Giuseppe Leuzzi
Torniamo a parlare in dialetto. Ma non nella forma intermittente,
esornativa, espediente alla narrazione, com’era l’uso. In forme chiuse e dure,
per il tono e il taglio, le cadenze affrettate, cupe. Specie il napoletano. Anche il siciliano,
e il calabrese. Come a calare una saracinesca.
Prima estate, quest’anno a Roma con l’afa, e la
questione si propone subito. Se non sia più conveniente tenere chiuse le finestre
della scala condominiale la durante il giorno, come io dispongo ogni mattina, o
non invece spalancate, come il coinquilino pervicace ogni giorno subito dopo
fa. In casa teniamo bene tutta l’estate, relativamente freschi, con la tecnica
delle finestre chiuse durante il giorno contro il sole e il riverbero dei muri
circostanti – aiutati dalle persiane romane vecchio stile, con la gelosia, la metà
inferiore mobile sul telaio, che consentono di fare luce - e aperte la sera e
la notte.
La questione si complica per essere io
calabrese e il coinquilino piemontese. Per il pregiudizio razzista, cioè,
benché il coinquilino sia negoziante in pensione, e si ritenga onorato di
coabitare con un”dottore”.
La Sibaritide vent’anni era un deserto, più o meno.
Ora è un giardino, di frutta precoce e tardiva premiata dai mercati, dolce il
giusto, non quella gonfia e insapore che viene dalla Spagna, e di ortaggi anch’essi
gustosamente naturali, anche se anticipano o ritardano la stagione. Si è messa
a frutto la calura.
La Piana di Gioia Tauro, che era – è – il giardino
più ubertoso, 240 km. quadrati nel triangolo Palmi-Delianuova-Rosarno, di olio,
agrumi, ortaggi, sopravvive da decenni coi sussidi europei, lamentando prezzi
non remunerativi. Coltivando stancamente prodotti scadenti. Li coltiva anzi
solo per avere il sussidio. Si può essere ricchi nella povertà, e poveri
nell’abbondanza: la ricchezza è impresa.
Scendendo in macchina da Potenza in direzione
di Brindisi, Robert Byron trova, in “L’Europa vista dal parabrezza”, “il paesaggio
più incantevole che si possa immaginare. Una campagna che non aveva nulla di
teatrale. Non era resa banale dal
tramonto né drammatica dalla tempesta o da un qualche pizzo roccioso. Era come un’opera d’arte, equilibrata e
ponderata a lungo nell’animo di un colorista celestiale. Superandola si aveva
la sensazione di avere ricevuto in dono
un’intuizione che non è concessa ad altri, la visione di qualche divinità pagana, di un
dio delle messi mature e dell’oro sfumato di ocra, le ricchezze rosse, brune e
nere delle terre del Sud, il Sud di Annibale e della Magna Grecia, la culla della
civiltà europea”.
Onore
ala strage
Si fa grande caso della Germania che non volle
punire i militari che ordinarono le stragi, in Italia e altrove. Ma nella Grande
Guerra i comandi italiani non furono da meno, e anzi inaugurarono, si può dire,
le esecuzioni all’istante, sul campo e senza giudizio, a tiro singolo e in
massa – come poi inaugureranno, con Badoglio in Etiopia, e il maresciallo
Graziani in Libia e in Etiopia, tutte le pratiche che verranno in giudizio
presso i tribunali internazionali: le rappresaglie con decimazioni e ostaggi, i
campi di concentramento, la deportazione delle popolazioni, la colpa dei vinti,
moderno Sippenhaft, e i defolianti (in
Etiopia, dopo un attentato, Graziani ci pensò su una diecina di giorni e il 19
giugno ‘37 fece accoppare tutti i monaci del convento di Debré Libanos, 297,
più 129 diaconi e 23 laici, 449 in totale; in Libia faceva buttare dagli aerei
i resistenti).
Sul periodico “Calabria
Sconosciuta”, che dedica il suo n. 145 alla Grande Guerra, Corrado Bruni
ricostruisce la storia dei quattro fratelli Bruni arruolati in guerra, due dei
quali non torneranno, il sottotenente Nicola, il più giovane, poco più che ventenne,
e il tenente Eugenio, classe 1890.
Nicola muore il 15 maggio
1916 a Castel Dante, vicino Rovereto. Il 12 è sereno, scrive al fratello
Umberto, che segue un corso di addestramento a Firenze. Il 15 maggio, alle
cinque del mattino, si scatena l’offensiva austroungarica, quella che poi sarà
la Strafeexpedition, l’occupazione austriaca degli Altipiani, avviata dall’XI
armata di Francesco Giuseppe. Nicola Bruni comanda una compagnia di
mitraglieri, nella “stretta cengia serrata tra la montagna della Zugna Torta e
gli strapiombi della Vallarsa”. Piovono granate anche di dieci quintali, con
uno di tritolo, le cui tracce devastanti il terreno ancora conserva. .
Eugenio muore il 26 maggio a
Monfalcone, nella battaglia attorno al “massiccio dell’Hermada”, una modesta
colina, nella X Battaglia dell’Isonzo. Una delle tante offensive mal condotte
dello Stato Maggiore di Cadorna. Il comando di Reggimento lo proporrà per una
medaglia al valore, definendolo “caro, simpatico ed eroico”, rimpianto da “colleghi,
superiori e soldati che lo adoravano”. La motivazione della medaglia d’argento
il 25 luglio 1918 lo conferma: “Sempre primo, nei cimenti più ardui …
Costantemente animato da sacro entusiasmo…”, etc. Ma la storia di Eugenio è triste
ed emblematica.
“Quel 26 di maggio l’offensiva
era in stallo”, così Corrado Bruni riassume il fatto: “Si lavorava per
riordinare le truppe, e anche Eugenio era impegnato a raggruppare i
superstiti”. Il colonnello Angelo Cases, comandante pro tempore del reggimento,
gli ingiunge di lasciare la postazione e portarsi avanti. Eugenio Bruni oppone
l’ordine del comandante di Brigata di presidiare la località e raggruppare i
dispersi. Il colonnello insiste nel suo ordine, Bruni si muove in avanti per
eseguirlo, e viene ucciso da un colpo di moschetto, alle spalle, di un
carabiniere, per ordine di Cases.
La denuncia dei fatti, dopo
una rapida inchiesta del fratello Luigi accorso da Firenze, così li descrive:
“Dagli atti dell’inchiesta eseguita, e in ispecie della dichiarazione scritta
del Carabiniere Pepoli Pietro, risulta che questi, chiamato dal colonnello
Cases, che teneva per un braccio un tenente di fanteria, il quale piangendo
diceva “vado avanti, non mi rifiuto, vado avanti”, gli ordinò di fare fuoco
contro il medesimo”. Il Carabiniere si difende - ma il seguito è inequivoco:
“Il Pepoli sarebbe rimasto prima titubante, ma avendo il Colonnelo ripetuto
l’ordine, ordinando altresì all’ufficiale di voltarsi, egli, fattosi indietro
di pochi passi, avrebbe esploso un colpo, ferendolo alla schiena mortalmente”.
Fattosi indietro di pochi passi: i Carabinieri
erano specialisti di esecuzioni sommarie, che furono migliaia.
Il caso di Eugenio Bruni fu
indagato, accertato e giudicato il 7 marzo 1918. Cadorna non c’era più, e il
cadornismo, che aveva imperversato fino alla ritirata di Caporetto, con
migliaia di soldati in fuga, dispersi, sfollati, “giustizia” lì per lì (erano
gli Stati Maggiori “napoleonici” – del famoso aneddoto: “Sire, questa batlaglia
(Wagram, n.d.r.) sarà inutile, a che pro far moire centomila uomini per
niente?” con la risposta napoleonica: “Uno come me se ne fotte della morte di
centomila uomini”), pure. Diaz aveva ribaltato le condizioni morali e sociali
delle truppe combattenti, e il giudizi fu di condanna. A un anno. Il Tribunale
Speciale Militare condannò il colonnello Cases
per il delitto Bruni “alla pena di anni uno di carcere militare essendo
stato ritenuto colpevole di abuso di autorità col beneficio della seminfermità
di mente”.
Il seminfermo di mente verrà
reintegrato un anno dopo, dal ministro della Difesa Orlando nel governo Nitti.
Nel 1924 avrà anche lui una medaglia d’Argento al valore, per i meriti in
guerra. Nel 1935 sarà Commendatore del re. Nel 1944 morirà generale, a Roma a
casa sua. Il suo caso in effetti non era non eccezionale, era anzi la noma.
Dei quattro fratelli, Corrado
Bruni si dimentica di dare l’origine. Erano di Staiti, in Calabria. Posto di
notevole presenze normanne ancora vive nella pietra, ma evidentemente non più
negli spiriti. La storia dei fratelli Bruni non fa testo, Ma anche la storia in
generale: fatica a raccapezzarsi, dietro l’apologia.
È bene
ricordare, ora che non si discute più della riabilitazione dei condannati a
morte durante la guerra, le cifre dell’ecatombe. Che sono quella che questo
sito ha già sintetizzato. Si fa una cifra di circa 1.100 giustiziati, e si
lascia intendere che erano disertori. Ma erano anche obiettori e ammutinati,
per l’incapacità dei comandi e l’orrida gestione del personale - per esempio
quelli della brigata Catanzaro, ammutinati dopo dieci campagne di fila in prima
linea, quasi due anni, senza mai un turno di riposo, con gli effettivi più
volte dimezzati.
I
soldati processati nei tre anni del conflitto furono 262.481. Più 61.927
civili e 1.110 prigionieri di guerra. In
totale furono processate 325.527 persone. Si conclusero con la condanna a morte
4.028 procedimenti, 1.100 furono eseguite. Ma queste sono le cifre dei
Tribunali di guerra. Bisognerebbe mettere nel conto il gran numero di soldati
passati lestamente per le armi durante la ritirata dopo Caporetto, o per
insubordinazione – la repressione della brigata Catanzaro fu fatta così: 28 i
Carabinieri presero e caso e fucilarono, senza nemmeno un vero plotone di
esecuzione, in uno stanzone (un’anticipazione delle decimazioni, che tanto
orrore ancora suscitano nell’applicazione che ne fece la Wehrmacht tedesca
durante l’occupazione), 123 li mandarono al Tribunale di guerra.
Centinaia, forse migliaia, furono i soldati, sottufficiali e
ufficiali fatti passare per le armi, più spesso da uno o più Carabinieri, dai
comandanti sul campo, di compagnia, di reggimento o di brigata.
Milano
“A Roma
accade che una signora, in via Dandolo, venga aggredita da due cornacchie”, c’è
traffico a Porta Maggiore, assenteismo tra i vigili, organico ridotto ai
giardinetti, troppi – o troppo pochi, non si è capito - insegnanti, e ci sono
buche nelle strade. Su questi e simili argomenti il “Corriere della sera”
aggredisce da tre giorni Roma, “Se questa è una Capitale”. Due pagine al giorno
che chiama “L’inchiesta”, affidata a Rizzo e Stella, le sue firme massime. Che
non la prendono sul serio – il sito i effigia ghignanti sullo sfondo del
Colosseo – ma, alla romana, ci marciano.
La cosa
evidentemente piace a Milano, ai lettori. Dev’essere una grande soddisfazione
per una città che non ha depuratori. Quando piove si allaga. E quando vuole
respirare va a Roma. Che è la metropoli italiana, malgrado tutto, meglio amministrata: meno corrotta, più efficiente - più di Napoli ovviamente, e anche di Milano: nella scuola, la sanità, i trasporti, i rifiuti, gli acquedotti, i giardini pubblici, il tempo libero, la protezione e il godimento dei monumenti.
L’“inchiesta”
del “Corriere della sera” concorre a far cadere la giunta Marino? È possibile,
con Marino dovrebbe cadere a questo punto il governo, che Milano non ama - Milano
non ama i governi solidi.
L’Expo è
solo una “fiera campionaria dell’alimentazione”. Lo dice deluso e arrabbiato
Albero Contri, presidente della fondazione
Pubblicità Progresso, dei pubblicitari. L’evento per cui l’italia è
stata mobilitata, e tanta corruzione, quasi miliardaria, è stata profusa. Uno
de tanti eventi fieristici di cui Milano è stata per secoli specialista.
Milano
si sa vendere. La federazione degli operatori della pubblicità e lo stesso
Contri sono peraltro lombardi e milanesi per l’essenziale. Un “partito” di
governo e di opposizione..
È la
prima – la più ricca – città metropolitana non capitale, senza cioè l’investimento
Stato. In assoluto, fatturando 185 miliardi l’anno. E pro capite, con un pil
medio di 45 mila euro annui. La terza, dietro Parigi e Londra, per pil pro
capite. Ma dappertutto vede ladri e nemici – molto tedesca in questo.
Erano
lombardi i banchieri (affaristi, usurai) e i pioppi. Anche i “bravi”, in epoca
spagnola, la protomafia – poi s’imborghesirono: l’iter è fatalmente quello
(vedi i robber barrons americani, i briganti di passo in Toscana, i “condottieri”
signori).
Bossi,
Berlusconi, Monti, Tremonti (Passera, Grilli, Moavero), i lombardi al governo
d’Italia l’hanno stremata.
Arriva
Mr Bee, uno sconosciuto, e subito diventa un banchiere, un magnate e quasi un
principe. Perché ha promesso che farà del Milan uno squadrone senza paragoni.
Milano non è credula, ma sa agghindarsi, e le piace.
leuzzi@aniit.eu