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sabato 13 giugno 2015

L’Europa sospesa

Dieci anni fa Germania e Francia sospesero Maastricht, per poter spendere fuori bilancio. Ora sospendono Schengen, perché non vogliono i profughi – non gli immigrati abusivi, i rifugiati politici. Questa è l’Europa.
Gli stessi che cinque anni fa hanno stritolato l’Italia, ridendo. Mentre perpetuano la crisi con l’incredibile gestione del caso greco: un giorno la Grecia sarà salvata, due giorni no, per far guadagnare affaristi e speculatori.
A otto anni dalla grande crisi delle banche, l’Europa è la sola area economica ancora in crisi.
L’Europa è sospesa, dunque. Meglio: appesa. Alla Germania. La quale, avendo jugulato il resto dell’Europa a Maastricht, alle sue esclusive condizioni, con una banca centrale europea che è solo una denominazione diversa della banca centrale tedesca, sola prospera.  
Non è l’Europa? Sì, l’Europa è questa. Ma non un’Europa federale, come dicono i ttattai, e nememno confederale.

Secondi pensieri - 220

zeulig

Amicizia –Aristotele – e poi Cicerone – dice l’amico un “alter idem”, l’Altro con cui c’è identificazione, totale o per qualche aspetto. Nel presupposto di un’identità – l’amicizia non è per la debolezza di spirito.

Amore – Da Platone a Petrarca, con tutto il Medio Evo, alto e basso,  trasforma l’amante nell’amato. Petrarca, “Secretum” III, dice che lo trasforma  “in amatos mores”, se non proprio nella persona: nei suoi attributi e modi di essere. Negli amori eterosessuali, dunque, il maschio si fa un po’ femmina, e viceversa.

Architettura – Ha – senza saperlo – le stesse proprietà di insight riflessione, sintesi) della filosofia. Come la musica forse, “musica pietrificata” la voleva Schelling, ma con maggiore proprietà di linguaggio, meno esoterico.  

Dio – Non è molto amichevole nella tradizione greca. È anzi un nemico, iroso, rancoroso, avido anche, nelle sue molteplici incarnazioni, e inaffidabile (spergiuro, falso, furbo), a cui bisogna pagare dei tributi, un vassallaggio. Senza peraltro obblighi di fede. Giusto per molcirlo. Se non, più spesso, come un pensiero molesto di cui liberarsi fingendosi devoti, con offerte, promesse, gesta. Una divinità di cui resta forte l’imprintig nello scongiuro, la pratica apotropaico così diffusa e persistente, cognita e involontaria.
Peggio nella tradizione ebraica, o biblica: Dio coagula troppi nodi impervi per parlarne.

La morte di Dio è un “crimine contro l’umanità”, arriva a dire Derrida. Senza dirlo – senza argomentarlo, soffermarvisi, elaborare – ma convinto e convintamente. Lo è nella concezione cristiana: “Il crimine contro l’umanità è un crimine contro ciò che c’è di più sacro nel vivente, e dunque già contro il divino nell’uomo, in Dio-fatto-uomo,  o l’uomo-fatto-Dio-da-Dio (la morte dell’uomo e la morte di Dio rivelerebbero qui lo steso crimine)”.
Nella concezione cristiana, aggiunge Derrida, Nietzsche compreso: era il suo rovello rimosso - o ineliminabile, che è la stessa cosa, a ripensarci, sotto la gioia rumorosa del creatore Zarathustra.

Madre – È sempre più paterna. Correttrice, madre Coraggio. Nelle cronache sembra una novità rivoluzionaria: in America la madre che schiaffeggia il figlio immischiato nelle proteste di piazza, a Roma la madre rom che invita incessante i figli pirati della strada a consegnarsi (sconto di pena), a dire alla guida il minore (altro sconto di pena), e infine ne organizza la cattura.
Ma è un “ritorno” per l’opinione pubblica, cioè per la borghesia. La madre era domina in antico, e lo è sempre stata nella working class, in campagna e in città, seppure a costo di fatiche. Il maschio confinando alla rappresentanza (mercato, comunità) e alla procreazione. Maschile è il “ruolo”. A lungo codificato, certo, nelle cosiddette “posizioni di potere”, ma antropologicamente marginale.

È sempre più scopertamente mater matuta, l’antica divinità italica dell’aurora, della vita cioè alla nascita e delle cose del mondo. Una che ne assomma tutte le funzioni è la “SamCam” dei giornali popolari inglesi, Samantha Cameron, la moglie del primo ministro. Che è “tutto”, e avrebbe dovuto governare lei in prima persona, invece del marito David, da lei “costruito” e poi regolato in ogni aspetto. Insieme madre di famiglia e casalinga, nobile di antico lignaggio, impegnata sul sociale e aperta a tute le cause civili. Conservatrice cioè e laburista. E tempista in ogni scelto, che il marito condivide.

Mondialatinizzazione - È neologismo ripetutamente proposto da Jacques Derrida, soprattutto nei seminari e i saggi sulla religione e il perdono. Per significare l’adeguamento di tutto il mondo alla civiltà giuridica latina, seppure in salsa anglosassone.
Trattando ripetutamente del perdono, che all’epoca, fine Novecento, imperversava nel galateo degli Stati,  Derrida finiva per collegarlo da ultimo (nel saggio-intervista con Michel Wieviorka, “Le Siècle et le Pardon”, su “Le Monde des Débats” del 9 dicembre 1999, più che nel libro-conferenza “Perdono”) alla “vecchia nozione” dei “crimini contro l’umanità”. Nozione radicata nella “tradizione abramitica”, e più nel cattolicesimo. È un crimine, argomenta Derrida, che si basa sulla “sacralità dell’uomo”. Questa sacralità “trova un senso nella memoria abramica delle religione del Libro e in un’interpretazione ebraica, ma soprattutto cristiana, del «prossimo» e del «simile». Di conseguenza, “se il crimine contro l’umanità è un crimine contro ciò che c’è di più sacro nel vivente, e dunque già contro il divino nell’uomo, in Dio-fatto-uomo,  o l’uomo-fatto-Dio-da-Dio (la morte dell’uomo e la morte di Dio rivelerebbero qui lo stesso lo steso crimine), allora la «mondializzazione» del perdono somiglia a un’immensa scena di confessione in corso, dunque a una convulsione-conversione-connessione virtualmente cristiana, un processo di cristianizzazione che non ha più bisogno della Chiesa cristiana”.
Questa mondialatinizzazione, aggiunge Derrida in ipotesi, si impone perché contigua agli interessi, “come sempre nel campo politico”. Derrida è già giunto alla conclusione che il vero perdono non può essere che disinteressato. anche da interessi spirituali  sociali. È una tecnica, si potrebbe dire. Anche una forma di ipocrisia? Derrida non trova altre ragioni, “se un linguaggio che incrocia e accumula in sé possenti tradizioni (la cultura «abramica» e quella di un umanesimo filosofico, più precisamente di un cosmopolitismo nato esso stesso da un impianto di stoicismo e di cristianesimo paolino) s’impone a culture che non sono all’origine né europee né «bibliche»”.

Nomadismo – È anch’esso materno. È invalso considerarlo maschile, fenomeno storico legato al patriarcato: poliandria, cavallo, anche dopo la ruota con il carro, esposizione delle femmine. Alla caratteriologia delle distinzioni di Bachofen tra patriarcato e matriarcato. Mentre è femminile per esempio in Africa, del Nord e del sud del Sahara – questa  supposta sede del matriarcato sedentario. È così nella cronaca, nelle migrazioni attraverso il Mediterraneo, di madri, mogli, figlie – nonché nelle migrazioni femminili di massa dall’Est Europa, sempre di mogli e madri, o tra i rom.

zeulig@antiit.eu

Classico Wittgenstein, architetto

Un bellissimo libro, pieno di foto significative di Wittgenstein negli anni viennesi, da marinaretto a giovanotto impomatato incravattato. Dell’alto, elegante, bello, avventuroso padre Karl, finito mecenate delle arti. Della sorella amatissima Margaret sposata Stonborough. Per la quale progettò e realizzò una villa iperrazionalista a Vienna, nella Kundmanngasse. Con pignoleria – l’altra sorella amatissima, Hermine, ricorderà: “Mi sembra di sentire ancora il fabbro che gli chiede: «Mi dica, signor ingegnere, è molto importante per lei un millimetro? », e ancora prima che abbia finito di parlare Ludwig che gli risponde un «si» così sonoro ed energico  che quello quasi si spaventa”. Della casa sullo strapiombo che si costruì manualmente sul lago vicino a Sogenfjord in Norvegia. Degli innumerevoli marchingegni meccanici elaborati leonardescamente, come esercizio di fantasia e a uso dei bambini di scuola quando decise di farsi maestro elementare.
Un omaggio, ma con una lettura erta. Lo studioso olandese, specialista di psicologia cognitiva, da decenni impegnato su Wittgenstein, propone di legare l’iperrazionalismo della Kundmangasse con la filosofia di Wittgenstein. Non tanto col “Trattato” quanto con le “Ricerche filosofiche”, con la non univocità dei linguaggi. Assunto arduo, anche se la grande costruzione gliene offre più appigli, affascinanti.
Wittgenstein seguiva Looos. Ma Loos era apodittico nel rifiuto dell’ornamento, dell’abbellimento. Wittgenstein pure, ma senza semplificare: era anzi attento ai particolari minimi, effetti di luce e di cromie, comodità di uso e agibilità. Di ogni dettaglio – di ogni “parola” – “minuziosamente configurato”, facendo un’“individualità” che si ricompone nell’insieme. La casa come una frase, insomma, un’opera, un mondo.  “Nel silenzio della villa approdando nuovamente alla imperturbabilità del classico” – in architettura, e in filosofia?.
Paul Wijdeveld, Ludwig Wittgenstein architetto, Electa, remainders, pp. 184, ill. € 19

L’Italia di Tavecchio

È la Corea, di nuovo, manca solo a Conte l’acqua benedetta. Un arbitro che in cinque minuti dà un rigore che non c’è alla Croazia, annulla un gol valido all’Italia, e avalla un gol in fuori gioco della Croazia è al di sopra di ogni sospetto. Trattandosi di un inglese, e non la prima volta, altri ne abbiamo visto in Champions League e ai Mondiali, di sicuro gioca l’invidia inglese per l’Italia - incancellabuile Aston di Italia-Cile 1962, che consentì tutto ai cileni di casa,. compreso fratturare il naso a Maschio, il centravanti italiano, mentre espelleva i due italiani cardini della difesa, naturalmente non pagato (poco). Ma questo che gioco è? Sicuramente non è calcio.
Questo avviene oggi perché l’Italia è di Tavecchio. Forse non cattivo, certamente incapace. Col Conte che forse non ha capito in che mani si è messo. Oppure l’ha capito. In fondo Conte, prima che della Juventus, era l’allenatore del Siena. E per non far giocare gli juventini, esuma Astori, che non gioca nella sua squadra. Facendo vedere a un certo punto anche Ranocchia, artefice di almeno la metà del disastro Inter quest’anno, la sua squadra.
Ma forse c’è di più. Quando si pensa che agli arbitri internazionali ci pensa Collina, la questione si complica ancora. Tavecchio è l’uomo di Berlusconi e Galliani, Collina pure. E allora? L’arbitro inglese non fa che applicare il raffinato repertorio truffaldino di Collina. Subito un paio di ammonizioni all’Italia per bloccarne gli ardori. per terrorizzare il perdente. Gioco fermo sulle sceneggiate croate per bloccarle ripartenze dell’Italia, senza mai un’ammonizione per simulazione, gioco attivo quando l’Italia si ferma per protestare. Ma anche, perché no, rigori dati e gol annullati a capriccio, di forza, tanto non ci sono sanzioni ma premi – Atkinson arbitrerà gli Europei e forse i Mondiali, Collina è di parola.
Peggio di tutti fa la Rai. Che non difende la sua audience, in una delle poche partite che riesce ancora a gestire. Al contrario, la subissa di commenti presunti tecnici, al di sopra della mischia, lo sporti si vuole al di sopra della mischia, intercalati da incitamenti alla Croazia. Lo sdegno concentrando sulla svastika in campo, di cui la Croazia è vittima.

venerdì 12 giugno 2015

Fisco, appalti, abusi (71)

Continua la complicazione fiscale varata dal governo come semplificazione. Non c’è solo il 730 precompilato che solo i caf e i commercialisti possono scaricare, previa autorizzazione scritta del titolare. Chi fosse riuscito a scaricarlo da solo, non potrà comunque consegnarlo direttamente all’Agenzia delle Entrate: deve passare da un commercialista.

Scaricati dieci milioni di 730 precompilati, vanta trionfalista l’Agenzia delle Entrate. Senza dire che la precompilazione è stata fatta, a spese dello Stato, a beneficio dei caf e i commercialisti. Che per questo non hanno fatto pagare meno gli utenti, ma il doppio – dovendo “scaricare la pratica”.
E gli altri dieci milioni di 730 precompilati?

L’Autorità per l’Energia vanta come una misura a favore degli utenti la rateazione delle vecchi bollette. Mentre il provvedimento avalla surrettiziamente, invece di sanzionarla, la pratica scorretta dei gestori – tra essi primeggia l’Acea, l’azienda romana - che emettono fatture a conguaglio incontrollabili a distanza di anni. Talvolta con utenti da anni non più contrattualiizzati.

Sempre più frequentemente, ora siamo a due giorni su sette, i maggiori quotidiani impongono il pagamento dei supplementi pubblicitari, mezzo euro. Non c’è l’obbligo di comprare il giornale, è vero. Ma i giornali sono passati dalla gratuità, spesata dalla pubblicità, alla vendita due volte degli spazi pubblicitari. Senza che l’Autorità per Comunicazione o l’Antitrust abbia nulla da obiettare.

Alice in Italia

“Il fascino di Roma è un argomento banale. Gli scrittori, tuttavia, per solito ne trascurano un aspetto, il colore degli edifici”. Nulla di eccezionale, minute cose viste, elaborate e riposte in poche righe, molte anche scontate. A Bologna il ritornello di ognuno con cui gli avviene di parlare, lui inglese ricco, è se non vorrebbe un incontro con “qualche signora amica”. Sempre a Bologna  a vedere Bologna-Alba, la finale per il campionato tra italiano tra le squadre vincitrici della Lega Nord (Bologna) e dea Lega Sud (Alba, la squadra allora di Roma), il tifo è quello che è novant’anni dopo, fuori e dentro lo stadio, col sudore invece del deodorante. E tuttavia è già il viaggiatore Byron, molto inglese (molto snob) ma simpatico, autore in proprio di classici del viaggiare, l’ispiratore di Leigh-Fermor, Annemarie Schwarzenbach, Chatwin, Peter Levi.
La riscoperta dopo ottant’anni di questo suo libro d’esordio, pubblicato nel 1926 a ventun’anni, se non ha il pregio della “Via per Oxiana” e di “Gente di pianura, gente di montagna”, è una lettura istruttiva e attraente, da Londra a Atene. Dell’inefficienza teutonica dell’ordine. Dei Wandervolel, i vagabondi tedeschi. Della Baviera, “la regione più tedesca della Germania”. Della ottusa cattiveria burocratica degli italiani. Con aspetti inediti dei monumenti celebri che abbiamo sotto gli occhi. Anche del fascismo, che non gli piaceva, alla vigilia delle leggi speciali: “Il fascismo è una specie di regime di boy-scout, con la differenza che invece di portare le bandiere loro portano le pistole:  l‘Italia è vittima non tanto di una dittatura ma di un’oclocrazia, un governo fatto di una massa armata, e una massa immatura per di più”.  O della riscoperta del barocco a Lecce, e poi in Sicilia, a opera dei Sitwell. Poi viene la Grecia, che diventerà la sua patria ideale, forse più dell’Italia: tene, Fidia, il nome Byron
Byron era stato in Italia già due volte, nel 1923 e nel 1924. Nell'estate del 1925, espulso dall’università a Oxford, ci ritorna in un lungo polveroso viaggio in macchina, con due amici, David dei abroni Henniker, e Simon Trower. Ha vent’anni, non ha molti studi regolari, ma sa molte cose. A Eton si era segnalato per le imitazioni della regina Vittoria. Pratica che continuò a Oxford, fino a che non gli valse l’espulsione. Ma aveva l’occhio, evidentemente: molta arte, e anche storia, si sa da lui, al suo modo svagato. Il titolo originale è “Europe in the Looking-Glass”, e come Alice Byron si muove, garrulo ma giusto al punto, la grazia è quella di Lewis Caroll, divagante e no.  

Robert Byron, L’Europa vista dal parabrezza, excelsior 1881, outlet, pp. 406 € 8,25

Renzi privatizza la Cdp

Nel silenzio di Grillo e di altri che sanno ma non parlano, si privatizza la Cassa Depositi e Prestiti. Lo sappiamo da uno dei futuri manager, Costamagna,  l“orecchio di Dioniso” dei migliori giornalisti economici, e quindi sarà vero.
La privatizzazione della Cassa, il vero Forziere Italia, con le mani in pasta nelle migliori aziende, oltre che nella finanza pubblica, si fa semplicemente mettendoci a capo due banchieri, Costamagna e Gallia. Renzi non potrebbe, il vertice Cdp non è in scadenza, ma le banche d’affari, cioè gli affari, hanno fretta, e il governo deve adeguarsi. Senza esborso per i privati, le privatizzazioni continuano in Italia con Renzi a costo zero per i cosiddetti investitori.
Cdp “controlla” Eni, Snam, Terna, etc, gestisce 200 miliardi, forse più, di risparmi postali, ha 100 miliardi a disposizione per gli investimenti strutturali degli enti locali. Una cornucopia da spolpare? Finora indenne da scandali, e non poteva durare.

Voglia di commissariato

Anche il giubileo. Dopo l’Expo, le amministrazioni comunali, le grandi opere, i porti, i parchi, la nettezza urbana, big business, la sanità, bigger business, e quant’altro: continua la corsa all’autocommissariamento della politica.
Commissario, commissariamento, commissariato immagini e odori non grati fanno emergere, di trivi e angiporti delle questure, ma per la politica profumano. E si viene incontro al desiderio di promozione dei giudici. Ognuno dei quali ha certamente sognato da bambino di essere il numero 1 – i giudici in Italia sono come il presidente degli Stati Uniti in America (sono anzi di più, essendo legibus soluti).
Un buon giudice commissario è la soluzione? Si veda Cantore. C’erano problemi con la legge Severino. Cantore le trova 25 punti da correggere. Con qualche problema, ogni gìudice commissario dovendo entrare in conflitto con ogni altro. Così a Roma il commissario Cantore chiede il conto al commissario Sabella, altro giudice emerito, e lo manderà a casa con tutta la giunta Marino per omessa vigilanza e forse concorso esterno in associazione mafiosa: un disastro, il commissariamento di una grande città, la più grande d’Italia.
In alternativa ai giudici soccorrono i prefetti. Che non sanno fare nulla – i prefetti sono formati a controllare le pratiche burocratiche dei Comuni, che rispondano alle regole – e quindi sono buoni a tutto. Il prefetto di Roma Gabrielli si è illustrato alla Protezione Civile per non avere prevenuto né gestito niente, in mare e in terra, il Bisagno, le Cinque Terre, la Lunigiana, l’Emilia, l’Aquila. E ora si vede già commissario in Campidoglio, e anche alla regione Lazio, in difetto al Giubileo.
Un gioco pilatesco, a lavarsi le mani. Furbo anche: ogni commissario ha una targa politica. Al costo naturalmente di molti milioni - la spesa pubblica si avvantaggerebbe non poco tagliando i commissariamenti e i commissari, anche quelli alti: si spenderebbe meglio e meno.

giovedì 11 giugno 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (248)

Giuseppe Leuzzi

Il giudice scrittore Carofiglio fa nel racconto “La velocità dell’angelo” la tassonomia dei pentiti, in questi termini: “Perché dei criminali si confidano con dei poliziotti? Per tante ragioni. Perché vogliono eliminare o danneggiare un avversario in qualche business illegale; perché vogliono assicurarsi un atteggiamento morbido dello sbirro rispetto alle loro attività; a volte per amicizia; spesso solo per il piacere di accusare qualcuno – infamità, si chiama in gergo”. La giustizia è lastricata di ragioni, l’una più onorevole dell’altra.

Per lo speciale “Pubblico spreco”, su Sky, quello della sanità Sarah Varetto illustra col nuovo padiglione del Policlinico di Catanzaro. Una struttura bellissima, ordinatissima, pulitissima, attrezzatissima, che attende di entrare in funzione per le solite procedure burocratiche. L’inviata di Varetto, accolta dal Policlinico orgoglioso con piena libertà di movimento, su e giù per i piani e attraverso le sale, dice il padiglione incustodito, ripetutamente, è un tormentone, per quattro o cinque lunghi minuti. Mentre tutto è in ordine. Avranno sbagliato indirizzo?

Per lo stesso speciale, come opera incompiuta Varetto porta la Salerno-Reggio Calabria, che dice in costruzione dal 1962. Tutto si può dire.

Il delitto d’onore
Si addebita il femminicidio a una mentalità arretrata. E cioè, più o meno consciamente, al Sud. Per il ricordo ancora vivo del “delitto d’onore”, che anch’esso si addebitava, e si addebita, al Sud – l’onore malinteso si vuole concetto meridionale (non in quanto “onore” ma in quanto “malinteso”). Anche se bisogna spiegare cosa è il delitto d’onore, la memoria si è persa – l’addebito c’è, ma non si sa di che.
Il codice penale riconosceva come delitto d’onore, comminando pene ridottissime, l’assassinio di un congiunto stretto reo di relazioni carnali “illegittime”. L’art. 587 C.P. poi abolito lo spiegava bene:  
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.
L’art. 587 non veniva dal Sud. Veniva dal codice Zanardelli, 1890, che si impiantava sul codice del Regno di Sardegna, del 1859. E non vigeva solo in Italia. Non era inteso al femminicidio: aveva lo sconto anche la moglie tradita che aveva ucciso o fatto uccidere il marito e la sua amante – purché in “stato d’ira”. Fu abolito tardi, nel 1981, un decennio dopo l’introduzione del divorzio, ma non per le resistenze del Sud – che non contava, come non conta, nulla.
Soprattutto, l’imputazione al Sud è un’estensione del falso concetto della donna meridionale. Che viene vista, chissà perché, in condizione servile e in stato di semi-abiezione. Mentre è probabilmente più energica della “donna settentrionale”, nonché più avvenente della razza di palude padana, di colorito e di forme, e ha sempre fatto figli con chi ha voluto.   

Aspromonte
Tinto ultimamente di nero, dai Carabinieri e dalla Rai, è la “Montagna sacra”. Rielaborando qualche anno fa temi e esperienze di Polsi, il santuario mariano al centro della montagna, “Polsi, il luogo di culto con più continuità”
veniva spontaneo connotare l’Aspromonte, “la Montagna”, come montagna sacra. Ma più convergono in questo senso i toponimi, di paesi e località sparse: Santa Cristina, Sant’Eufemia, Santo Stefano, Sant’Alessio, Santa Giorgìa, San Luca, Aan Rocco d’Acquaro, Sant’Agata, santa Marina, san Salvatore, san Demetrio, sant’Angelo, Tre Croci, la Croce di Romeo, san Lorenzo, san Pantaleone... L’esito di una religiosità antica, se Polsi si può datare attorno al 5-600 a.C.. E della permanenza, lungo sei-sette secoli a partire da metà 700, quando Bisanzio lanciò la crociata iconoclasta, dei monaci ortodossi n fuga. Che occuparono, letteralmente, la Montagna, a valle e a monte, in romitaggi, anfratti (sul versante ionico resistono ancora delle “meteore”, eremitaggi dentro la roccia), monasteri.  

La Montagna è anche al centro di più cicli cavallereschi, benché alieni. Ora dimenticati, ma vivi ancora negli anni 1970-1980. I percorsi si sviluppavano tra toponimi e riferimenti al ciclo cavalleresco provenzale-occitanico, al ciclo carolingio del Reali di Francia fino al Guerrin Meschino, e al ciclo arturiano dei Cavalieri della Tavola Rotonda, in qualche frangia. Furono trapianti voluti dai Normanni appena arrivati, nell’XI secolo, nell’anonima “Chanson d’Aspremont”. Anonima, ma databile al primo Millecento. Due-tre secoli prima che Andrea da Barberino ne redigesse i suoi “romanzi” di successo. La “Chanson” fece da prologo alla più nota “Chanson de Roland” – e quindi all’“Orlando innamorato” e all’“Orlando Furioso”.
C’è una cospicua “materia d’Aspromonte”, un ciclo cavalleresco attorno alla Montagna, intesa come ultimo baluardo della presenza bizantina da conquistare, nei secc. IX-XI. Il lungo poema è di una storia d’amore, tra Ruggieri e Gallicella, della caduta di Risa (Reggio Calabria), e del giovane Rolandino, che nell’Aspromonte ha l’iniziazione al cavalierato, e si scopre eroico, imbattibile. Con l’accortezza di fare del nemico un occupante mussulmano, invece che bizantino: i Normani, gli agenti inviati dal papa a latinizzare il Sud Italia, avevano l’occhio anche su altre opportunità nei Balcani, d’intesa con l’impero bizantino. Il ciclo sarà sfruttato poi, tra Quattro e Cinquecento, dagli Estensi e altre signorie alla ricerca di nobili radici. Un ciclo adattato, di versioni e diversioni, di nessuna affidabilità filologica, ma pieno di echi, del ciclo dei Reali di Francia e della materia di Bretagna, o arturiana. 

Il controllo del territorio vi può essere ferreo. Sono i Morti, ma è tiepido e il cielo è sgombro. Dobbiamo scegliere tra le castagne a Gambarie e i funghi a Carmelia, optiamo per i funghi. Ma a Carmelia Liliana non ha aperto. Sarà occupata come tutti al cimitero, oppure non ci sono più cacciatori, né di uccelli né di funghi, da servire.
Non si è incontrato salendo nessuno, e nessuno si vede. Si lamentano tutti quest’anno che la montagna è invasa dai fungaroli, anche dalla Sicilia, e invece non s’incontra nessuno, non c’è nessuno. Ma non c’è tempo per chiedersi che fare, il cielo si rannuvola veloce. Decidiamo di provare a Zervò dalla Sciditana, la signora C.. Al peggio chiederemo rifugio a Antonio e Teresa, ormai è tardi per ogni altra cosa.
Comincia a piovigginare presto, già all’incrocio per Cannavi, e la strada è nuovamente dissestata. Larghe buche la punteggiano, che con l’acqua non si sa quanto sono profonde. La strada è opera della Comunità Montana e segue questo ciclo: per un anno è perfetta, opere murarie e manto stradale, il secondo anno compaiono le buche, poi per tre anni è dissestata, fino al nuovo appalto, che ricostituisce il manto di asfalto, dopodiché per un anno si va sul velluto, e così di seguito. Bisogna capitarci l’anno buono: le opere murarie tengono, essendo di cemento armato, l’asfalto no perché non è mai stata fatta la massicciata. Ci saranno nuovi criteri per fare le strade, chissà, con l’asfalto direttamente sulla terra.
Bisogna procedere in slalom. La macchina è di città, ha anche il baricentro basso, sulla strada della Comunità Montana si andrebbe bene con una 4 X 4. Anche per questo la macchina andrebbe cambiata. E perché porta impresso il logo Roma sulla targa, che espone a sicuri controlli dei Carabinieri, a ogni uscita, pratica fastidiosa - il logo dà più fiducia ai militi, che si passano senza pericolo i 10-15 minuti della trascrizione documenti? Ma con cautela si può farcela, ce l’abbiamo già fatta in precedenti cicli quinquennali. E poi non siamo più soli, una jeep si accoda, forse di cercatori di funghi.
La gita ora si allunga, faticosa. Per la pioggia, che non è a scroscio, è anzi sottile, ma è portata dal vento e ristagna sui vetri. Per l’incertezza, saranno aperti a Zervò? La comunità di recupero di don Gelmini è stata chiusa, che ravvivava l’ex sanatorio con attività collaterali - il prete è stato incolpato di pedofilia a 83 anni, dava fastidio, e ora è morto, dicono. E la strada si allunga, si raddoppia, si triplica, dovendo passare da un pizzo all’altro della carreggiata, e in prima-seconda per evitare il moto sussultorio. Dieci minuti, venti, forse trenta, Zervò non è mai stata così lontana. La Toyota segue con andatura più rettilinea, ma anch’essa scalando le marce, e non sembra avere fretta. Se non è di militari, il colore è grigioverde, di forestali o carabinieri.
L’ansia si moltiplica al momento di svoltare per Zervò, acuita dal lugubre edificio nuovo e abbandonato della caserma dei Cacciatori, il reparto speciale dei Carabinieri per la caccia ai rapiti, se non ai rapitori di persona. - ora lo Squadrone dei Cacciatori Calabria è eliportato, sta in città. Mentre gli edifici della Comunità serrati, con le imposte già scrostate, riportano alla memoria il vecchio Zervò, per decenni rudere monumentale di una sanatorio che la guerra impedì di ultimare. Ma è lo smarrrimento di un attimo. Il capanno è aperto. La signora C. cè, si fa sulla porta per vedere chi arriva. Le tiene compagnia la figlia, che si affretta con l’ombrello a prenderci alla macchina. Non ce n’è bisogno, la pioggia ha quasi smesso, ma è un gesto di cortesia. Il giardino è sempre curato, i grandi cespi di ortensia sono pareggiati e ripuliti, le ortensie blu hanno ancora il colore. Anche il capanno ha qualche miglioria: la cucina, il banco, i tavoli. Siamo soli ma la storia ora è a lieto fine.
Siamo al coperto. La tavola viene apparecchiata accanto al camino, e il camino viene acceso, luminoso, caloroso. Abbiamo i funghi per primo e i funghi per secondo. Abbiamo salvato la giornata della signora C. e della figlia. E ne possiamo godere la conversazione. La ragazza ha un debole per i militi, la Toyota era militare, con i quali si è fermata a conversare. “Credevano che foste cercatori di funghi”, dice col suo sorriso rumoroso, “ne girano tanti senza permesso”. E quindi abbiamo salvato anche la giornata dei militi, impegnati alla caccia dei cacciatori di funghi: non siamo scesi dalla macchina per fortuna lungo il percorso, e quindi non ci hanno potuto beccare per la multa, ma potranno sempre segnalare la nostra presenza. E poi: tra rapiti e funghi non c’è paragone.

leuzzi@antiit.eu 

Ritorna il dialetto lingua viva

Una esumazione fresca, come di acqua di sorgente. Per quanto di maniera, nei temi, la metrica, la trasposizione, questi canti hanno una lingua diretta, ancora viva. Forbita, come è di tutte le raccolte di canti “popolari”, ma schietta, a suo modo “popolare”, cioè ingenua. Come la storia della pubblicazione: Paolo Martino, ordinario di Glottologia a Roma, e lo scrittore e critico Santino Salerno pubblicano una raccolta autografa di almeno un secolo fa, rimasta inedita, rinvenuta a Palmi “tra vecchie carte giacenti nel laboratorio dell’unico tipografo-rilegatore di libri di quella città”.  
Una raccolta di canti popolari di cui tanto più la lettura è golosa proprio per essere monotematica - la donna e l’amore, il rifiuto: ha il segreto di ridare smalto al repertorio trito. In più punti anche di sapersene affrancare. “Passa lu ventu e nci parra a la rosa\ e chija palora nci crisci la vita”. Cattivo il giusto: “Stanotti mi nsonnai ch’eramu morti”, e i medici facendo l’autopsia “Ddu cori a mia trovaru e nuju a tia”. Sapido al fondo. Buccisano professa di avere espunto “quanto sa di scurrile e pornografico”, ma c’è il papa che assolve in confessione i peccati d’amore per una ragione precisa: “Ca se non fussi santu Patri jeu,\ cchiù megghiu lu farria chistu piccatu!”. Senza smettere il vezzo connaturato, etnico, della “zannella”: lo scherzo, l’ironia: la bianchezza - del viso, della pelle - tanto apprezzata sa di luna, naturalmente, e di carta, riso, farina, cotone. 
Il canto popolare, che poi sarà di protesta, fino a Ottocento inoltrato è d’amore – lo sdegno è dell’innamorato, ferito, respinto, tradito, eccetera. Di e attorno a donne, ma come di un  ideale. La donna più spesso è indistinta, e stereotipa: bionda, bianca, dea, eccetera. La raccolta monotematica nasce dunque ripetitiva. Ma il saggio introduttivo di Buccisano, che i curatori recuperano da altre pubblicazioni, ”Aspetti della tradizione orale melicucchese”, si apre con Darwin: “La legge dell’evoluzione (Darwin), nel suo fatale aire,  trasforma gli esseri viventi senza risparmiare le lingue…” Che dunque evolvono anch’esse.
L’impianto è di un altro mondo, anche questo è motivo d’interesse. Che sembra remotissimo, invece è appena di qualche generazione fa, e avrebbe potuto ingenerare un’altra storia. Di una borghesia professionale posata e acuta, anche quando era in affari o in politica. Un ceto dirigente di spessore anche nei gangli più remoti del Sud, quale era – è – Melicuccà. Che la Repubblica e i partiti di massa hanno spazzato via, abbandonando quel mondo al sottobosco, d’incapacità mista a corruttela, su un fondo di violenza.
Buccisano (18423-1921) era medico, nipote di medici, notabili (“nobili”) di paese, di suo latinista, antropologo, sindaco, corrispondente per passione dei grandi folkloristi Raffaele Corso e Raffaele Lombardi Satriani, e di vari giornali e riviste. Socialista, trovava nel canto popolare,- “un tesoro di religione, di amori e di dolori, di gioie sentite e vibranti” – un invito “ad amare il popolo, a comprenderlo, a stimarlo”. E della “voce popolare”, del dialetto, sa quello che più non se ne sa: “I dialetti perdono continuamente la loro primitiva e rude freschezza; ogni giorno che passa gli porta via una consuetudine, e li trasforma nella struttura delle parole, negli accenti, nella trasposizione e nella melodia originale”. Ma non fa – non qui – opera di recupero: sa che alla sommatoria l’invenzione compensa le perdite, finché il dialetto rimane vivo.
Sul fatto Buccisano mostra notevole perizia. Nei canti che raccoglie in paese trova “molta importazione siciliana e qua e là l’obras españolas dei concioneros”, i poeti spagnoli del Trecento eredi della poesia provenzale e della Scuola siciliana. Si poteva pensare a una derivazione diretta, dalla Scuola siciliana e lo Stil Novo, ma è possibile che gli echi siano arrivati a Sud attraverso i re aragonesi. Se non che “le nostre vignette”, pretende anche, “sono fotografate dal vero”. E questo non è vero.
L’elaborazione, se non l’origine, del “canto popolare” è sempre colta, oggi si direbbe borghese.   
Si sa come vanno le cose col canto popolare, sono svaniti gli entusiasmi di Herder, che del genere fu l’araldo e il sistematore: le raccolte sono comunque d’autore, per la scelta, la redazione, spesso la metrica. Il canto popolare può non essere “spontaneo e originale”, solitamente non nella redazione. Buccisano trova naturalmente i “rispetti” in paese, ma li elabora, quando non li crea.
S’intende canto popolare quello dei cantastorie. Che hanno solitamente metrica variegata. Con versi più cantabilmente brevi e strofe più lunghe che non gli endecasillabi e le quartine di questi 150 componimenti – solo una diecina si differenziano, per la lunghezza della strofa, il verso è ferreamnte endecasillabo. Il cantastorie lavorava per accumulo: ereditava e arricchiva un repertorio, a volte innovandolo. La raccolta è invece uniforme nella metrica – e anche, a ben leggere, nell’espressione. Le trascrizioni mantengono la vitalità dell’espressione dialettale. Ma quasi tutti i reperti, anonimi, mostrano la stessa mano. I componimenti dei cantastorie che Buccisano trascrive nel saggio introduttivo, di uno, innominato, “vanitoso e per giunta allitterato”, cioè colto, e di un Rocco Parisi da Santa Cristina che dice “tipo strano e nomade, analfabeta”, sono invece di loro mano. Ma questi Buccisano non repertoria nella raccolta.
L’amico di casa
Una raccolta di canti popolari è un anacronismo nella letteratura del Duemila che si vuole globale, sradicata. Una così densa, di 150 componimenti, e monotematica, parte anche uggiosa Ma di questa l’effetto è opposto. Per l’inventiva, certo. Ma più, probabilmente, per l’uso appropriato del dialetto. Il dialetto d’ogni giorno. Senza forzature, né nel costrutto né nelle parole, né filologico-fokloriche né a effetto (innovazioni, elaborazioni, rarità).
Il dialetto non è più folklore, essendo ritornato con la devitalizzazione della lingua, e come linguaggio vivo si apprezza. Ritorna il dialetto come un’eco del più ampio effetto osservato per la crisi delle nazionalità nell’ambito dell’interdipendenza e delle grandi aree, economiche se non politiche o culturali (insomma l’Unione Europa), che vede le “piccole patrie”(il leghismo) insorgere in controtendenza? È possibile.
Poiché Buccisano paga tributo alla “dotta Germania” in materia di canti popolari (le prime raccolte di canti meridionali, e calabresi, sono opera di filologi tedeschi del primo Ottocento, così come, successivamente, i primi studi della grammatica e la sintassi dei dialetti), aiutano a capire il senso di novità di questa raccolta i più recenti sviluppi di quella cultura. Che la scomparsa del dialetto ha risentito come una mancanza. È “l’amico di casa” che ora ci manca, diceva Heidegger, che per questo s’impegnò in un breve scritto sul poeta popolare vernacolare Hebel: “Erriamo oggi in una casa del mondo alla quale manca «l’amico di casa»” – a Johann-Peter Hebel si devono i più bei racconti della lingua tedesca, a giudizio di molti ottimi tedeschi: Hesse, Adorno, Canetti, Reich-Ranicki.
Heidegger, il filosofo, ebbe forte la componente locale familiare, sveva, alemanna, per il senso della vita e dello stesso filosofare: il radicamento, la lentezza. Ma il senso è più forte, del radicamento e della lentezza, nell’espatrio, della “perdita della patria”. Anche questo va nel conto dell’attrattiva di questa raccolta: Buccisano era del paese, e non lo era, aveva studiato e intratteneva relazioni continuative fuori, a Napoli, a Palermo, a Messina. Hebel, il poeta e narratore della Foresta Nera, trascorse metà almeno della sua vita lontano dai suoi luoghi. La sua poesia è della nostalgia e della riscoperta, la lingua del paese – meglio, il linguaggio – è rivissuta, e riapprezzata, in controluce. Rivive come ritorno.
Heidegger “usa” Hebel, peraltro, e il dialetto, come chiavi per “portare alla parola”. Con ciò intendendo l’origine del linguaggio: “«Portare alla parola» significa: innalzare la cosa non parlata e non detta nella parola e far apparire delle cose nascoste fino ad allora tramite il dire”. Ma sa che il segreto del dialetto è di essere stato assunto nella lingua: “Hebel è riuscito a inserire la lingua del dialetto alemanno nella lingua standard e scritta. In questo modo il poeta fa risuonare la lingua scritta come pura eco del dialetto”. Pura forse no, e neanche eco, ma familiare sì. Dialetto è la lingua originaria che consente all’uomo di esistere, stare al mondo, nominarlo, abitarlo.
“Il linguaggio, secondo la sua origine essenziale, è dialetto”, dice ancora Heidegger di Hebel. In questa forma lo riafferma in “Linguaggio e terra natia”, il saggio conferito al volume celebrativo di Carl Burckhardt nel 1961: il dialetto “rimane tale perfino quando giunge ad essere linguaggio planetario. Infatti anch’esso ha la sua elezione e la sua particolarità”. E subito dopo in altra forma: “Nel dialetto si radica l’essenza del linguaggio. Si radica in esso anche se il dialetto è la lingua della madre”, la lingua cioè che circonda l’infante, “il proprio della casa, la terra natia. Il dialetto non è solo la lingua della madre, ma al tempo stesso è anzitutto la madre della lingua”. È il dialetto che “porta il linguaggio al linguaggio”, all’espressione, alla connotazione.
Mundart, la parola tedesca per “dialetto” non piaceva a Heidegger – ancora in “Linguaggio e terra natia” - perché dice solo “la comunicazione verbale, il carattere sonoro del linguaggio”. Gli piaceva di più “la parola straniera Dialekt”, perché di senso originario “eletto”, il greco dialégein, “il parlare l’uno con l’altro che è la matrice del linguaggio – “un parlare reciproco di tipo eletto, sì, particolare, e cioè un ascoltare l’uno dopo l’altro”. Ma Mundart ha un senso pratico più suggestivo, un parlare al modo della bocca – l’arte vocale come una sorta di natura.
Lampedusa usa il dialetto come aggravante della mediocrità, nel suo caso di un re. Così era venuto usandolo Gadda nel “Pasticciaccio”, in chiave connotativa (ironica) e non realistica. Di efficacia espressiva ma in senso diminutivo, in funzione del ridicolo, della persona, delle situazioni. In Pasolini cambia poco: è deprecativo, in funzione plebea. Ma è il modo d’essere, del singolo, o del singolo nel gruppo naturale: l’espressione immediata, come la famiglia è il gruppo sociale primario, naturale. Struttura la personalità. Anche quando il linguaggio si adatta, la lingua rimane quella. Un milanese non potrà realmente parlare romano. Gadda ci riesce perché legge il dialetto per quello che è - è sensibile viaggiatore, che sente le differenze (al contrario di Pasolini o Parise, che usano il dialetto e le costruzioni dialettali a scopi neo realistici - per “andare verso il popolo”, direbbe Moravia). Buccisano, nel suo piccolo, è nel verso giusto, della “vivenza” e quasi heideggeriano.
La lettura naturalmente è anche personale. Entro cioè una vicenda che ha visto il nordismo preconcetto, totale, respinto dal Nord a Milano, dalla Lega e affini. Da qui la nostalgia di una dialetto, un lingua propria, gentile. Riservata, che dice e non dice. Di quando il ritegno era ritenuto naturale, negli affetti come nel dolore, il proprio, dei propri familiari, fin nella disgrazia, la malattia, la morte. Mentre ora ci adagiamo nel dialetto, per isolarci e per straparlare. Sempre meno nella forma intermittente, esornativa, espediente alla narrazione, sempre più invece in forme dure, per il tono, l’accento, accentuate, cupe. Come a calare una saracinesca. Non si riesce a pensare a una rima aggraziata in dialetto, o giocosa, solo a forme di sdegno vero, d’invettiva. Di malinconia.
Paolo Martino e Santino Salerno (a cura di), Canti d’amuri e di sdegnu, e altri canti della tradizione orale calabrese raccolti a Melicuccà da Carlo Buccisano, Laruffa, pp. 134 € 10

mercoledì 10 giugno 2015

Non c’è altra sinistra che il Pd

Fallito il previsto sorpasso dei laburisti sui conservatori, in Europa è rimasto al governo a sinistra solo il Pd. Che è discusso, e si discute esso stesso molto, ma è forte di potere, di voti, e soprattutto di consensi. C’è la sinistra al governo anche in Francia, ma solo per il presidenzialismo, il governo è ampiamente minoritario nel voto da almeno due anni.
La ragione è che la crisi economica è di sistema, ma all’interno del mercato, che nessuno discute. La destra al governo nella crisi che la destra ha provocato è una contraddizione, ma all’interno di un sistema di valori che nessuno contesta. Si ragiona infatti come se la crisi economica provocata dalla destra fosse l’esito di situazioni politiche e sociali non abbastanza di destra.
Si vogliono destra e sinistra termini senza più significato, e quindi senza più riferimento politico. E invece questa presunta indistinzione è essa stessa conferma di una destra che può farsi forte dei suoi fallimenti.
Grazie al controllo dell’opinione pubblica – una manipolazione, ma volenterosa. È chiaro a tutti che nella crisi i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Ma senza effetto sul voto.

Un governo di sinistra in Europa per la verità ci sarebbe, quello di Tsipras in Grecia. Ma è anatema per tutti.

Recessione – 36

La recessione è finita statisticamente, ma l’economia è in grave ritardo:
Si continuano a chiudere più esercizi commerciali, anche di grande affluenza (edicole, bar)  di quanti se ne aprano.

Un italiano su tre ha problemi ad “arrivare a fine mese” – a far quadrare i conti. Una famiglia su due ha problemi.

Visco, governatore della Banca d’Italia: “L’eccesso di deregulation finanziaria è un a della ragioni della recessione”.

Si moltiplicano i distacchi di acqua, luce, gas per morosità.

Si moltiplicano i furti di carburanti agli oleodotti: un sessantina di casi accertati ne primi cinque mesi del 2015.

I supermercati hanno preceduto l’appello del presidente Mattarella: da mesi cedono semigratuitamente a grande domanda gli alimenti prossimi alla scadenza agli organismi di assistenza pubblica.

Ottimo serial l’Edipo originario

Tutto Edipo, scena per scena. L’originale, di Sofocle (“Edipo Re”, “Edipo a Colono”) e Seneca (“Edipo”). Soggetto privilegiato dagli scopofili, per l’intreccio di parricidio e incesto. E dalla tragedia, Freud incluso, per la colpa che lo alimenta, fino all’atrocità. Senza, però, l’autopunizione, l’afflizione.
Rileggere l’originale è una liberazione. Da Freud, che lo vuole il motore della psiche umana - – fu Freud un tragediografo? sì, senza la catarsi. Finito il destino, o il senso del religioso incombente, resta una storiaccia, in effetti, da moderno fogliettone – ottimo serial farebbe, senza nemmeno troppa censura.   
La lettura dell’originale svelle il fondamento di Freud. Il laico, raziocinante, buon Edipo soccombe di fronte al destino: l’intelligenza laica è impotente, sovrastata dal fenomeno religioso. Appellarsi a Edipo, sia pure per esorcizzarlo, è arrendersi: la pratica è pericolosa. E comunque non finisce male: già in “Edipo Re”, e più in “Edipo a Colono”, il destino che “muta e trasforma ogni cosa” Sofocle lo porta a riabilitare e innalzare lo sventurato. Quello di Freud è l’Edipo di Seneca, che per il suo stile horror lo fa “torbido e nevrotico, dominato ossessivamente dall’angoscia e dalla paura, e del tutto isolato dal contesto sociale” – Silvia Fabbri (la psicoterapeuta?).
Il mito di Edipo, Bur, remainders, pp. 165 € 2,50

martedì 9 giugno 2015

Il mondo com'è (219)

astolfo

Deterrenza – Suole definirsi come l’ “equilibrio del terrore”, e lo era. S’ipostatizza nell’accordo Abm, Anti Ballistic Missile, i missili intercontinentali, del maggio 1972, tra Usa e Urss. Probabilmente il primo accordo tra le superpotenze a cui l’astro nascente Kissinger ha messo mano. Il nocciolo dell’accordo era l’impegno a non costruire sul proprio territorio più di una base antimissilistica, e comunque a non coprire tutto il territorio nazionale. L’impegno, cioè, a una difesa limitata. S’intenderebbe la difesa nazionale doverosamente come la più ampia possibile, e invece l’impegno era a tenerla ridotta.
La pace si mantiene se ognuno dei potenziali contendenti resta vulnerabile? Una logica masochista, che tuttavia ha funzionato, ormai per mezzo secolo. E potrebbe aver neutralizzato definitivamente l’arma atomica – gli “Stati canaglia” si governano con la forza.

Khomeini – Un realista, nazionalista. Urbano, politico, “occidentalizzato” - dell’Occidente parlava la “lingua”. È d’uso far risalire il fondamentalismo islamico, nelle accezioni estremiste dei talebani, del Gie algerino, di Al Qaeda, e ora dell’Is all’ayatollah che nel 1978 rovesciò lo scià dell’Iran. Mentre Khomeini e i suoi primi collaboratori erano conoscitori, spesso profondi, delle ideologie, le istituzioni e il diritto occidentali. Rispetto ai quali si conformavano nella dialettica e non nel rifiuto.
Il fondamentalismo è di matrice diversa. Nasce nel wahabismo, cioè nella tribù e nel deserto, e si forma nella guerra contro il miscredente russo-sovietico. 

Occidente – Si è ridotto a poca cosa, al castello di Elmau, ma anche prima. Si è ridotto a 7 da 8, escludendo la Russia dopo averla ammessa. La Cina, che governa il mercato, e anche un po’di Oceano Pacifico, non ne è mai stata parte e non ci pensa. Di India nemmeno a sentirne parlare, o della Corea e le altre “tigri” asiatiche. In compenso ne fanno parte Canada e Italia, che contano poco economicamente e nulla militarmente e politicamente.
Nulla anche vi si decide: sulla Liba, la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan, i 200 mila sbarchi l’anno nel Mediterraneo dall’Africa e dall’Asia, l’Ucraina, le sanzioni contro la Russia. Cioè si sa cosa bisogna fare ma non se ne discute: l’agenda reale è quella che Washington ha deciso. L’Occidente è stato nella guerra fredda il paravento degli Usa, che ora non ne hanno più bisogno e lo trattano da accessorio.

Il G7 in Baviera, molto curato dal governo tedesco e dall’opinione in Germania, con schieramenti di polizia ingentissimi per tenere le proteste distanti un raggio di quattro km., per decidere di riportare le emissioni di gas serra al livello del 2010 sembrerebbe una commedia. Una commedia all’italiana, con ruoli e canovacci noti e stereotipi. E forse lo è: Obama dà sempre l’impressione di rappresentare se stesso, gigione, come pure Merkel, mentre nessuna sorpresa è possibile dai comprimari, Hollande, Renzi, Cameron (gli altri non si sa nemmeno chi siano).
I sette hanno parlato di Russia, di armamenti, di missili, e di guerre islamiche, ma hanno deciso di far sapere fuori che si occupano dell’inquinamento? È possibile. È pure possibile che dell’immigrazione nel Mediterraneo e della crisi economica non abbiano nemmeno parlato. Più probabile è che di queste cose solo gli Usa si parlino, tra sé e sé, e agli altri non dicano nemmeno nulla. Nell’una e nell’altra ipotesi, piccola cosa.

Renitente – Cattivo soldato per antonomasia è l’italiano. Ma dopo il 1915: per due motivi. Il “tradimento” del 1915, degli Imperi Centrali, Austria e Germania, che crearono il cliché. Dopodiché la pubblicistica inglese trovò conveniente adottarlo, nel Mediterraneo dapprima, e in Africa dopo l’impero del 1936, dapprima nell’Africa Orientale e poi in Libia. Dove gli italiani furono i soli che combatterono a El Alamein, i britannici fecero incredibili errori con i battaglioni corazzati, Montgomery vinse solo perché i tedeschi di Rommel si sfilarono, per non impolverare le loro autoblindo.
La cattiva fama del soldato italiano è recente. Peraltro perdura ora solo in Italia. Prima il cattivo soldato, nell’opinione corrente, fu per molti secoli il francese. Con la breve parentesi napoleonica, ma anche in quegli anni non senza episodi di indisciplina e incapacità. A lungo, dal tempo del “De bello gallico”, si caratterizzarono i francesi come spacconi, che attaccano briga con veemenza e alla prima risposta se la squagliano.

Ci furono molti più renitenti e ammutinati in Germania nel corso della Seconda Guerra mondiale che fra le truppe italiane, in assoluto e in rapporto egli effettivi. Anche se il conto esatto non si fa, e dell’argomento non si parla, non in Germania. Lutz Klinkhammer, lo storico dell’occupazione tedesca in Italia, opera più letta in Italia che in Germania, ne censisce molti casi. Qualche romano ricorda ancora quando nel 1944 si diffuse la notizia della fine della guerra e i soldati tedeschi buttavano via le armi dalla gioia. I casi d’insubordinazione e di coscienza furono moltissimi lungo la Linea Gotica apprestata da Kesselring, quella delle stragi poi impunite, che divise l’Italia a metà 1944, da Massa ad Arezzo e a Pesaro. La Wehrmacht fece stragi di civili e anche di ammutinati e renitenti.

Scoperta – È il trend: si trova poco ma si scopre molto. Nel senso dell’effetto annuncio – quante soluzioni non ci sono già state per l’Alzheimer, il Parkinson  e gli stessi tumori? Siamo tutti ricercatori, e la ricerca deve scoprire. Compresa l’origine dell’universo col sincrotrone. Bombardando la materia coi miliardi.
È anche una scoperta che fa a meno dell’intelligenza: lavora alla catena di produzione, onestamente guadagnandosi lo stipendio con l’applicazione.

Wikipedia - È più avventurosa, e quindi poco affidabile, nel senso della “verità” ultima, ma è, oltre che di più rapido accesso, più “significativa” che non la Treccani o l’Enciclopedia Britannica. Dice più cose, di senso più immediato e aggiornato, accessibili (scrittura, terminologia, illustrazioni).
E viceversa, conferma che internet non è un’altra cultura, un’altra tradizione, seppure nuova – un
altro inizio. Ma un’innovazione.

astolfo@antiit.eu

L’altro Petrarca

Un paio di eleganti scarpette variegate (di pelle vaïr), in dono a una ragazza di paese a Vaucluse, la fantasia di una vecchiaia con gli amici di gioventù, Vaucluse come luogo della solitudine, il cagnolino Zabot, “trottola”, un anticipo della tardo novecentesca “morte dell’autore”. Un libriccino di una dozzina di epigrammi slegati, incredibilmente attraente, per più motivi. E non c’è pure Mafia Capitale? Il testo titolato “Un nemico pubblico” è attorno a un innominato ma romano eponimo, detto in chiosa “praepotens sed perniciosus”.
I brevi componimenti latini qui tradotti sono sparsi per i vari codici, nella varie opere e nelle lettere, rapidi e non riscritti, sebbene sempre finitissimi e in punta di penna, a margine di una riflessione, opera di distrazione. Circa 800 di questi versi sono stati contati. Niente in sé, e tuttavia danno un altro Petrarca. Un’altra persona e un altro poeta. Non programmatico, non teorico. Anche per l’aiuto di Francisco Rico,  il filologo spagnolo autore de “Il sogno dell’umanesimo”, e di Boccaccio e Petrarca “Ritratti allo specchio”.
Rico ha avuto l’idea della breve silloge, ed è l’autore della scelta. Che presenta con note sbrigliate ai singoli componimenti, ricostruzioni finissime dei contesti, e due brevi saggi. Uno sulle ambizioni di autonomia che l’intellettuale Petrarca non ha mai smesso di coltivare, tra tante difficoltà, ad Avignone, a Napoli, a Pisa, a Parma, a Padova, a Milano, proponendosi a questo o quel regno, principato o repubblica. Di lasciare il servizio della famiglia prelatizia dei Colonna, per quanto benevola, e accudire alla letteratura. Mentre divisa l’opus magnum, il grande poema epico che non scriverà. E uno, estremamente denso, sul petrarchismo. Partendo dal concetto medievale di expolitio, l’artificio retorico di “tirare a lucido” la stessa cosa. Ciò si faceva, dice Rico con Geoffrey de Vinsuf, “Poetria Nova”, “per due vie: dicendo la stessa cosa in vari modi, o dicendo avari modi della stesa cosa”. In queste istantanee è diverso.
Il componimento che Rico intitola “Gabbiani”, sull’amicizia con Ludovico di Beringen, musicista fiammingo, e sull’amore, sottinteso di Laura, ribalta il “Canzoniere”: “La Laura del «Canzoniere» è un a belle dame praticamente sans merci, inaccessibile e schiva. Qui gi inidizi dicono putosto che lei corrisponda all’amore del poeta… Non siamo di fronte allo stesso mondo e alla stessa Laura”.
Francesco Petrarca, Gabbiani, Adelphi, remainders, pp. 101 € 1,92

lunedì 8 giugno 2015

Le due sovranità europee

La decisione della Consulta sulle pensioni, che prescinde dai vincoli europei, e la risposta del governo, di mantenere la questione entro quei vincoli, delineano due diverse concezioni della sovranità all’interno dell’Unione Europea. Una la considera residuale, sottoposta cioè all’imperio dell’Unione, l’altra considera residuale l’Unione.
Di questa seconda posizione è alfiere la Corte costituzionale tedesca. Che ha sempre operato nell’ottica di adattare il diritto europeo al testo costituzionale della Repubblica federale. Non nel senso di rifiutarlo, ma di conformarlo al testo fondamentale della Germania. Della prima posizione è sempre stata capofila, per così dire, proprio l’Italia. Nelle parole di Sabino Cassese, ex giudice costituzionale, del suo recente “Dentro la Corte”: “La giurisprudenza italiana, specialmente negli ultimi anni, ha ribadito ed esteso i vincoli che derivano dal diritto europeo per il diritto italiano”.
La decisione della Consulta è l’avvio di un ribaltamento anche in Italia del concetto di sovranità nazionale  subordinata al vincolo europeo? La lettura corrente - a cui lo steso presidente pro tempore della Consulta, Criscuolo, ha dato credibilità - è che la decisone sulle pensioni è stata una sciatteria, poco considerata. L’Italia istituzionale continua a ritenersi cancellata nell’Unione Europea.
Le due differenti concezioni della sovranità, la “tedesca”, per semplificare, e l’“italiana”, riflettono anche un diverso modo di stare dentro l’Unione Europea. La concezione “italiana” è come un’abdicazione di principio, per professione di europeismo, quella “tedesca” una considerazione delle fattispecie  caso per caso.

Il mercato dell’energia

S’immagini un acquisto in cui il venditore dopo cinque anni sostenga che ha sbagliato il conto e che l’acquirente deve pagargli un conguaglio e una penale. Non esiste in diritto, e nessuna truffa è stata mai organizzata su questo principio. Finora: ora è autorizzata in Italia. Dall’Autorità per l’Energia, che è n organismo dl governo, creato a “protezione del consumatore”.
Sotto la veste del provvedimento per il consumatore, autorizzando il pagamenti rateizzato delle bollette scadute, l’Autorità rimette ora in circolo e avalla la pratica truffaldina di fatturare consumi incontrollabili. Richieste di conguagli, di riformulazioni tariffarie, di sovrapprezzi, di tempi immemorabili e soprattutto di partite incontrollabili. Vessazione, specie con l’Acea romana, costante.
Ciò che l’Autorità per l’Energia presenta come un beneficio per l’utente è l’avallo ufficiale di una pratica illegale. Questo dopo avere autorizzato: bollette illeggibili; consumi stimati anche dove i contatori elettronici con lettura a distanza sono installati; offerte tariffarie truffaldine. E la pratica dei rimborsi: a) tardivi, b)con assegno, che costringe a passare in banca per l’incasso (mezza giornata persa), c) frantumati in assegni di pochi euro e a scadenza ravvicinata, in modo che non siano incassati. E non, come logico, sulla bolletta.
È piccola corruzione? Un milione di queste pratiche a 100 euro l’uno, non abbastanza per contestare l’abuso in giudizio, fanno 100 milioni. Che tutto ciò sia imposto dall’Autorità per l’Energia sembrerebbe impossibile. Ma tutto ciò avviene. Inutile protestare con l’Autorità, vi risponderanno con un prestampato, dettagliato e incomprensibile come le loro bollette. Inutili anche gli esposti alla Procura di Roma.

La guerra santa dei petrodollari

Oggi Kepel non ci porrebbe quel sottotitolo. Dell’ascesa, invece, questa sua è con ogni evidenza la più corretta presentazione. Una storia del fondamentalismo islamico. Che nasce in ambito occidentale, una delle tante dighe antisovietiche. Coi petrodollari, a partire dal 1973. Da cui i potentati della penisola arabica furono letteralmente sommersi – per anni non riuscirono a spenderli, neanche in minima parte.
Da qui, da questa rendita abnorme, la loro poi rapida ascesa alla “posizione dominante” nel mondo islamico, specie in Africa, a Nord e a Sud del Sahara, di cui interruppero la modernizzazione. La accentuarono sul piano materiale, la limitarono e soppressero su quello civile, dei diritti umani e della convivenza, tra uomini e donne, tra diverse religioni, tra diverse confessioni della stessa religione, l’islam. Con la modernizzazione accelerata dell’edilizia, della banca, delle comunicazioni, della spesa suntuaria. Sotto forma di beneficenza – “un immenso impero di beneficenza”: tra madrasse e campi di polo, per aggiogare le borghesie arriviste e i poveri senza parola. Poche le resistenze: in Libia con Gheddafi, in Egitto con Mubarak, entrambi poi eliminati, sempre in un’ottica filo-occidentale, e in Algeria.
Ai petrodollari bisogna aggiungere negli stessi anni il Pakistan del generale Zial ul Haq, golpista filo-occidentale contro la casta politica dei Bhutto, socialisteggianti e neutralisti. E il khomeinismo. Sì, quello propriamente inteso, dell’Iran, usa il fondamentalismo nel quadro di una strategia politica di tipo realistico.
Gilles Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Carocci, pp. 436 € 17,50

Miracoli a Milano

Mr Bee mette mezzo miliardo nel Milan. Forse. Di soldi non suoi. Per un progetto di merchandising. Tanto basta per sprofondare Milano nelle meraviglie. Il “Corriere della sera” schiera quattro grandi penne dello sport e due pagine per magnificare il “magnate”. Uomo ricco, viene detto, ricchissimo, dai molteplici interessi e dai visionari investimenti. Stessi toni, benché più sulla meraviglia (“ma chi glielo fa fare?”), sapendo che nel calcio c’è poca trippa, della “Gazzetta dello Sport”. “La Repubblica” è cauta, l’editore De Benedetti sa chi è Mr Bee, che dice “fantomatico”. Ma spreca anch’essa pagine in lode del salvatore del Milan.
Questo Mr Bee è forte di Gls, Global Legend Series, una specie di campionato di vecchie glorie europee inventato per l’Asia da Fabio Cannavaro – una sorta di circo ambulante. Sigla che usa per far capire che gestisce i cartellini di numerose vedettes mondiali del calcio. Di suo è un immobiliarista, dice. Di una famiglia di immobiliaristi. Diventata ricca in Austrialia, dice.  È un viziosissimo name dropper. A Enzo Currò di “Repubblica” dice che del suo “progetto Milan” ha parlato con Rothschild. E lascia intendere che Rothschild lo ha presentato a Berlusconi. Mentre ha parlato, forse, con l’ufficio Rothschild a Milano, un nome prestigioso che però fa solo consulenza d’affari. E così via di questo tono, da Obama alla regina Elisabetta, tutte le porte gli sono aperte.
Ma è alto e magro, e fantasioso, e la città è ai suoi piedi. Milano, la crema del giornalismo milanese, non distingue tra arabi e cinesi. Tra principi arabi e borghesi cinesi. Tra patrimonio, di cui gli emiri arabi sono ricchissimi detentori, e affari, che invece in Cina e dintorni sono una specialità. Una distinzione pure elementare.
Era successo con Thohir, il “magnate” dell’Inter. Che per la verità, essendo indonesiano, all’apparenza non è così spregiudicato come i frombolieri cinesi. Ma il “magnate” Thohir non ha speso nell’Inter un euro, e usa il club milanese per pagarsi interessi elevati, sull’8-9 per cento, sui prestiti alla stessa società che riesce a intermediare da banche asiatiche. Un mediatore di affari, con sede alle Caymane.
Più miracolosa di tutto è la supponenza ambrosiana: ritenere i furbissimi, abilissimi asiatici dei selvaggi, con l’anello al naso. Lieti e grati di essere sbarcati nella piccola Hong Kong che è Milano, minuscola, senza il mare.

domenica 7 giugno 2015

Problemi di base sportivi - 232

spock

Meglio Buzzi o Blatter?

E Platini?

Che cos’ha Platini che Blatter non ha?

Chi ha portato a Dublino i milioni della partita comprata per la Francia?

E come si traduce paraculo (copyright Platini) nel gergo dello sport?

Chi ha più soldi, Mr B, come viene chiamato in Thailandia, o Berlusconi?

O Mister B è una sigla, ora che non c’è più il cavalierato?

È il calcio uno sport milionario, o è i milioni nello sport?

Per chi tifano a Firenze o gli interisti, quando in squadra non c’è uno che parli l’italiano?

È così stringato e efficace lo svizzero tedesco di Blatter come il romanesco di Buzzi?

spock@antiit.eu

Il perdono al mercato

È il tempo, fine Novecento, in cui tutti chiedevano perdono, sullo orme del papa Giovanni Paolo II.  C’è qualcosa di strano nella tempistica e il senso politico di questo perdonismo, e Derrida, che ha dedicato al perdono (e allo spergiuro) per tre anni di seguito il suo seminario alla École des Hautes Études en Sciences Sociales, vuole dirlo subito: 1) si mantiene l’equivoco” sulle colpe, confondendo “spesso, talvolta in modo calcolato, il perdono coi temi contigui: la scusa, il rimorso, l’amnistia, la prescrizione, etc.”; 2) si esprime “in un ambito religioso (diciamo abramitico, per riunirvi l’ebraismo, il cristianesimo e gli islam)” – una “tradizione per complessa e differenziata che sia, anche conflittuale, insieme singolare e in via di universalizzazione, attraverso ciò che mette in opera o mette a giorno un certo teatro del perdono”: 3) “la dimensione stessa del perdono tende a cancellarsi nel corso di questa globalizzazione, e con essa ogni misura, ogni limite concettuale”. Il perdono svanisce, evapora.
Il seminario e l’intervista sono una persistente riflessione critica sulla mondializzazione, come il francese chiama la globalizzazione, che non persuade Derrida. Che però non manca di argomenti, benché ancora perplesso. Il perdonismo è il “prodotto” di una congiuntura della storia (del dopo la grande paura del comunismo, n.d.r.). Che “s’incastra ma non si confonde con la storia della riaffermazione dei diritti dell’uomo, di una nuova Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Questa specie di  mutazione ha ristrutturato lo spazio teatrale nel quale si rappresenta – sinceramente e non – il grande perdono, la grande scena del pentimento. Che ha spesso i tratti, nella sua teatralità stessa, di una grande convulsione – oserei dire di una compulsione frenetica? No, essa risponde anche, per fortuna, a un «buon» moto. Ma il simulacro, il rituale automatico, l’ipocrisia, il calcolo o lo scimmiottamento sono spesso della partita, e si invitano da parassiti a questa cerimonia della colpevolezza”.Fino all’assurdo o al ridicolo di cancellare la stessa colpa: “Se si cominciasse ad accusarsi, chiedendo perdono, di tutti i crimini del passato contro l’umanità, non ci sarebbe più un innocente sulla Terra – e dunque più nessuno in posizione di giudice o di arbitro.
Una compulsione che prende l’aspetto di una conversione”. Che si direbbe cristiana. In realtà avulsa: “Una conversione di fatto e tendenzialmente universale: in via di mondializzazione”. E “la «mondializzazione» del perdono somiglia a un’immensa scena di confessione in corso, dunque a una convulsione-conversione-confessione virtualmente cristiana”. Ma solo virtualmente, in realtà è “un processo di cristianizzazione che non ha più bisogno della Chiesa cristiana”.
Paradossale ma non solo – Derrida ha giocato d’anticipo, per una volta dichiarandosi: “La logica e il buonsenso si accordano per una volta col paradosso”. (“C’è dell’imperdonabile… la sola cosa che richieda il perdono”: il “perdonabile” è “ciò che la Chiesa chiama «peccato veniale»”). Benché già all’epoca la cultura del mercato dominasse, Derrida su questo puto soprattutto insiste: il perdono non è uno scambio, un commercio.
La riflessione prolungata nel tempo e i seminari nascono in riposta a Jankélévitch che nel 1967, nella polemica che si svolgeva in Francia sulla prescrizione dei crimini nazisti, disse il perdono impossibile - “è morto nei ampi della morte”(“Il perdono). Il saggio intitolato in italiano “Perdono”, sottotitolo “L’imperdonabile e l’imprescrittibile”, corrisponde al testo di una conferenza che Derrida ha tenuto nelle Università di Cracovia, Varsavia, Atene, Capetown e Gerusalemme tra il 1997 e il 1998. Un anno dopo, nel saggio altrettanto lungo, in forma d’intervista, Derrida elabora e acuisce il il senso della sua riflessione. Azzardando, premette, “il rischio” di una proposizione di questo tipo:  “Ogni volta che il perdono è al servizio di una finalità, fosse nobile e spirituale (riscatto o redenzione,  riconciliazione, salvezza), ogni volta che tende a ristabilire una normalità (sociale, nazionale, politica, psicologica) con un’elaborazione del lutto, con qualche terapia o ecologia della memoria, allora il «perdono» non è puro – né il suo concetto. Il perdono non è, non dovrebbe essere, né normale né normativo, né normalizzante. Dovrebbe restare eccezionale e straordinario, a prova dell’impossibile, come se interrompesse il corso ordinario della temporalità storica”).
Jacques Derrida, Le Siècle et le Pardon, intervista con Michel Wieviorka, in “Le Monde des Débats”, n. 9, dicembre 1999
Perdonare, Cortina, pp. 106 € 8,80