Dio è morto, dunque, ma non per
l’“islamismo”, è qui la radice dell’alluvione “islamica”. Derrida mette la parola
tra virgolette, per sottintendere che ciò che sul campo di battaglia si
richiama all’islam non è l’islam, che la guerra di religione non è la religione.
Ma poi se ne dimentica – vuole essere politicamente corretto, vent’anni fa era
d’obbligo, poi la verità del fatto lo sopraffà.
Derrida procede circospetto ma per sapere
già molte cose. Aperto al solito, problematico, ipotetico, possibilista, mentre
ha salde verità. Invitato a Capri il 24 febbraio 1994 a un convegno di
“filosofia europea”, propone come tema la religione, lui steso non sa perché, e
si esercita ad abbattere molti degli stereotipi d’uso. La religione è qui, non
ritorna. La religione va di conserva con la ragione – Voltaire lo sapeva,
Nietzsche pure. Il “ritorno della
religione” è altra cosa, è cioè il déferlement
dell’islam, lo straripamento La tolleranza
è intollerante. “Ci si accecherebbe al fenomeno detto della «religione»”,
invece di chiarirlo, “o del «ritorno della religione» oggi se si continuasse a opporre così ingenuamente la Ragione e la Religione, la Critica o la Scienza e la Relgione, la Modernità
tecnico-scientifica e la Religione”.
Un déferlement
anche del filosofo, imperioso e incontenibile, come se fosse caduto, sia pure per
caso, in un terreno fertile, a ogni riga. Dapprima vertiginoso. Per esempio al
§ 29 del post-scriptum: “La
religione´? Risposta: «La religione, è la
risposta»”. E mille altre sottili contestazioni della vulgata del Dio
morto, del neo positivismo. In dialogo ostante con Benveniste, “Il Vocabolario
delle istituzioni indo-europee”. Poi al solito contorto, in avvitamento
costante. Partendo dall’ingolfamento repentino nella “sacro-santità
dell’effetto fallico”, o
“carno-fallogocentrico… percorso di un lavoro avvenire”. Per la notoria
golosità, e per il feticismo verbale – il filosofo praticava troppe lingue.
Il femminicidio – c’è pure il
femminicidio - a questo punto mette in carico alla religione, non più ragione
ma circoncisione, del cuore se non della carne, con toni da propaganda di
guerra: “Nello scatenamento più assassino di una violenza indissolubilmente
etnico-religiosa, da tutti i lati, le donne sono delle vittime privilegiate non
soltanto, se si può dire, di tante condanne a morte, ma degli stupri o
mutilazioni che le precedono o le accompagnano”. Per concludere: “La religione
del vivente, non è questa una tautologia?” Meglio quella del non vivente?
Ma più tempi Derrida pone icastico – qui
al suo meglio: motorino d’avviamento, moltiplica e albero di trasmissione. Quello
principale invece, che merita evidenziare, riporta a Kant, “La religione nei
limiti della sola ragione”. La religione oggi? La religione (atto di fede,
promessa, avvenire, attesa senza attesa, della morte e dell’altro, rapporto
alla singolarità dell’altro) “non può che cominciare e ri-cominciare, quasi
automaticamente, meccanicamente, macchinalmente, spontaneamente… nel deserto nel deserto”. Cioè nel vuoto. Siamo in
tema in puro derridiano, con la cosa della cosa, e la performatività, ma il
senso resta chiaro - benché scoperto, e un filo filisteo: l’essere rifugge dal
vuoto, e il “ri-legare” (il senso originario di religio) torna “spontaneamente,
cioè, come la parola indica, insieme come l’origine di ciò che scorre da una
sorgente, sponte sua, e con
l’automaticità del macchinale”. Per il meglio e per il peggio, “senza nessuna
assicurazione né orizzonte antropo-teologico.
Nell’erranza – il pastore errante nel
deserto, etc. - la religione “ritorna”, cioè riemerge, riappare. Un po’ remota
per noi che “condividiamo… un gusto senza riserva, se non una preferenza incondizionale,
per ciò che, in politica, si chiama la democrazia repubblicana”, emergendo dogmatica,
non ortodossa. Ma è il fondo ineliminabile del messianismo, dell’attesa. Cui si
coniuga la khora, altro derridismo,
derivato da Platone. La patria fuori le mura della città, il luogo figurato tra
essere e non essere in cui le “orme” originarie si trovano, in attesa di
dispiegarsi – Heidegger ne aveva riparlato come di una clearing house, un spazio fuori dogana in cui l’essere si esercita.
L’indefinito individuale, un sostrato, “né soglia né lutto” (ni seuil ni deuil): “Nella nostra memoria
ciò che non è riappropriable….. questo immemoriale di un deserto nel deserto”.
L’opinione – i “caratteri fondamentali della storiografia degli Annales vi si
avvicinano di più.
Alla
religione Derrida paga tributo, riconoscente se non devoto - da buon
conoscitore della dogmatica, la patristica, la ritualità e perfino la storia politica
del cristianesimo romano. Contesta che ci sia un “ritorno alla religione”,
poiché non c’è stato allontanamento. Lo
fa attraverso il concetto, apparentemente collaterale, del linguaggio della religione,
che è il latino. Proponendo anzi di ribattezzare “mondialatinizzazione” la
“mondializzazione”, francesismo per globalizzazione, “per prendere in conto l’effetto
della cristianità romana che surdetermina
oggi tutto il linguaggio del diritto, della politica, e anche l’interpretazione
del cosiddetto «ritorno alla religione». Nessun preteso disincanto, nessuna
secolarizzazione viene a interromperla, anzi al contrario”. La religio è qui: sia nell’etimologia-accezione
di Cicerone, relegere, e cioè
“l’attenzione scrupolosa, il rispetto, la pazienza, se non il pudore e la
pietà”, sia in quella di Lattanzio e Tertuliano, religare, “inventata dai cristiani” secondo Benveniste, per
connettere la religione al “legame”, a un obbligo, “e dunque al dovere e dunque
al debito, etc., tra gli uomini e verso Dio”
“Pensare religione è pensare il
«romano»”. A Capri, non lontano da Roma ma già in ambiente “italico” e non
“romano”. In ambito cosmopolita ma circoscritto, isolato, quasi eremitico, e occidentale,
europeo, in quattro lingue, francese, tedesco, spagnolo e italiano. “La cui
«cultura» comune, diciamolo, più è manifestamente cristiana, appena
giudeo-cristiana”. A proposito di una religione che, “europea, fu anzitutto latina”.
Fu, dunque.
I convenuti di Capri discutono del
“ritorno al religioso”, ma in che senso – nella domanda è la risposta.
“Un’alternativa opponeva da un lato la Religione, dall’altro la Ragione,
l’Illuminismo, la Scienza, la Critica (la critica marxista, la genealogia nietzscheana,
la psicanalisi freudiana e la loro eredità), come se non si potesse non finirla
con l’altro”? O non “ciò che “la doxa”,
l’opinione pubblica, “determina confusamente come «fondamentalismo»,
«integrismo», «fanatismo»”? E insomma, sia pure l’integralismo comune a tutte
le religioni monoteistiche e esclusive, “che dire dell’islam, giustamente”? Il
“ritorno” all’islam, dunque. Dell’islamismo e non dell’islam, certo, ma quello non
“si esercita nel nome di questo”? Di
più: “Mai trattare come un accidente la forza del nome in ciò che avviene, si fa,
si dice nel nome di una religione, in
questo caso dell’islam”.
Sull’islam il giudizio è poco
filosofico. Anche il giudizio politico è semplicistico. Ma c’è di mezzo la
storia vivente, l’attualità, con robuste evidenze – comprese quelle digitali:
“Come altre in passato, le nuove «guerre di religione» si scatenano sulla terra
umana (che non è il mondo) e lottano anche oggi per controllare il cielo col dito e con l’occhio: sistema
digitale e visualizzazione panottica virtualmente immediata”. Tenta all’inizio
di metterla sul difficile: “Non si capirà l’inondazione «islamica»… se non si
determina il luogo del passaggio tra questa interiorità e tutte le dimensioni
apparentemente esterne (tecno-scientifiche, tele-biotecnologiche, cioè anche
politiche e socio-economiche, etc.”. Ma non ce n’è bisogno. Di fatto è il conflitto
del mondo arabo, del deserto proprio, con la modernizzazione. Che però c’è
stato per secoli senza fondamentalismi, fino a Khomeini - che in realtà è un falso fondamentalista,
un realista nazionalista.
Il tema è questo: “Ciò che si assembla
precipitosamente sotto il riferimento «islamico» sembra oggi detenere qualche
privilegio mondiale, o geopolitico, a motivo delle natura delle sue violenze
fisiche, di alcune delle sue violenze dichiarate del modello democratico e del
diritto internazionale (il «caso Rushdie» e tanti altri – e il «diritto alla
letteratura»), a motivo della forma insieme arcaica e moderna dei suoi crimini
«nel nome della religione», delle sue dimensioni demografiche, delle sue figure
fallocentriche e teologico-politiche”. Sembra, dunque.
Che dirne? È una congiuntura politica e
non un destino – Derrida non lo dice, ma lo è. Fallocentrica solo se non si
oblitera la donna in quella “cultura”, dove è al centro delle politiche tribali
matrimoniali, e formatrice, non solo fattrice, della discendenza, così centrale
in quella khora. E perché non
petrolifera? Il petrolio non è filosofico ma è storico.
Il saggio fu pubblicato in italiano nel
1995 da Laterza come “Annuario Filosofico Europeo”, sotto titolo “La
religione”, a cura di Vattimo e dello stesso Derrida. Non più ripubblicato in
Italia, non conciliandosi con la presumibile intenzione dell’editore, “Fede e
sapere” è rimasto fertile in Francia.
Derrida non lo fa – di proposito? – ma è
impossibile non collegare i due termini che nella sua trattazione ritornano e s’intrecciano:
il Dio vivente e il déferlement
islamico”. Tre con la “mondialatinizzazione”, il latino anglosassonizzato della
comunicazione, della politica e del diritto.
Jacques Derrida,
Foi et savoir,
Editions du Seuil, pp. 133 € 7,50