio, da cui questo origina, seppure grande di miliardi di galassie. Cioè praticamente inimmaginabile: il realista ha un grande compito, la materia oscura.

Violenza – È la matrice di ogni Autorità, di ogni Stato. Ogni Autorità implica la rottura di un precedente equilibrio. E si instaura in assenza o contro una legge – della quale poi sarà la sorgente.
I Tribunali internazionali che si creano per giudicare i crimini contro l’umanità emanano dalla stessa fonte. Si innocentano per riflesso di ritorno dai crimini che giudicano, ma sono emanazione di una Autorità.

zeulig@antiit.eu

I dessous della politica, onorevoli

Potrebbe essere una P 5 – adesso siamo alla P 4: la testa di turco delle varie P 2 quando i giudici non hanno altro per le mani, si diverte a “fare il Bisignani”- quello che i suoi giudici vorrebbero che facesse: il broker della politica (i giudici hanno limitata concezione del mondo, politica compresa). Quello che sa tutto, dalla Rai al Vaticano, passando per Grillo (un nuovo Assange?) e l'ambasciata americanna, nonché per la Cia ce la siamo dimenticata?.e quindi ha fatto tutto.
Madron gli tiene bordone, complice, e il racconto è divertente. Dei dessous e delle creste, della politica più che degli affari - è prevalentemente romano. Sul tono del gossip più che della rivelazione – la politica non ha segreti. Anche se si viene a sapere più che dalle migliaia di pagine di rivelazioni d’autore  e intercettazioni che ci affliggono dai giornali. E ricostituente, se non altro i politici vi parlano come tutti, invece che da Floris o da Fazio.
Luigi Bisignani-Paolo Madron,  L’uomo che sussurra ai potenti, Chiarelettere, pp. 336 € 9

Il popolo dei bulldozer

Si può vincere un’elezione coi bulldozer per i rom? Evidentemente sì: tutti gli altri hanno perso due milioni di voti rispetto alle Politiche di due anni fa, due milioni l’uno, Renzo, Berlusconi e Grillo, un milione rispetto alle Europee di un anno fa, solo Salvini ne ha avuto di più, coi bulldozer. Addirittura un terzo del voto, poco meno, in Toscana, con un candidato paracadutato da Milano. .
Allora la domanda è: viene prima Milano o prima la stupidità? La Lega, Salvini, gli zingari vengono prima ma l’opinione pubblica e il diritto di voto universale pesano, pesanti. Non è un’assurdità ciò che è successo, che nella generale sfiducia solo la guerra ai rom suscita entusiasmo. E ha un insopportabile odore di classe. I benestanti non sono andati a votare, la metà dei democratici e tre quarti dei berlusconiani. Gli altri hanno lasciato il bar, la cantina e la spiaggia per recarsi fino al seggio e votare un candidato sconosciuto, se non per i bulldozer.

Il tappo Berlusconi

La destra si supera, ancora una volta: fatte le somme, ha vinto Salvini, ma ha vinto, malgrado Salvini, tutta la destra. Oltre che in Veneto e in Liguria, ha vinto in Campania – De Luca è passato con i voti dei caporioni di destra Barbato e De Mita. E avrebbe potuto vincere in Puglia e perfino in Umbria.
Non ha vinto perché è divisa e litigiosa, ma avrebbe potuto. Che sia divisa e litigiosa è sotto gli occhi di tutti: capi e capetti pullulano che soprattutto si fanno la guerra tra di loro? L’elettorato malgrado tutto li vota, ma è disorientato. Perché i capetti litigano? La risposta va cercata nel modo come la destra ha fatto outing, e subito poi si è divisa – non il popolo di destra, i suoi politici.
Si sta parlando di casiniani, alfaniani, fittiani, anche montiani, finiani e altri pezzi del Msi. Gente senza voti, ma abbastanza, l’1-2 per cento, per nuocere  L’altra caratteristica comune dei politici della destra è che sono stati tutti berlusconiani.
Berlusconi è sempre in campo, malgrado l’età e la condanna, e sempre riesce a mobilitare e raccogliere voti. Si ritiene e si dice indispensabile. Ma è il motivatore e il collettore o non il tappo di questa destra? Senza dubbio è il tappo.
Non solo Berlusconi è stato stravotato in un paio di votazioni, anzi tre, e non ha combinato nulla – non un’idea forte, seppure non vincente: il debito, il lavoro, l’industria, anche solo l’immagine, nemmeno gli affari. Un prodigio di inefficienza. Che si estende ai politici da lui imposti: un gruppo dirigente di inetti e anche sciocchi. Tolta qualche donna, da lui peraltro selezionata per l’avvenenza, senza fiducia.

martedì 2 giugno 2015

Problemi di base - 231

spock

Moriremo padani?

Salvini raddoppia, gli altri si dimezzano: è il nuovo grillo?

C’è bisogno di un grillo nuovo a ogni elezione?

Meglio Salvini di Berlusconi?

Cofferati dopo Bertinotti, la Cgil è sempre riuscita a sconfiggere la sinistra: ora tocca a Landini?

O bisogna togliere il diritto di voto?

Perché non fare invece l’esame di maturità elettorale?

L’esame elettorale c’è per gli immigrati, perché non si fa agli italiani?

A Firenze, sotto l’Appennino, il professor Miglio della Cattolica di Milano si sentiva all’estero, ora i toscani votano in massa per la sua Lega: è il Sud che diventa Nord?

O è viceversa: è più qualunquista il Sud o il Nord?

spock@antiit.eu

La storia si racconta all'autore

Annegato qualche anno fa in un’antologia del noir (“Cocaina”), un grazioso apologo dell’autore che si vede scritta (vissuta, raccontata) l’opera cui ambisce al bar, da una sconosciuta. Delle pene d’autor perdute, dunque, o dell’occasionalità della “creazione”. Con alcune confidenze dello scrittore-giudice: la tassonomia del confidente di polizia, l’art. 40 del codice penale, la donna poliziotto.
In realtà è un apologo dell’invenzione al quadrato, e anche al cubo - l’aneddoto in sé è ricorrente nella cronaca.
Gianrico Carofiglio, La velocità dell’angelo, Il Sole 24 Ore, pp. 77 € 0,50

lunedì 1 giugno 2015

Il mondo com'è (218)

astolfo

Clinton – La coppia Clinton è la smentita vivente del presunto puritanesimo della politica americana. Se Hillary Cliton è, come si vuole, la candidata vincente alle primarie democratiche e a fine 2016 la prima presidentessa donna della storia americana. La coppia forse più spregiudicata di tutta la storia presidenziale, ma anche politica, degli Usa. Sicuramente dell’ultimo secolo, del Novecento – i Kennedy e lo stesso condannato Nixon inclusi. La fondazione familiare dai contorni poco chiari riflette le prime esperienze di lei come legale. Lui è pur sempre uno che ha mentito al Grand Jury, benché onorato ex presidente, conteso a presenze e convegni con cifre iperboliche - come anche lei: mezzo milione per un discorso sono contributi mascherati da onorario. Da presidente, che mai usò del potere di grazia e anzi fu fautore della pena di morte, solo la usò a beneficio di alcuni portoricani quando lei doveva diventare senatrice di New York – dove  i portoricani fanno massa. L’elezione di Hillary sarebbe un riconoscimento della spregiudicatezza. Della femminilità forse, ma allora intesa come spregiudicatezza.

Colpo di Stato – È il pattern della politica più frequente. Letta e Renzi dopo Bersani, le presidenze del consiglio di questa legislatura, e anche quella di Monti nella legislatura precedente, sono indubbiamente colpi di Stato. Anche se a opera del presidente della Repubblica forse più legalitario, Napolitano. Si argomenta che così si faceva nella cosiddetta prima Repubblica, ma allora con una legge elettorale e un “principio” costituzionale diverso: che si votavano dei partiti, i quali poi in qualche modo si accordavano per fare un governo. Mentre ora si vota per un candidato presidente del consiglio.
L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, che si sta celebrando, è nient’altro che un colpo  di Stato. Protagonista, prima ancora della Marcia su Roma, fittizia, lo stesso re Vittorio Emanuele III, pronto e voglioso. La Camera aveva votato contro la guerra, ma l’Italia entrò in guerra: trecentoventi deputati si dichiararono contro, sui 523 della XXIV legislatura – i decisi interventisti non erano più di una sessantina. Capitanati da Giolitti, l’uomo politico più influente del momento.

Grande guerra - Era contro la stragrande maggioranza degli italiani. Si fa la storia dell’interventismo, con un sottinteso di glorificazione, mentre furono più numerosi e più ampie le proteste degli oppositori della guerra. Giolitti andò dal re per dirgli che il Parlamento e il paese erano contro. Il re rispose che era incostituzionale avversare la politica interventista del governo Salandra. Mentre era incostituzionale sostenerla, contro il volere del Parlamento: lo statuto albertino era parlamentarista.
È vero che gli interventisti erano violenti. Ma non venivano perseguiti. Si perseguivano solo i pacifisti, con gli arresti dopo i morti e i feriti. Giolitti fu minacciato di morte. D’Annunzio in un comizio a Roma incitò la folla ad attaccarne l’abitazione, e a uccidere quel “boia labbrone”. Manifesti furono affissi che lo ritraevano di spalle come davanti al plotone di fucilazione dei disertori. La Polizia di Roma si disse impotente e proteggerlo, e lo costrinse a tornarsene in Piemonte. Montecitorio fu assaltato da bande in interventisti, che ne devastarono gli arredi.

Si fece la guerra per liberare Trento e Trieste che non volevano essere liberate, e sarebbero state felici dello statuto di zona franca o di enclave. Immolando almeno un milione di poveracci che non c’entravano nulla, sul totale di un milione 240 mila militari morti. In una guerra di incapaci e balordi.

Si discute la riabilitazione dei condannati a morte durante la guerra. Si fa una cifra di circa 1.100 giustiziati, e si lascia intendere che erano disertori. Ma erano anche obiettori e ammutinati, per l’incapacità dei comandi e l’orrida gestione del personale - per esempio quelli della brigata Catanzaro, ammutinati dopo dieci campagne di fila in prima linea, quasi due anni, senza mai un turno di riposo, con gli effettivi più volte dimezzati.
In realtà i soldati processati nei tre anni del conflitto furono 262.481. Più 61.927 civili  e 1.110 prigionieri di guerra. In totale furono processate 325.527 persone. Si conclusero con la condanna a morte 4.028 procedimenti, 1.100 furono eseguite. Ma queste sono le cifre dei Tribunali di guerra. Bisognerebbe mettere nel conto il gran numero di soldati passati lestamente per le armi durante la ritirata dopo Caporetto, o per insubordinazione – la repressione della brigata Catanzaro fu fatta così: 28 i Carabinieri presero a caso e fucilarono, senza nemmeno un vero plotone di esecuzione, in uno stanzone (un’anticipazione delle decimazioni, che tanto orrore ancora suscitano nell’applicazione che ne fece la Wehrmacht tedesca durante l’occupazione), 123 li mandarono al Tribunale di guerra. Centinaia, forse migliaia, furono i soldati, sottufficiali e ufficiali fatti passare per le armi, più spesso da uno o più Carabinieri, dai comandanti sul campo, di compagnia, di reggimento o di brigata.

Mondialatinizzazione – Neologismo coniato da Jacques Derrida nei primi anni 1990, di rapida obsolescenza. La globalizzazione o mondializzazione il filosofo vedeva di matrice occidentale, l’Occidente vedeva naturalmente europeo, e l’Europa latina. Mentre: 1) L’Occidente era ormai, crollato il mondo comunista, europeo, solo americano, e l’America proiettata nell’area del Pacifico: la globalizzazione si faceva tra gli Usa e le potenze (“tigri”) asiatiche, alle quali aprirono la World Trade Organisation e il libero scambio. 2) L’Europa rinunciava, istituzionalmente (la commissione Giscard d’Estaing per la costituzione europea), e di fatto (a Bruxelles, Francoforte, e nella doxa, l’opinione pubblica) alle radici mediterranee e latine, per un composto celtico, germanico, ugrofinnico. Un poco anche slavo, ma allora anch’esso barbarico, non della terza Roma. Anche politicamente, si fa un vanto dell’antilatinizzazione. In chiave di egemonia, Nord contro Sud.
Si può pensare l’antilatinizzazione come a un riequilibrio, o a un gioco di bascula – a un’azione una reazione. Ma l’identificazione latina e mediterranea era culturale, il ribaltamento è solo di affari e potere (chi comanda a Bruxelles e Francoforte), non si propongono modelli ideali, filosofici, giuridici, religiosi nuovi o diversi.

Moro – Latita nel culto del nome, dell’immagine, singolarmente una biografia. Non c’è nemmeno una ricerca o ricostruzione dei suoi momenti politici discriminanti, anche se tanti storici hanno fatto carriera universitaria e politica nel suo nome. Che furono molto e importanti: il distacco dai “dorotei”, il centro amorfo della Democrazia Cristiana, la costruzione di un’alterità a Fanfani,il nemico dei dorotei, la devitalizzazone del centro-sinistra, la copertura delle ansie golfistiche di Segni, la difesa anche impudente, comunque coraggiosa, della Dc negli scandali dei primi anni Settanta, il compromesso storico con Berlinguer in pura chiave dorotea, del non fare, in concorrenza con Andreotti. Le stesse lettere dalla prigionia vengono ridotte a fenomeno editoriale, come le lettere di un qualsiasi condannato a morte, senza nessun contesto. Si può capire che non bisogna parlare del “Moro deve morire” di Berlinguer, altra immagine sacra. Ma di Andreotti?
Violentissimo fu l’attacco di Andreotti a Moro nella  seconda metà del 1974, quanto si preparava lo sganciamento della Dc dal centro-sinistra con il Psi – era l’epoca dei governichi Rumor e dei Bertoli in libera uscita, terroristi atipici.  

Ombra – Si può sempre trovare rifugio all’ombra in Grecia, in campagna, in città (orientamento delle strade, allineamento degli edifici), perfino, arrivando di buon’ora, nei archeggi, un parte è studiata per l’ombra. Non si può in Turchia. E questo misura, in due paesi ugualmente “estivi”, la loro profonda differenza, benché contigui, di cultura e mentalità (personalità. V. Corbin 292-293. Dal tempo di Platone, che elogia il platano - nomen omen?
Nonché dai greci fannulloni, molli, l’ombra era apprezzata anche dai rozzi, robusti e indaffarati romani. Da Orazio, da Virgilio – autore di suo di “Bucoliche” e di “Georgiche”, prima di diventare il poeta ufficiale della storia augusta.
Lo stesso avviene in Spagna – avveniva, prima che fosse cementificata, seconda casa dell’Europa di Mezzo. Cervantes non amava le ecloghe, le pastorali e gli alberi – a don Chisciotte fa celebrare le pastorellerie arcadiche per ridere - prima dell’avventura coi maiali. Ma al Sud il regno arabo di Granada aveva lasciato tracce durevoli di giardini, domestici e pubblici, e piazze alberate.

Razzismo - L’umanità su basi zoologiche, come l’Osservatore Romano” la bollò nei coraggiosi anni Trenta, fu tema del Settecento, che volle farne una scienza: i neri non lavorano, sposereste una nera, i neri puzzano, per non dire degli ebrei, impossibile rifare Voltaire, li mise a punto il secolo dei Lumi, compreso Kant, malgrado la nota prudenza - Kant non sognava, e non sudava, ci stava bene attento, così pure a sputare e, pare, a eiaculare, per non sprecare energie.
Una università anglo-tedesca fu fondata a questo fine a Gottinga nel 1734, per indagare e proporre le radici della superiorità europea.

astolfo@antiit.eu

Le prime prove di Bovary, quasi un femminicidio

Un racconto a quattordici anni, quello del titolo, “I girovaghi”, e uno a  sedici, “Passion et vertu”, che farebbero oggi un autore da antologia – queste prime prove non sono sconosciute, qui sono riprese dalle “Oeuvres de jeunesse” della Pléiade, ma forse non lette, dagli stessi flaubertiani.
Né Zola né Verga, né il neo neorealismo avrebbe saputo concentrare in così poche pagine tante disgrazie: fame, freddo, incidenti sul lavoro, malattie, disperazione, violenza. Ma il Flaubert imberbe, di più, già “sa” cosa e come scrivere, e perché, nelle note che antepone e pospone al racconto dei poveri circensi girovaghi: lo svelamento gli si impone delle verità dell’amore, “scienza così bene esposta in «Faublas», le commedie di second’ordine e i «Contes moraux» di Marmontel”.
Il “racconto filosofico” che segue, “Passion et vertu”, è ancora più affascinante, la verità dell’amore cercando nella donna giovane, sposata e in trepida attesa. “Un parfum à sentir” sarebbe meglio il titolo di questo secondo racconto – “C’è nelle grandi città un’atmosfera corrotta e avvelenata che vi stordisce e vi inebria, qualche cosa di pesante e di malsano, come queste grigie nebbie della sera che planano sui tetti. Mazza (la protagonista, n.d.r.) aspirò quest’aria di corruzione a pieni polmoni, la sentì come un profumo e per la prima volta; comprese allora tutto ciò che c’era di largo e d’immenso nel vizio, e di voluttuoso nel crimine”. Il biografo lo dirà il ritratto di Mme Schlésinger, Élisa, una donna dagli amori plurimi di cui Flaubert, da ragazzo e poi a lungo, si sarebbe voluto la grande passione. Ma è, stringato e crudo, quasi un manifesto, un’anticipazione degli spasmi di Emma Bovary – Élisa-Mazza-Emma, non è nemmeno un gioco per enigmisti Seppure in forma qui di femmnicidio, per quanto consentaneo - il ragazzo è geloso, cattivissimo..
Flaubert al compimento dei sedici anni sfida Shakespeare, che mette in esergo: “Puoi tu parlare di ciò che non senti affatto?”, “Romeo e Giulietta”, III,V, e ci riesce .
Gustave Flaubert, Un parfum à sentir ou Les Baladins, Folio, pp. 113 € 2

domenica 31 maggio 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (247)

Giuseppe Leuzzi

Una passeggiata al mare per vedere il tramonto sembrò tanti anni fa un consiglio da vecchia commedia da parte del vecchio gestore dell’albergo Russo a Trapani, un gentiluomo. La cui memoria risorge ammirata, nella composta eleganza, nella persona eretta, mentre si legge del boom dei tramonti. Con viaggi organizzati. A Key West in Florida, a Benirras a Ibiza, a Ola a Santorini, a Saô Vicente in Portogallo, e anche in città, al ponte Santa Trinita a Firenze, o al piazzale Michelangelo.

Claudio Sabelli Fioretti si sorprende di sentire che in Trentino, dove ha la residenza, non vogliono altri migranti. Poiché il Trentino eccelle nel sociale, Sabelli Fioretti si è chiesto se i migranti non siano già troppi nella provincia. Ha fatto qualche ricerca ma ha trovato che dei 32 mila migranti in strutture di accoglienza temporanea in Italia solo 312 risultano nel Trtentino, “meno di un migrante a comune”. Mentre “in Sicilia la media sarebbe di 15 migranti a comune”. Fatta la tara del piccolo business dell’accoglienza, in effetti la sproporzione è forte.

La Procura di Catanzaro denuncia un’organizzazione criminale che truccava le partite di cacio delle serie minori, e la dice capitanata dalla ‘ndrangheta. Che però nel voluminoso atto di accusa della Procura Antimafia della città calabrese non c’è. Ci sono mafiosi serbi, cinesi, israeliani, kazaki, turchi e maltesi, ancorché perlopiù anonimi, ma la ‘ndrangheta che li gestisce no. Non è stata ancora trovata, Giusto un Iannazzo di Lamezia, che però da tempo è in carcere. È il principio della scoperta: bisogna prima scoprire e poi cercare.

La mafia dell’antimafia
Non c’è dubbio che Rosy Bindi ha scelto 16 impresentabili per fini politici. Qualcuno anche dentro il suo partito, il Pd. Non  c’è nemmeno dubbio che si possa dire la commissione parlamentare Antimafia, che Bindi presiede, una commissione mafiosa. Ma la mafia agisce così, sfrutta le pieghe della legge per i suoi inconfessabili fini.

Ci sono impresentabili di chiara fama in Liguria e in Umbria, anche in Toscana. Ma Rosy Bindi ha in elenco, dopo aver spulciato infinite carte e molti verbali non ufficiali dei Carabinieri, solo sedici nominativi del Sud. Quattro pugliesi e dodici campani. Senza razzismo naturalmente. Rosy Bindi ha compilato la sua lista solitari come presidente della commissione parlamentare Antimafia, e la mafia è al Sud.
Come si fa a dire l’onorevole prevenuta? È stata eletta in Calabria.
Che la presidente Bindi non sappia dove la Calabria è, e un po’ se ne vergogni - della Calabria, non di non sapere dov’è - questo non significa. 

Messo il berlusconiano Cosentino, signore del voto in Campania, in stand-dy dall’Antimafia istituzionale, i consentiniani si sono candidati in massa nelle liste regionali del Pd. Che coincidenza.

L’anima nera Rai
“Anime nere”, film nerissimo, la Rai impone, oltre che ai critici volenterosi, e alla comunità italiana a New York, ai Nastri d’Argento – se li prenderà tutti? “Gran successo” l’ufficio stampa Rai ha fattori riportare al film a New York, ma chi c’era non se n’è nemmeno accorto.
Un film di una violenza “pura”, senza altro contesto. Violenza nella violenza (familiare, genetica) nella violenza (sociale, etnica: una triplice cattiva azione. Volendo fare film sulla mafia, genere che tira, non si può dire tutto mafia. Lo vuole lo spettacolo – a parte l’onestà.
Il film non è un’eccezione, il tutto mafia è la norma. Ma si può non rimproverare gli inquirenti che si illustrano dicendo la mafia ubiqua e onnipotente. O i giornalisti e la pubblicistica del genere horror: la paura fa mercato. Fa anche bene al cuore al Nord poter pensare che tutto il male è in Calabria, da qualche anno, a Napoli, e un po’ ancora in Sicilia – non più a Bari da quando comanda Emiliano, un giudice. Ma l’emittente pubblica? Pagata cioè allo Stato? Volendo stare nel genere mafia, un noir che tira, dicono (ma non è vero: “Anime nere” non  lo ho comprato nessuno), molte altre storie verrebbero meglio al cinema: di giovani, sindache, monsignori, a volte anche vescovi, volontari, vittime. Non ci sono vittime delle “Anime nere”, solo la loro personale tragedia, di uomini-bestia.
 
Del diritto all’illecito a Milano
Si leggono con stupore le cronache societarie dell’Inter, la squadra di calcio, come procacciatrice di lauti interessi al suo presidente e padrone Thohir. Un uomo d’affari sbucato dal nulla, che si è offerto di acquistare le quote di controllo del club dal precedente proprietario Moratti, a costo zero, e di gestirlo per tre anni. Sembrava un atto generoso, assumersene i debiti. Ma per due anni Thohir si è limitato a finanziarne i debiti tramite sue società anonime, a tassi d’interessi esosi – – dell’8-9 per cento, neanche la Grecia paga tanto. Come se avesse “comprato” un debito, per sfruttarlo finanziandolo.
Ingegnoso. È quello che si chiama portage. Il traghettamento di un’azienda, con un profitto e senza rischi propri. Un “normale” contratto commerciale. Ma Thohir è anche padrone dell’Inter, e quello che fa è illegale. Molto illegale: rubare alla propria azienda. E questo è il suo miracolo: passare indenne. Per molto meno a Milano personaggi importarti hanno sono stati privati delle loro aziende. I Rizzoli per esempio, per un’appropriazione indebita di un ventina di miliardi di lire, 10-15 milioni di euro.
Con l’Inter la Procura di Milano segue un’altra legge? L’appropriazione indebita all’Inter è talmente macroscopica, e dichiarata, che non si riesce a crederla vera. Pure è la realtà. Poi uno riflette che tanti casi abnormi di ruberie, grassazioni, malversazioni si sono prodotti a Milano attorno a Telecom, alla Rizzoli-Corriere della sera, alla Provincia, agli stessi Moratti-Saras, con la benevola disattenzione della locale giustizia, 

Campagna elettorale in Toscana.
La Toscana è un delle regioni che vota oggi. E in Toscana molti comuni importanti votano per il sindaco, Viareggio, Pietrasanta e altri. Ma bisogna saperlo, perché non si vede. Non ci sono manifesti, comizi, gazebo, e tantomeno scritte sui muri.
Il Pd, che governa da sempre, fa come se non ci fosse. I candidati delle destre e 5 Stelle alla Regione Toscana più che fare campagna si divertono: alle tv, nei giornali, alle tavolate. Dove non si spende. Sanno che il Pd vincerà, e quindi non spendono. Ma non parla nemmeno il presidente uscente, Rossi, che sarà riconfermato. Che del resto è come se non ci fosse – ebbe un momento di notorietà quando si opponeva a Renzi, allora sindaco di Firenze, poi si è subito allineato.   
Non c’è da trarne una lezione: la Toscana fa caso a sé. Colta e ricca, è regione eminentemente grigia – si dice rossa, ma è grigia, massonica prima che comunista, a suo tempo, poi democrat. Vota, non si astiene. Ma vota compatta, plebiscitaria, omologata, senza sorprese possibili.
Ma due Italie, in effetti, girando per la Toscana in “campagna elettorale”, sono da rilevare. Quella che si muove tranquilla agli affari, e se deve alzare il capo fa tranquillamente la predica. E quella che si agita, emotiva, dispendiosa, di soldi e energie. Con sedici impresentabili. Cioè per niente, uno scioglimento è sempre dietro l’angolo.

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“L’islam non può esistere nel nostro mondo”

Poeta, storico, critico d’arte, direttore del centro nazionale del restauro, Brandi inaugurò nel 1958 la sua ultima e definitiva vocazione, di viaggiatore, che svetterà vent’anni dopo col capolavoro “Persia mirabilis”, con la ricerca dei luoghi romani nel Mediterraneo, in Libia e in Siria.
I giudizi svelti non mancano. Palmira, il cui destino oggi tiene in sospeso mezzo mondo, vede come un grande cimitero, opera di necrofori maneggioni, per le tombe che la caratterizzano, costruite in altezza: “La prima città con impresari di pompe funebri e speculatori che comparavano in blocco e vendevano a strozzo i loculi”. Amman come i Sassi di Matera. Le case di Damasco come i trulli di Martina Franca. La città vecchia di Gerusalemme, tuttora così densa di spiritualità, malgrado l’aggressione della speculazione urbana, come la città vecchia di Bari. E le strade in curva che portano a Betlemme come quelle tortuose della Calabria..
Ma la grazia non manca. Nel Libano fenicio, sulla strada per Damasco. Su Damasco, la madre della nostre (bibliche, mediterranee, europee, occidentali) città. E gli orti che la attornia(va)no, feraci e ridenti, come usava dire, la cornucopia della buona terra – qui il paragone è appropriato: col casertano allora terra di lavoro e non di camorra. Ma più lo stimola Tripoli, l’ex “bel suol d’amore”. Ancora quella di Italo Balbo, con la piazza omonima sul mare, e i portici padani per lo struscio all’ombra. La città severiana di Leptis Magna, non lontano da Tripoli, di fascino esagerato. Senza confronto, per estensione e conservazione, con Ostia Antica e con la stessa Pompei.  Che con Sabratha, alla frontiera con la Tunisia, che conserva un’impressionante latrina pubblica, e una basilica tardoromana, giustinianea, arricchita da un elaboratisissimo mosaico pavimentale, e altri siti marittimi lungo la costa dell’Atlante, Cartagine, Cherchell (Cesarea), Tanit e altri in Algeria, teneva, e tiene,  viva la romanità come fosse ieri.
Pur non diffidando allora dell’islam, Brandi ne avverte chiara la natura – non era difficile, era prima dell’equivoco dialogo tra le fedi: “L’Islam non può esistere nel nostro mondo se non assorbendolo o distruggendolo: nulla ha da sostituire, nulla ha da imprestare se non una forma acaica della sacralità”.
Cesare Brandi, Città del deserto, Elliot, pp. 175 € 17,50