La realtà è dura
La posizione è netta
La retorica è artificio
Vuoto, il ruolo centrale
Di noi che fermi siamo
Agli anni Cinquanta
(del 1900)
E la testa usiamo
Per dire sì
All’ideale defunto
sabato 25 luglio 2015
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (252)
Giuseppe Leuzzi
"La Nazione" ha una pagina, nell’edizione provinciale di Carrara, sugli sviluppi giudiziari per la morte di una ragazza operata di appendicite, a causa dell’interruzione dell’elettricità in sala operatoria. All’ospedale di Vibo Valentia. Nove anni fa. Dalla lettura si capisce poco: più che di malasanità, il problema sembra una lite fra giudici, sempre di Vibo Valentia.
Una volta, al tempo dei romani, gli apuani erano stati dislocati nel Sannio, e i sanniti tra Massa e Carrara. Sarà successo lo stesso con la Calabria, e non ce ne siamo accorti.
Si celebra a Palermo l’anniversario dell’eccidio del giudice Borsellino e degli agenti di scorta, mentre sotto accusa è nella stessa Palermo l’antimafia. Non tutta, ma buona parte sì.
La leggenda nera
Alvaro poeta delle origini
"Di quello che l’aveva veduto nascere ricordava tutto e chiaramente", Alvaro fa riflettere il suo protagonista di "L’uomo nel labirinto": "Gli alberi e le case, il colore delle ore, che ormai era arrivato a indovinare solo a guardare fuori della finestra; il gusto dei cibi e il sapore dell’acqua, il modo di trattare gli uomini, che gli erano parsi accessibili, mentre questi altri gli erano estranei e come incontrati in viaggio" - il "colore delle ore".
E quando in treno verso Lipari il protagonista si sveglia a un tratto, è perché "i suoi orecchi, abituati alle grida e ai rumori delle stazioni, avvertirono un suono nuovo e voci conosciute. Un altro linguaggio percorreva il treno, più lesto e più allegro come nel risveglio di un giorno di festa". Il dialetto, che Alvaro dice "la parola familiare" – dell’amante May che lo accompagna all’uomo viene di pensare: " La bocca di lei gli pareva di quelle bocche straniere che hanno la piega d’una lingua ignota, su cui non è rimasta impressa mai quella parola familiare che è in fondo al pensiero, per quanto sia diversa la lingua che si parla". La vita radicata è opposta col segno più a quella metropolitana sradicata, e si opina che le lingue senza radici siano incapaci di pensiero.
Al risveglio dell’uomo nella terra materna anche la vista si acquieta: "I monti acquistavano le parvenze che egli conosceva, e a uno svolto si parò dinanzi la sua montagna in mezzo agli altri monti: alta, solenne, con i fianchi materni, che era quella e non altra, diversa da tutte quelle che erano intorno, quasi costruita in modo diverso, con tutti i massi lucenti che alle altre mancavano, con le macchie d’alberi che avevano un’animazione diversa da tutti gli alberi del mondo" – la montagna dai "fianchi materni".
Il ritorno
Ancora Alvaro, qui in "Memoria e vita", lega il senso vivo della vita all’infanzia, e quindi alle radici, familiari, culturali, etniche: "Avevo passato dieci anni in quel mucchio di case presso il fiume", ricorda del paese natio, San Luca, "sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare, i primi dieci anni della mia vita, e pure essi furono i miei più vasti e lunghi e popolati".
Ma non è così semplice come sembra, il ritorno è contrastato. Il ritorno "nella regione del suo paese", in Calabria, è subito avvertito dal protagonista, anche se dal versante non suo, il tirrenico e non lo jonico: "il suo paese era al di là della montagna, e qua risentiva la primitiva impressione di essere ancora forestiero". Ma, "come per un gioco fanciullesco", può divertirsi a "indovinare i suoni della sua terra" – e ci riesce : "Avvertiva, dalla parte dove poggiava il capo, un senso di nuovo e di fresco. Là doveva esservi il mare, il mare in pendio che egli conosceva, lungo la costa arsa su cui si spingevano le viti nane piantate sulla rena". È il primo di molti "ritorni" di Alvaro alla sua "terra". Il "mare in pendio" non c’è, ma è una cosa sua, di Alvaro, del suo protagonista.
E tuttavia "era come vedere i cenni di un muto che si sforzi di parlare": così, con un ritorno muto al luono natio, Corrado Alvaro conclude il suo primo romanzo, "L’uomo nel labirinto". Non come atto d’orgoglio, ma di contrizione e di diminuzione: "Alcuni uomini perdono la loro razza, altri no. Io la conservo", fa dire al protagonista all’incontro di "un viso noto", una piccola cameriera mora: "Io mi riconosco in lei. Vuol dire che in me si riconoscono tutte le persone povere, modeste, silenziose".
Il ritorno omerico, nostos, sa di nostalgia, e così è: non c’è ritorno se non voluto, anche se per necessità interiore.
Maschere mascherate
Mascariare si dice a Palermo per calunniare: viene da tingere col carbone - basta un tocco e resta il segno – ma sa di maschere. È una vicenda molto siciliana, quella di Crocetta, Borsellino, Tutino & co.. Pirandelliana, ovvio, benché da maschere mascherate più che nude: tutti sono una cosa e il contrario, e niente è come appare. Ma è anche molto confessionale, e anzi democristiana. Crocetta viene dal Pci, ma è di parrocchia ed era impiegato all’Eni, cioè targato bianco, Leoluca Orlando il suo presunto killer, il medico Tutino, uno che recitava il rosario, forse per imitare il Gattopardo, l’onorevole Lumia, e la famiglia Borsellino – Paolo era di destra, ma confinava con la destra Dc.
Questo che c’entra? C’entra: è la Dc che ha infettato la Sicilia, pure così industre e potenzialmente prospera, oltre che bella e ben tenuta - non si può sostenere il contrario, che sia stata la Sicilia a infettare la Dc. E ora infetta il Pd. Le sinistre questa Dc le ha espulse da tempo, prima il Pci, che nell’isola raccoglieva sì e non il 10 per cento quando in tutta Italia (Sicilia inclusa, che tanto pesa nel voto nazionale) era a un terzo del voto, poi i socialisti e ogni altro. Il Pd non riesce a esprimere in Sicilia – alla Regione e a Palermo – nemmeno un candidato.
leuzzi@antiit.eu
"La Nazione" ha una pagina, nell’edizione provinciale di Carrara, sugli sviluppi giudiziari per la morte di una ragazza operata di appendicite, a causa dell’interruzione dell’elettricità in sala operatoria. All’ospedale di Vibo Valentia. Nove anni fa. Dalla lettura si capisce poco: più che di malasanità, il problema sembra una lite fra giudici, sempre di Vibo Valentia.
Una volta, al tempo dei romani, gli apuani erano stati dislocati nel Sannio, e i sanniti tra Massa e Carrara. Sarà successo lo stesso con la Calabria, e non ce ne siamo accorti.
Si celebra a Palermo l’anniversario dell’eccidio del giudice Borsellino e degli agenti di scorta, mentre sotto accusa è nella stessa Palermo l’antimafia. Non tutta, ma buona parte sì.
La leggenda nera
Cantone
scrive a venti Comuni-campione per invitarli a dare meno appalti senza gara. In
cima alle chiamate dirette vengono Firenze, Bologna, Milano, Aosta etc. Non
Catanzaro. Invece sul “Corriere della sera”, l’inevitabile Stella scrive una
pagina contro Catanzaro:
Il giornale non ci crede dalla gioia, e fa questo titolo, anche se
sbagliato (poi ricrederà, nella rubrica delle lettere che nessuno legge):
I Comuni e gli appalti senza gara
Catanzaro, telecamere da 23 milioni
La denuncia dell’Anticorruzione: nel comune calabrese fino al 97 % delel
forniture assegnato con "procedura
negoziale", cioè appunto senza gara. Punte dell'93% a Milano e dell'86 % a
Roma
Stella definisce il sindaco di Catanzaro Abramo "eletto dalla destra
tra accuse di brogli e nuove conte di voti". Quel sindaco è
stato eletto almeno un paio d’anni fa, e dunque ha superato le "accuse di
brogli". Questo Stella non sarà Beria?
Ma è una storia di avvocati: informatore di Stella è
infatti un avvocato di Catanzaro, che prepara la candidatura contro Abramo.
Pezzo forte di Stella è l’assunzione a Catanzaro di un legale contro i
"curiosoni" dei bilanci comunali. Mentre è vero che il Comune ha
fatto causa per diffamazione e diffusione di notizie false e tendenziose,
contro l’avvocato-candidato.
Alvaro poeta delle origini
"Di quello che l’aveva veduto nascere ricordava tutto e chiaramente", Alvaro fa riflettere il suo protagonista di "L’uomo nel labirinto": "Gli alberi e le case, il colore delle ore, che ormai era arrivato a indovinare solo a guardare fuori della finestra; il gusto dei cibi e il sapore dell’acqua, il modo di trattare gli uomini, che gli erano parsi accessibili, mentre questi altri gli erano estranei e come incontrati in viaggio" - il "colore delle ore".
E quando in treno verso Lipari il protagonista si sveglia a un tratto, è perché "i suoi orecchi, abituati alle grida e ai rumori delle stazioni, avvertirono un suono nuovo e voci conosciute. Un altro linguaggio percorreva il treno, più lesto e più allegro come nel risveglio di un giorno di festa". Il dialetto, che Alvaro dice "la parola familiare" – dell’amante May che lo accompagna all’uomo viene di pensare: " La bocca di lei gli pareva di quelle bocche straniere che hanno la piega d’una lingua ignota, su cui non è rimasta impressa mai quella parola familiare che è in fondo al pensiero, per quanto sia diversa la lingua che si parla". La vita radicata è opposta col segno più a quella metropolitana sradicata, e si opina che le lingue senza radici siano incapaci di pensiero.
Al risveglio dell’uomo nella terra materna anche la vista si acquieta: "I monti acquistavano le parvenze che egli conosceva, e a uno svolto si parò dinanzi la sua montagna in mezzo agli altri monti: alta, solenne, con i fianchi materni, che era quella e non altra, diversa da tutte quelle che erano intorno, quasi costruita in modo diverso, con tutti i massi lucenti che alle altre mancavano, con le macchie d’alberi che avevano un’animazione diversa da tutti gli alberi del mondo" – la montagna dai "fianchi materni".
Il ritorno
Ancora Alvaro, qui in "Memoria e vita", lega il senso vivo della vita all’infanzia, e quindi alle radici, familiari, culturali, etniche: "Avevo passato dieci anni in quel mucchio di case presso il fiume", ricorda del paese natio, San Luca, "sulla balza aspra circondata di colli dolcissimi digradanti verso il mare, i primi dieci anni della mia vita, e pure essi furono i miei più vasti e lunghi e popolati".
Ma non è così semplice come sembra, il ritorno è contrastato. Il ritorno "nella regione del suo paese", in Calabria, è subito avvertito dal protagonista, anche se dal versante non suo, il tirrenico e non lo jonico: "il suo paese era al di là della montagna, e qua risentiva la primitiva impressione di essere ancora forestiero". Ma, "come per un gioco fanciullesco", può divertirsi a "indovinare i suoni della sua terra" – e ci riesce : "Avvertiva, dalla parte dove poggiava il capo, un senso di nuovo e di fresco. Là doveva esservi il mare, il mare in pendio che egli conosceva, lungo la costa arsa su cui si spingevano le viti nane piantate sulla rena". È il primo di molti "ritorni" di Alvaro alla sua "terra". Il "mare in pendio" non c’è, ma è una cosa sua, di Alvaro, del suo protagonista.
E tuttavia "era come vedere i cenni di un muto che si sforzi di parlare": così, con un ritorno muto al luono natio, Corrado Alvaro conclude il suo primo romanzo, "L’uomo nel labirinto". Non come atto d’orgoglio, ma di contrizione e di diminuzione: "Alcuni uomini perdono la loro razza, altri no. Io la conservo", fa dire al protagonista all’incontro di "un viso noto", una piccola cameriera mora: "Io mi riconosco in lei. Vuol dire che in me si riconoscono tutte le persone povere, modeste, silenziose".
Il ritorno omerico, nostos, sa di nostalgia, e così è: non c’è ritorno se non voluto, anche se per necessità interiore.
Maschere mascherate
Mascariare si dice a Palermo per calunniare: viene da tingere col carbone - basta un tocco e resta il segno – ma sa di maschere. È una vicenda molto siciliana, quella di Crocetta, Borsellino, Tutino & co.. Pirandelliana, ovvio, benché da maschere mascherate più che nude: tutti sono una cosa e il contrario, e niente è come appare. Ma è anche molto confessionale, e anzi democristiana. Crocetta viene dal Pci, ma è di parrocchia ed era impiegato all’Eni, cioè targato bianco, Leoluca Orlando il suo presunto killer, il medico Tutino, uno che recitava il rosario, forse per imitare il Gattopardo, l’onorevole Lumia, e la famiglia Borsellino – Paolo era di destra, ma confinava con la destra Dc.
Questo che c’entra? C’entra: è la Dc che ha infettato la Sicilia, pure così industre e potenzialmente prospera, oltre che bella e ben tenuta - non si può sostenere il contrario, che sia stata la Sicilia a infettare la Dc. E ora infetta il Pd. Le sinistre questa Dc le ha espulse da tempo, prima il Pci, che nell’isola raccoglieva sì e non il 10 per cento quando in tutta Italia (Sicilia inclusa, che tanto pesa nel voto nazionale) era a un terzo del voto, poi i socialisti e ogni altro. Il Pd non riesce a esprimere in Sicilia – alla Regione e a Palermo – nemmeno un candidato.
leuzzi@antiit.eu
La sovranità è borghese
Una rievocazione nostalgica? Ne ha l’aria, benché l’excursus sia limitato all’Europa continentale che alla sovranità sta rinunciando, per un ideale per ora pronubo di disgrazie.
Includervi la Gran Bretagna e gli Usa, che invece ne fanno una prerogativa incedibile, avrebbe costituito un ottimo contrappunto, per sapere dove stiamo andando, ma De Giovanni sta al suo Hegel. Da un filosofo che è stato parlamentare europeo qualcosa ci si sarebbe aspettato sull’evoluzione, se non è una deriva, contemporanea. Ma il suo è un esercizio dottrinale: un ritorno a Hegel, che pone a compimento della riflessione di Bodin e Hobbes. A preferenza del decisionismo di Carl Schmitt, e del normativismo di Kelsen, criticati anzi polemicamente.
Machiavelli no, oltre l’Europa manca anche lui, e pure Rousseau, ce n’è poco. Per non dire del dimenticato Alessandro Passerin d’Entrèves, cui si deve la più attuale “dottrina dello Stato”, soprattutto nelle lezioni a Oxford, esiliato della Repubblica, e di Hannah Arnedt che a lui si è rifatta, “Che cos’è l’Autorità?”, 1954 (ora in “Passato e presente”, 1968), due reincarnazioni di Hobbes: la scienza politica dopo la guerra civile, la scienza politica dopo il totalitarismo, da resistenti e partigiani: forza, potere e autorità, Passerin d’Entrèves lo spiega, fanno la sua elegante dottrina dello Stato o sovranità (la mafia, che non ha studiato, lo sa), la forza mista all’autorevolezza, l’Auctoritas, la romana legittimazione.
L’elogio diventa più vivo con la contestazione, oltre che di Schmitt e Kelsen, del “fondamentalismo dei diritti umani” imperante. Che è poi l’uguaglianza estrema alla base del liberalismo, fondamentalmente anarcoide. Ma fa insorgere uno strano legame. L’autorità dello Stato contestata nel nome dei diritti civili, etc., è vecchio argomento polemico, e anzi atto di nascita, della Trilateral, poi gruppo Bilderberg, il think thank dei ricchi e pensosi dei destini del mondo: la società dei diritti è anarchica. È curiosa questa collusione tra lo Hegel di sinistra e gli high tories, la grande borghesia.
Biagio De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica, pp. 232 € 20
Includervi la Gran Bretagna e gli Usa, che invece ne fanno una prerogativa incedibile, avrebbe costituito un ottimo contrappunto, per sapere dove stiamo andando, ma De Giovanni sta al suo Hegel. Da un filosofo che è stato parlamentare europeo qualcosa ci si sarebbe aspettato sull’evoluzione, se non è una deriva, contemporanea. Ma il suo è un esercizio dottrinale: un ritorno a Hegel, che pone a compimento della riflessione di Bodin e Hobbes. A preferenza del decisionismo di Carl Schmitt, e del normativismo di Kelsen, criticati anzi polemicamente.
Machiavelli no, oltre l’Europa manca anche lui, e pure Rousseau, ce n’è poco. Per non dire del dimenticato Alessandro Passerin d’Entrèves, cui si deve la più attuale “dottrina dello Stato”, soprattutto nelle lezioni a Oxford, esiliato della Repubblica, e di Hannah Arnedt che a lui si è rifatta, “Che cos’è l’Autorità?”, 1954 (ora in “Passato e presente”, 1968), due reincarnazioni di Hobbes: la scienza politica dopo la guerra civile, la scienza politica dopo il totalitarismo, da resistenti e partigiani: forza, potere e autorità, Passerin d’Entrèves lo spiega, fanno la sua elegante dottrina dello Stato o sovranità (la mafia, che non ha studiato, lo sa), la forza mista all’autorevolezza, l’Auctoritas, la romana legittimazione.
L’elogio diventa più vivo con la contestazione, oltre che di Schmitt e Kelsen, del “fondamentalismo dei diritti umani” imperante. Che è poi l’uguaglianza estrema alla base del liberalismo, fondamentalmente anarcoide. Ma fa insorgere uno strano legame. L’autorità dello Stato contestata nel nome dei diritti civili, etc., è vecchio argomento polemico, e anzi atto di nascita, della Trilateral, poi gruppo Bilderberg, il think thank dei ricchi e pensosi dei destini del mondo: la società dei diritti è anarchica. È curiosa questa collusione tra lo Hegel di sinistra e gli high tories, la grande borghesia.
Biagio De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica, pp. 232 € 20
venerdì 24 luglio 2015
Stupidario calcistico
Valgono
più i 40 milioni di Vidal o quelli di Goetze?
È molto popolare Raiola, e trova sempre ottimi ingaggi per i suoi assistiti. È anche lui un evergeta, condivide le sue ricchezze?
E gli altri procuratori, quanta parte delle provvigioni rimane a loro? Pagano infatti poche o punte tasse.
Perché
cambiare un buon calciatore, sperimentato, con un altro “uguale”
ma non sperimentato – e non a suo agio evidentemente nella squadra
di provenienza?
Mercato
fiorito quest’anno, orgoglio di tutte le gazzette: “Abbiamo già
speso più di tutte le altre leghe calcistiche, più perfino della
Spagna. E ancora ci sono 38 giorni di mercato”. Senza contare le
percentuali dei procuratori.
Da
Montella in giù, Della Valle ha licenziato tutti alla Fiorentina.
Per candidarsi meglio a palazzo Chigi, più piacione e censore
Oggi
come oggi non ci sono i giocatori a Firenze per fare una squadra che
punti alla salvezza, dopo le tante partenze. Della Valle incassa per
uscire dalla squadra? Niente più stadio, con “sviluppo”
immobiliare connesso, niente più evergetismo.
Berlusconi
vuole pagare 25 milioni alla Roma per un terzino che la Roma non fa
giocare. Poi dice che Berlusconi non sbaglia un affare.
L’Inter
s’illustra con Jovetic, che a Manchester non fanno giocare. Dopo
essersi illustrata con Podolsky e Shaqiri, che il suo allenatore non
ha fatto giocare.
Girano
più di tutti i giocatori rappresentati da Raiola, perfino Balotelli,
che in nessun posto poi fanno giocare. Una storia tutta simpatica di
successo. Partendo, dice lui, da Nocera Inferiore e, dice ancora,
dalla pizzeria paterna a New York. Rispettato residente a Montecarlo
– rispettato anche dalla Agenzia delle Entrate: le provvigioni sono sicure.
È molto popolare Raiola, e trova sempre ottimi ingaggi per i suoi assistiti. È anche lui un evergeta, condivide le sue ricchezze?
E gli altri procuratori, quanta parte delle provvigioni rimane a loro? Pagano infatti poche o punte tasse.
Il giallo pedagogico
Un
divertimento e un esperimento. Il primo di una serie di venti. Una
delle iniziative di Atlantyca Dreamfarm, il gruppo editoriale meno
noto e più prospero, costituito qualche anno fa da Pietro Marietti
(da ultimo Piemme) e Marcella Drago (De Agostini), che questa serie ha
già venduto in diciotto lingue in venti paesi, tra essi la Francia,
la Cina e la Corea. E detiene il record delle traduzioni italiane nel
mondo, con “Geronimo Stilton”, secondo solo a “Pinocchio”.
“Adele e l’enigma del faraone” è un film di Luc Besson del 2010, un film di fantasy basato sul fuumetto “Lea aventures extraordinaires d’Adèle Blanc-Sec” di Jacques Tardi, una serie che fa data dal 1976. Ma il faraone non si può dire soggetto esclusivo. Anche Agatha è naturalmente un po’ Agatha Christie. Gli ingredienti si vogliono classici. Pasqualotto ha anche una vera investigatrice, benché dodicenne, Agatha Mistery, di grande fiuto cioè, che da grande farà la scrittrice di gialli. Agatha una memoria eccezionale e una spalla un po’ stolida, il cugino quattordicenne Larry, che studia con scarso profitto alla scuola per detective Eye International, ma abilissimo tecnologo. Ha pure il maggiordomo, e deve risolvere il furto di un preziosa tavoletta egiziana, la sparizione della famosa perla del Bengala, insomma il repertorio.
Divertente, ma anche di più: un insegnamento. Paqualotto mette a frutto una duplice esperienza. A Londra A lungo nell’editoria fantasy e dei giochi di ruolo. Ma psicolinguista di formazione, e insegnante a tempo preso a Scienze della Comunicazione a Bologna. Oltre che la detective Agatha ha all’attivo una serie di avventure, “Il manuale del vero Pirata”. Ambientazioni esotiche ma appropriate - non le fughe indigeste nei non luoghi e le non persone che affliggono la narrativa contemporanea: questi racconti ha elaborato nel quadro di una “didattica creativa” per arricchire i linguaggi e le forme espressive. I racconti scrive semplici e svelti, come è del genere. Ai piccoli lettori propone in fondo il gioco di indovinare in anticipo, scrivendone in appositi spazi, chi e perché è il colpevole. Molto più di un divertimento.
Sir Steve Stevenson (Mario Pasqualotto), L’enigma del faraone, Corriere della sera-Gazzetta dello sport, pp. 137, ill., €1
“Adele e l’enigma del faraone” è un film di Luc Besson del 2010, un film di fantasy basato sul fuumetto “Lea aventures extraordinaires d’Adèle Blanc-Sec” di Jacques Tardi, una serie che fa data dal 1976. Ma il faraone non si può dire soggetto esclusivo. Anche Agatha è naturalmente un po’ Agatha Christie. Gli ingredienti si vogliono classici. Pasqualotto ha anche una vera investigatrice, benché dodicenne, Agatha Mistery, di grande fiuto cioè, che da grande farà la scrittrice di gialli. Agatha una memoria eccezionale e una spalla un po’ stolida, il cugino quattordicenne Larry, che studia con scarso profitto alla scuola per detective Eye International, ma abilissimo tecnologo. Ha pure il maggiordomo, e deve risolvere il furto di un preziosa tavoletta egiziana, la sparizione della famosa perla del Bengala, insomma il repertorio.
Divertente, ma anche di più: un insegnamento. Paqualotto mette a frutto una duplice esperienza. A Londra A lungo nell’editoria fantasy e dei giochi di ruolo. Ma psicolinguista di formazione, e insegnante a tempo preso a Scienze della Comunicazione a Bologna. Oltre che la detective Agatha ha all’attivo una serie di avventure, “Il manuale del vero Pirata”. Ambientazioni esotiche ma appropriate - non le fughe indigeste nei non luoghi e le non persone che affliggono la narrativa contemporanea: questi racconti ha elaborato nel quadro di una “didattica creativa” per arricchire i linguaggi e le forme espressive. I racconti scrive semplici e svelti, come è del genere. Ai piccoli lettori propone in fondo il gioco di indovinare in anticipo, scrivendone in appositi spazi, chi e perché è il colpevole. Molto più di un divertimento.
Sir Steve Stevenson (Mario Pasqualotto), L’enigma del faraone, Corriere della sera-Gazzetta dello sport, pp. 137, ill., €1
giovedì 23 luglio 2015
Il labirinto donna
Una satura
all’uso antico. La prima opera Alvaro ha inzeppato di tutto: la
novella, il romanzo, l’autobiografia (il romanzo delle origini), la
provincia e la metropoli, la campagna e la città, la fuga e il
nostos,
nostalgia e ritorno. C’è anche un tentativo di dramma borghese,
dialogato. L’effetto è raffazzonato. Si vede in questa riedizione
- l’ultima, ormai di vent’anni fa - che il curatore Natale
Tedesco ha voluto quella originaria, del 1921-22, mentre lo stesso
Alvaro era intervento dodici anni dopo a riscrivere il tutto,
accorciandoolo di un terzo. Anche incongruente, e troppo parlato
benché breve. Non ben raccontato. Perfino sbiadito, malgrado le
insistenze – non ha fisionomia nemmeno il protagonista, incerto a
partire dal nome, Babel o Babe. Pieno di umori sì, come sempre in
Alvaro, forse strapieno.
Tante cose sono soprammesse. Appiccicate. Il filo è l’uomo della donna, fatto (disfatto) dalla donna: l’editore dice il protagonista “un giovane reduce meridionale”, e invece non è più giovane, è stato marito a lungo, con suocera e cognati, ed è vedovo, reduce dalla battaglia dei sessi - ed è “uomo” nel senso non di essere umano ma di opposto alla donna, benché femministo. Quindi, benché ragioni molto e molto si riservi, per altri arcane riflessioni, è una larva, come personaggio e come uomo-marito-vedovo-amante. Fino a concludere, senza vergogna: “Purezza. Se vi fosse un poco di purezza, se io trovassi un po’ di purezza, sarei riscattato”.
Oppure si può prendere la lettura dall’altro capo, critico. Walter Mauro e Tedesco tengono l’opera in grande pregio: per le novità. Tedesco ci vede perfino, in anteprima, il tradimento degli intellettuali. Qui non è questione di intellettuali, non c’è nessun società sullo sfondo, è questione d perdigiorno. Ma le novità ci sono. Il dettaglismo di Proust, che Alvaro fu uno dei primi a leggere e il primo a tradurre. Insieme con la fenomenologia, dei sentimenti, di amore, di amicizia, dei loro contrari. E la Nuova Oggettività povera delle attuali scuole di scrittura: nomi falsi, situazioni avulse, personaggi disincarnati. C’è (poco) l’espressionismo, nel senso di mettere le viscere all’aria. C’è già l’incipiente – ora - post-femminismo. C’è molto l’uomo senza qualità, pirandelliano naturalmente, ma più vero di quello musiliano che sarà poi l’originale - l’uomo senza qualità è, dev’essere, un piccolo borghese, presuntuoso e confuso. E un anticipo di scuola dello sguardo. Ci sono fermenti europei, sempre vivi, di questo grande provinciale – il finale è il nostos, con le donne affacciate alle finestre curiose, “come tartarughe fuori dal guscio”, su fino alla “Stalla”, il palazzo abbandonato che è ora una discarica, a scrivere lettere all’amata che ha abbandonato: “Era come vedere i cenni di un muto che si sforzi di parlare”.
Un racconto enigmatico? Per un effetto d’incertezza che è il segno maggiore della sua “contemporaneità”.
Corrado Alvaro, L’uomo nel labirinto
Tante cose sono soprammesse. Appiccicate. Il filo è l’uomo della donna, fatto (disfatto) dalla donna: l’editore dice il protagonista “un giovane reduce meridionale”, e invece non è più giovane, è stato marito a lungo, con suocera e cognati, ed è vedovo, reduce dalla battaglia dei sessi - ed è “uomo” nel senso non di essere umano ma di opposto alla donna, benché femministo. Quindi, benché ragioni molto e molto si riservi, per altri arcane riflessioni, è una larva, come personaggio e come uomo-marito-vedovo-amante. Fino a concludere, senza vergogna: “Purezza. Se vi fosse un poco di purezza, se io trovassi un po’ di purezza, sarei riscattato”.
Oppure si può prendere la lettura dall’altro capo, critico. Walter Mauro e Tedesco tengono l’opera in grande pregio: per le novità. Tedesco ci vede perfino, in anteprima, il tradimento degli intellettuali. Qui non è questione di intellettuali, non c’è nessun società sullo sfondo, è questione d perdigiorno. Ma le novità ci sono. Il dettaglismo di Proust, che Alvaro fu uno dei primi a leggere e il primo a tradurre. Insieme con la fenomenologia, dei sentimenti, di amore, di amicizia, dei loro contrari. E la Nuova Oggettività povera delle attuali scuole di scrittura: nomi falsi, situazioni avulse, personaggi disincarnati. C’è (poco) l’espressionismo, nel senso di mettere le viscere all’aria. C’è già l’incipiente – ora - post-femminismo. C’è molto l’uomo senza qualità, pirandelliano naturalmente, ma più vero di quello musiliano che sarà poi l’originale - l’uomo senza qualità è, dev’essere, un piccolo borghese, presuntuoso e confuso. E un anticipo di scuola dello sguardo. Ci sono fermenti europei, sempre vivi, di questo grande provinciale – il finale è il nostos, con le donne affacciate alle finestre curiose, “come tartarughe fuori dal guscio”, su fino alla “Stalla”, il palazzo abbandonato che è ora una discarica, a scrivere lettere all’amata che ha abbandonato: “Era come vedere i cenni di un muto che si sforzi di parlare”.
Un racconto enigmatico? Per un effetto d’incertezza che è il segno maggiore della sua “contemporaneità”.
Corrado Alvaro, L’uomo nel labirinto
Ma l'Ue tratta il riconoscimento dell'Is
Paura,
accuse, ripicche, tutto meno l’essenziale. Con un finto panico che
scarica le coscienze – si parla dei quattro italiani rapiti a
Tripoli: “Ci sarà un riscatto”, “No, sarà chiesto il
riconoscimento”, etc. Mentre l’essenziale è che l’Onu e la Ue stanno
trattando in Libia proprio questo: il riconoscimento dell’Is, del
suo governo a Tripoli. Con un’aggravante: l’Is non controlla
Tripoli, vi è solo presente, come altre bande, ma tanto basta per
legittimarlo all’Onu e alla Ue.
Bernardino Leon, un oscuro funzionario dell’Onu, ha mandato pieno dell’Onu e della Ue, e tratta proprio su come far emergere, accanto al legittimo governo libico di Tobruk, anche quello islamico di tripoli. A questo fine è stato bloccato l’Egitto, che poteva annientare l’Is in Libia tre mesi fa. Ed è stato ignorato il piano italiano anti-barconi, che pure gli Stati Maggiori italiani avevano approntato in dettaglio.
Bernardino Leon, un oscuro funzionario dell’Onu, ha mandato pieno dell’Onu e della Ue, e tratta proprio su come far emergere, accanto al legittimo governo libico di Tobruk, anche quello islamico di tripoli. A questo fine è stato bloccato l’Egitto, che poteva annientare l’Is in Libia tre mesi fa. Ed è stato ignorato il piano italiano anti-barconi, che pure gli Stati Maggiori italiani avevano approntato in dettaglio.
La non politica estera
Il
Pdemocristiano l’ha messa ai margini, un ministero di seconda
categoria, affidato prima a una ex Fgci, senza competenze, se non di
essere stata insieme dalemiana e veltroniana, poi a un ex impiegato
del Comune di Roma. Si finisce per non sapere più le cose
elementari, come evitare di consegnarsi ostaggi all’Is d Tripoli, anche se solo a fini di riscatto.
Triplice ignoranza. Che la Libia è piena di banditi. Che l’Is a Tripoli vuole essere riconosciuto governo legale. Che la Libia è un paese confinante - per l’Italia la Libia è come l’Austria, la Francia, la Slovenia. L’esito è noto: avere l’Is al governo a Tripoli è la fine della pace per l’Italia. Ma nessuno se ne cura.
Non solo di questo. L’Italia non si cura in realtà di niente, e comunque non ha voce in capitolo su niente, anche se i suoi interessi sono preponderanti. Non ha voce a Bruxelles su nessun tema, se non come sfida: vediamo adesso cosa vuole l’Italia… Gli immigrati ha confidato a Alfano. Doveva combattere la mafia dei barconi, che poi è l’Is, ne aveva i mezzi e la capacità, e si è lasciata fare da Bernardino Leòn (?). Spende tanto, anche se non si dice, per “combattere” l’Is in Siria e Irak, e poi si fa passare il peggio del peggio dal governo turco amico dell’amico Erdogan. Che, se volesse, stroncherebbe l’Is in un giorno. Ma, pur avendolo alla frontiera, cioè in casa, se ne guarda bene.
Ps. Erdogan ora si segnala per cancellare dalla rete e dalla memoria i 33 giovani volontari a Kobane massacrati da un kamikaze. Non per cancellare i kamikaze dell’Is, perseguirli - almeno uno, per dare l’esempio. Gentiloni ha protestato? Certo, a Erdogan non gliene potrebbe fregare di meno
Triplice ignoranza. Che la Libia è piena di banditi. Che l’Is a Tripoli vuole essere riconosciuto governo legale. Che la Libia è un paese confinante - per l’Italia la Libia è come l’Austria, la Francia, la Slovenia. L’esito è noto: avere l’Is al governo a Tripoli è la fine della pace per l’Italia. Ma nessuno se ne cura.
Non solo di questo. L’Italia non si cura in realtà di niente, e comunque non ha voce in capitolo su niente, anche se i suoi interessi sono preponderanti. Non ha voce a Bruxelles su nessun tema, se non come sfida: vediamo adesso cosa vuole l’Italia… Gli immigrati ha confidato a Alfano. Doveva combattere la mafia dei barconi, che poi è l’Is, ne aveva i mezzi e la capacità, e si è lasciata fare da Bernardino Leòn (?). Spende tanto, anche se non si dice, per “combattere” l’Is in Siria e Irak, e poi si fa passare il peggio del peggio dal governo turco amico dell’amico Erdogan. Che, se volesse, stroncherebbe l’Is in un giorno. Ma, pur avendolo alla frontiera, cioè in casa, se ne guarda bene.
Ps. Erdogan ora si segnala per cancellare dalla rete e dalla memoria i 33 giovani volontari a Kobane massacrati da un kamikaze. Non per cancellare i kamikaze dell’Is, perseguirli - almeno uno, per dare l’esempio. Gentiloni ha protestato? Certo, a Erdogan non gliene potrebbe fregare di meno
I due mondi
La
foto rubata dagli inquirenti, di Lassaadi Briki, tunisino, e Mohammed
Waqas, pakistano, li mostra nello splendore di ogni fantasia da
immigrato, rilassati, curati, disinvolti, perfettamente integrati, a
fare liberamente la spesa. In una sorta di paradiso terrestre per
loro, se si conoscono gli ambienti di provenienza. E tuttavia il loro
sogno non è d’integrarsi ma di ferire in qualche modo chi li ha
ricevuti e “liberati”.
L’immigrazione
di questi anni non è come quella postbellica degli europei del Sud
verso l’Europa del Nord, o quella transatlantica un secolo-un
secolo e mezzo fa degli europei verso le Americhe. Quelle erano
emigrazioni intra-europee. Erano curate, con visti, biglietti, prenotazioni, richieste
eccetera. E soprattutto avvenivano all’interno di un mondo che, per
quanto si voglia diminuire il peso e il senso di Europa, condivideva
tutto, eccetto la ricchezza.
Gli immigrati andavano allora ad altre
“Europe”, con i quali avevano in comune, se non le classi dirigenti e il benessere, la moralità e i principi delle leggi. I “barconi” sono
un’immigrazione, benché vicina, e anzi quasi di frontiera, da un
altro mondo. Per secoli rancoroso, per ragioni di cultura storica e
politica più che di religione – come tale è anche avvertito,
nella percezione comune (non critica, ma sostanziale).
Recessione - 38
Tutto
quello che bisognerebbe sapere e non si dice:
Secondo il Centro Einaudi-Intesa San Paolo, il ceto medio italiano (reddito compreso fra il 75 e il 125 per cento di quello medio per classe demografica di appartenenza) si è ridotto dal 57,1 pe cento del totale delle famiglie nel 2007 al 38,5. In cifra: circa 7 milioni di persone, tre milioni di famiglie, hanno perso l’aggancio alla soglia minima del ceto medio.
Aumentano i poveri, ora a quota 15 milioni. Più 30 per cento dal 2008.
Meno 25 per cento a maggio la produzione industriale rispetto al 2007: un quarto dell’industria italiana è ferma.
Il governo dà la produzione industriale in boom a maggio, Confindustria la calcola in calo rispetto a maggio, e a giugno, del 2014.
Secondo il Centro Einaudi-Intesa San Paolo, il ceto medio italiano (reddito compreso fra il 75 e il 125 per cento di quello medio per classe demografica di appartenenza) si è ridotto dal 57,1 pe cento del totale delle famiglie nel 2007 al 38,5. In cifra: circa 7 milioni di persone, tre milioni di famiglie, hanno perso l’aggancio alla soglia minima del ceto medio.
Per
la prima volta nell’Italia postbellica, secondo il sondaggio
Einaudi-Intesa, una generazione di ceto medio è convinta di avere
fatto un passo in dietro rispetto ai genitori.
Fra
il 2008 e il 2013 sono emigrati 554 mila italiani. La maggior parte
per motivi fiscali. Ma due quinti degli emigrati sono giovani tra i
15 e i 34 anni.
Aumentano i poveri, ora a quota 15 milioni. Più 30 per cento dal 2008.
Meno 25 per cento a maggio la produzione industriale rispetto al 2007: un quarto dell’industria italiana è ferma.
Il governo dà la produzione industriale in boom a maggio, Confindustria la calcola in calo rispetto a maggio, e a giugno, del 2014.
Il
consumo di benzina è sceso dal 2009 al 2014 del 27 per cento.
mercoledì 22 luglio 2015
Letture - 221
letterautore
Contini – Dimenticato e quasi rimosso è il filologo che ha “fatto”,
letteralmente, mezzo Secondo Novecento italiano: Gadda,
Pasolini, Pizzuto, Lucio Piccolo.
Francese
- Si sente
dire alla Rai ròbot, con l’accento
sua prima o e la –t finale, désert
(per dessert), dépliant, e steig
invece di stage. Era la lingua di mezza Italia un paio di generazioni addietro.
Islamic State – Su “Amor Mundi”, il sito
dell’Hannah Arendt Center, Robin Creswell e Bernard Haykel scoprono che l’Is si
diletta molto di poesia, oltre che di teste mozzate e boia bambini. E se ne
fanno una ragione: “Può sembrare curioso che alcuni degli uomini più ricercati
al mondo perdano tempo a modellare poemi in metri classici e rime baciate – più
facili in arabo che in inglese, ma qualcosa che sempre vuole pratica”. Anche
perché la loro poesia è “piena di
allusioni, termini ricercati, e trucchi barocchi”. Ma si tratta, concludono, sempre di rime
politiche. In forma poetica per un riguardo del terrorista verso se stesso, essendo
uno che si è messo al bando dalla società, incluse spesso la famiglia e la
comunità religiosa. Lo schema che preferiscono è d’altronde l’acrostico, lo
slogan – il più gettonato è Daesh, l’acronimo della denominazione ufficiale
dell’Is, quello col quale si compilano i versi più minacciosi.
Italiano – È sempre più reticente – a opera della Rai? La strage di
via d’Amelio è “di stampo mafioso”. Le decapitazioni per mano dei bambini boia
dell’Is sono “una violenza” – i bambini boia o le decapitazioni? L’Is, Stato
islamico, è “imputato di terrorismo”. L’assassino del gioielliere è il
“presunto assassino”.
È – era – “vivere la libertà come
grazia e non come angoscia” per Maria Zambrano, che così ne scriveva all’amica
Elena Croce.
Si traducono ogni anno più opere
italiane in lingue straniere, attesta Giuusepe Antonelli su “La lettura”, di
quante opere straniere si traducano in italiano – e se ne traducono moltissime
(soprattutto romanzi, che nessuno legge, giusto perché gli agenti le impongono
(“ti do l’autore che chiedi se ne compri quest’atra mezza dozzina”).
L’ “italiano” più tradotto è il
topo detective Geronimo Stilton, almeno cento milioni di copie in undici anni,
in 45 lingue. Pinocchio è il libro più tradotto al mondo, dopo Saimt-Exupéry.
“Pinocchio” ha all’attivo traduzioni in 243 lingue, spiega Antonelli, “l’unico
al mondo ad averne di più è “Il piccolo principe”” – nella classifica mondiale
dei più venduti di sempre c’è anche “Il nome della rosa”: Eco viene
diciannovesimo posto.
Margot – Huxley, “Crome yellow”, ricorda che Gladstone mise assieme
34 rime per Margot. Gladstone è lo statista, W.E., che nel 1889 ricevette a
Hawarden, il suo ritiro in campagna, la visita di Emma (“Margot”) Tennant,
venticinquenne, fidanzata e poi sposa del nipote Arthur Littleton. Dopo la
visita, impressionato, pare, più dal diminutivo che da Emma, compose quattro
stanze di versi tutti attorno a Margot. “Though
young and though fair, who can hold such a cargo\ of all the good qualities
going as Margot?” etc. - includendo “embargo””
e “far go”.
Paretimologia – La più nota è quella che apparenta pioppo e popolo:
sono false etimologie. Come dire matto e mattarello – Mattarella? Gianfranco
Contini ne era ghiotto: “Non c’è nulla
in comune tra pira, piramide e piramidone, solo paretimologie. Lo stesso fra
Pietra e petra delle rime petrose”, che attribuisce a Dante.
Rilettura – “Non c’è la lettura, c’è solo la rilettura” è precetto
di Nabokov (“Lezioni sulla letteratura”) a proposito di se stesso lettore: “Incidentalmente,
uso la parola lettore molto indefinitamente. Abbastanza stranamente, non si può
leggere un libro, si può solo rileggerlo. Un buon lettore, un grande lettore, attivo,
creativo, è un rilettore… Quando leggiamo un libro per la prima volta, lo
stesso procedimento di muovere laboriosamente gli occhi da sinistra a destra,
riga dopo riga, pagina dopo pagina, questo complicato lavoro fisico sul libro,
lo stesso processo di apprendimento in termini di spazio e tempo di che cosa
tratta il libro, questo si frappone tra noi e la valutazione artistica”. Si
parla di un libro, lo si ricorda, a una seconda e terza lettura? Ma solo per un
libro “artistico”, la lettura comune scorre – fa più fatica a soffermarsi.
Ma l’argomento di Nabokov non è
artificioso. Al primo approccio siamo sovrastati dalla novità, se c’è, mentre siamo
stanchi dalla “fatica di leggere”, da sinistra a destra e riga dopo riga. Solo
a successive scansioni del testo si può apprezzarlo nell’insieme, come si
farebbe con un quadro. Una pretesa che la psicologia rafforza, poiché la prima
percezione considera necessariamente incompleta, non essendo il lettore-percettore
pronto, con la “struttura appropriata”, a percepire la novità.
Satira – È scomparsa dalla circolazione. Anche a teatro –
Litizzetto, Crozza sono politicanti. È scorretta? O il mercato non la vuole? Si
direbbe il contrario, se l’opinione pubblica si esprime nei vaffa , nel
dileggio e nell’astensione. Ma non c’è non solo in Italia, anche in Francia
latita - se non di destra e greve - e negli Usa. In Germania sì, ma non si
traduce.
Traduzione – Dopo trent’anni di tentativi e
affinamenti, la traduzione probabilistica computazionale è più o meno dov’era:
la parola giusta è contestuale, non c’è un algoritmo per scegliere la parola giusta.
La tentazione è sempre forte, della ricerca, di tradurre Dante baldanzosamente
in automatico, ma l’esito è solo brutale o ridicolo. L’unica funzione del
traduttore automatico è di reminder,
una specie di sinonimario involontario, che potrà aiutare la scelta corretta.
I modelli automatici
funzionano meglio nella semplificazione dei linguaggi, sia di partenza sia di
arrivo. Ma anche qui con limiti: “meglio” rispetto alla traduzione automatica
simultanea, ma più spesso che non di intralcio alla scrittura di sm, quando si
esercita su più lingue.
“La lingua dell’Europa è la
traduzione”, è la fulminante sintesi di Umberto Eco, “Dire quasi la stessa cosa.
Esperienze di traduzione”. Sottinteso, il predominio linguistico europeo. Che
però è imperialismo a tutti gli effetti, perciò storicamente destinato a
decadere – o allora l’inglese resterà lingua franca senza l’Inghilterra (né gli
Usa), come il latino adottato dai barbari, senza Roma..
Sì, le traduzioni sono ora “europee”:
da e all’inglese, spagnolo, francese,
tedesco, italiano. E occupano questo “spazio privilegiato” nella “rete
linguistica globale” soprattutto per “i reciproci flussi di traduzione”
(Antonelli, “La lettura”, 19 luglio). Ma lo sono come è europeo il clima – è
estate nel mondo quando è estate in Europa e Usa. E anche le ferie dei
giornali: che vengono di luglio e agosto quando i giornali europei e americani
scacciano le notizie per le curiosità, lo svago, le piccole scoperte.
Derrida – sempre preso dalla sua fascinazione
per il tedesco - la definisce (“Heidegger e la questilone”) “l’alterco tra le
lingue”: la traduzione come scambio di significati implica una continua
ridefinizione (la Übersetzung come Auseinanderersetzung).
letterautore@antiit.eu
ll provincialismo al cuore dell'Italia
Racconti di vita rustica, un genere deserto.
Che i luoghi già dei Sanmniatelli, il comune di Lari e il Castello di Perignano,
hanno voluto recuperare – il castello è protagonista del racconto centrale, La
terra perduta”. Con questa raccolta dedicata al padre, “il severo conte Donato”
– dopo peripezie che il curatore della ristampa, Floriano Romboli, illustra:
dal conte, anche “senatore del regno d’Italia”, il giovane Bino era fuggito via
ai vent’anni, salvo finire a Parigi cantante in locali di terz’ordine, per
essere rimpatriato su segnalazione allarmatissima di Guglielmo Marconi.
Il genere alletta. Ma queste novelle Sanminiatelli
stesso definisce, riprendendole in una delle tante riscritture che amava, “molto cattive”. Lo sono, non tanto per
le figurine che (non) le animano, di pazzi, stolti, malaticci, moribondi,
quanto per la riscrittura, che non salva ciò che è nato male e spesso deforma.
Qui nel senso del bozzetto letargico. Un provincialismo che ha una forte
tradizione in Toscana, al centro dell’Italia e dell’italiano, e tuttavia irredimibile.
Si
fa fatica a pensare che Sanminiatelli è morto solo trent’anni fa,
attivo novantenne: è un’altra epoca. E tuttavia la nostalgia della
riproposta qualcosa comunica: qualche tarlo rivive, della umanità
vera della campagna e del “popolo”, malgrado l’abuso del
manierismo. Pezzi di bravura: “Oh, la poesia estiva dei luoghi
comodi campagnoli!”, cose così - che inevitabilmente si dppiano e
si triplicano, incontinenti: “Poesia semplice e asemplice
emeixnana, momonotoma e melanconic” per l’ebberzza
dell’allitterazione. Nei vezzi dialettali e nella pscologia
semplice, è questa scrittura peraltro all’origine, inconfessata,
forse ignota, di Cassola e Cancogni nel dopoguerra: l’attenzione
per il microcosmo paesano, per i destini minori, le passioni
decerebrate. Bino Sanminiatelli, Bocca
Mariana, Cld, pp. 207 € 10
Ricomincio da Berlusconi
Arrivati
alle tasse, la clonazione è totale. In tutto: la prima casa anzitutto, e poi le
aliquote. Dopo le pensioni, la semplificazione legislativa, la Grande Riforma,
i patti con gli italiani, le belle donne giovani, la responsabilità dei
giudici, e un limite alle intercettazioni, c’è un limite a tutto. Per belle
giovani s’intendano le ministre, le sottosegretarie e le consigliere d’assalto.
Renzi fa quello che Berlusconi non ha fatto.
Niente
scandalo, evidentemente solo le cose da fare. Ma allora è colpevole l’odio,
oltre a Fini e allo stesso Berlusconi. Non aver consentito al governo di fare le
cosa da fare, a furia di scandali falsi e pettegolezzi, da parte di almeno un
paio di presidenti della Repubblica, della Cgil del carrierista Cofferati, dei giornali delle banche e della Procure. Del
sovietismo immarcescibile in Italia, che è poi il fondo fascista, altro che la Resistenza.
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Si dice in città,
Sinistra sinistra
martedì 21 luglio 2015
Problemi di base - 237
spock
O non sarebbe meglio andante, comune, banale? Di qualche
utilità
Si dorme col buio e si ragiona con la luce?
O con la luce si lavora?
O non viceversa?
E quanto buio c’è nella luce, e viceversa?
Ma i contrari non sono uguali, o sì?
La notte acuisce i pensieri, ma perché il pensiero vuole
essere acuto?
Il pensiero è snob? Distinto, remoto, inattaccabile, poiché
non vuole-può essere profondo. Inattingibile anche.
spock@antiit.eu
Lo "spirito" hitleriano
La vera
“questione” è l’antisemitismo di Heidegger. Il terreno di coltura è lo Spirito,
che non è l’esprit francese ma il Geist, con i connessi geistig e geistlich. Che Heidegger
non usa prima, se non tra diminutive virgolette, e anzi sconsiglia, ma dal
“Discorso del Rettorato”, 1933, e poi per una ventina d’anni a profusione, fino
alla lettura di Trakl. Cioè fino alla riabilitazione – questo a Derrida è
mancato? Ma no, anche dopo: fino alla fine, all’intervista a futura memoria
allo “Spiegel”, sotto il nome di destino, la Führung, il Gemüt, il Volk (il
Volk…), il Dio nascosto, l’alba che non può mancare, il viaggio incognito.
Fino al ritorno, dopo la sconfitta e il silenzio imposto nei pochi anni fino
alla riabilitazione, del “destino inevitabile”, tra l’Occidente e l’Oriente
assenti (ben presenti, ma “vuoti”), via Trakl. Dopo averlo temprato via
Hölderlin e (l’incolpevole) Schelling. Col “fuoco” e la “fiamma”, spirituali
beninteso, che tanto infiammano un ignaro Derrida.
Il
pensiero di Heidegger è perfino trasparente, pur nella sua sorniona allusività
- altrove si direbbe mafiosità. Che Derrida, benché appassionato delle
decifrazioni, trascura: la questione è “dei pensieri e degli impensieri” di
Heidegger… Il testo è di una conferenza a Parigi, il 14 marzo 1987, al Collège
International de Philosophie, sul tema: “Heidegger: questioni aperte”.Raddoppiata
a stampa dalle note. Si penserebbe al nazismo, cui l’editore francese rinvia,
riproponendo il saggio-conferenza in contemporanea con la traduzione italiana.
Ma è parola e tema che Derrida virtuosisticamente evita.
Allora.
Di spirito non si parla in “Essere e tempo”, 1927, se non, appunto, tra
virgolette. “E tuttavia, con la parola, seppure tra virgolette, qualcosa dello
spirito, e senza dubbio ciò che fa segno verso il Gemüt, si lascia sottrarre alla metafisica cartesiamo-hegeliana
della soggettività”. Che “Essere e tempo” rifiuta. Sembra chiaro, ma Derrida sorvola.
Anche sul Gemüt, che più che intraducibile è la saracinesca nazionale e esclusiva che si pone a ogni altro (destino,
popolo, etc.), di una soggettività maggiore. Sono le virgolette che eccitano
Derrida. Le virgolette non sono sempre le stesse: “È la legge delle virgolette.
A due a due montano la guardia: alla frontiera o davanti ala porta, preposte al
soglio in ogni caso, e questi luoghi sono sempre drammatici”. Nientedimeno -
però la filosofia delle virgolette mancava.
Se non
che un fatto c’è. Il “Discorso del Rettorato” toglie le virgolette e celebra lo
spirito addirittura in fiamme. Anzi il Geist,
una cosa che “non c’è nella Grecia dei filosofi più che in quella dei Vangeli,
per non dire della sordità romana: il Geist
è fiamma. E questo non si direbbe e dunque non si penserebbe che in tedesco”. Sembrerebbe
che Derida abbia capito e detto tutto, e invece no. Se non è una sottilissima ironia,
la sua è cecità, per quanto arzigogoli. Nell’“Introduzione alla metafisica”,
due anni dopo il “Rettorato”, c’è in Heidegger “una specie di diagnosi geo-politica, di cui
tutte le risorse e tutti i riferimenti tornano allo spirito, alla istorialità
spirituale, con i concetti già analizzati: spirituali
sono la caduta o la decadenza (Verfall), spirituale è anche la forza”.
Capito?
No. Il senso è chiaro, dell’improvvisa discesa dello spirito, ma Derrida a
questo punto devia sull’animalità. Su cui impegna una lunga esposizione
critica. E sempre sulla imagerie
verbale - das Welten von Welt, il farsi mondo del mondo, die Welt ist,
in dem sie weltet, il mondo è in quanto si mondanizza (si mondializza?):
un’ubriacatura (la Umdeutung e la Missdeutung
lo fanno impazzire).
La
“questione” viene in nota, a metà conferenza-saggio, ma per opporre a
Heidegger, al quale si contesta “d’aver partecipato alla persecuzione di Husserl”,
suo estimatore e patrono accademico, lo stesso Husserl. Che in “La crisi dell’umanità
europea e la filosofia” (“testo pronunciato nel 1935, a Vienna!”) esclude dallo “spirito europeo”, nelle sue stesse parole, “gli Eschimesi, o gli Indiani dei
mercatini, e gli Zingari che vagabondano in permanenza in tutta Europa”, lui
“che pure si sapeva «non ariano» lui
stesso”, mentre vi includeva i dominion britannici e gli Usa. Insomma uno scandalo, di uno che non meritava
di essere trattato bene - neanche in precedenza?
La
“questione” storico-politica Heidegger l’aveva peraltro chiaramente detta nei due testi
dello Spirito, maiuscolo e senza virgolette, del 1933 e del 1935, il
“Rettorato” e l’“Introduzione” – benché alla sua maniera; allusiva, iniziatica
(ci si ricorderà un giorno dell’impressione netta che “Essere e tempo” produsse già nel 1927, fuori quindi da ogni polemica razzista, su Hans Jonas: “Non è una filosofia,
ma un affare segreto, pressoché una nuova credenza”: la crisi dello “spirito
europeo” si è prodotta nella prima metà del secolo XIX, per “il collasso
dell’idealismo tedesco”). Comincia qui per Heidegger, nella sintesi di Derrida,
“la vacanza dello spirito, la dissoluzione della forza spirituale, il rifiuto
di ogni domanda originaria sui fondamenti”. E per lo stesso Derrida, che
abbandona per una volta il gusto per la
parola e il tedesco, e assimila la “crisi dello spirito” di Heidegger non
soltanto a quella dell’ebreo Husserl ma
anche a quella del latino Valéry, benché del tutto fuori contesto, cioè alla fine
della guerra nel 1919 – nella stessa esposizione che Derrida ne fa in una lunghissima
nota, Valéry non c’entra nulla, è solo il vezzo citazionista di Derrida, ma
rafforza certo il piedistallo a Heidegger.
La
“questione” è Derrida, e il suo rapporto – suo come di tanti altri, è vero, ma
molti sotto suo influsso – con la filosofia tedesca post-idealistica, della
crisi, della fenomenologia e dell’ontologia. Essendo
personalmente soprattutto appassionato delle parole, e di Heidegger in quanto
mago della parola – a doppio taglio: come poeta in proprio inventivo, e come
furbo svevo-alemanno che dice e non
dice, reticente. Il tedesco di Heidegger è per Derrida una selva
incantata. Se ne potrebbe arguire della filosofia
come possessione – il daimon qui
non c’è, ma c’è molto deinon, nel
senso di pauroso, terribile.
C’è
anche un che di ludicrous in questa
chiaroveggenza distratta di Derrida, assurdo e comico insieme, e forse purtroppo
ridicolo. Se si assume il discorso inaugurale di Hegel a Heidelberg il 28
ottobre 1816, noto a entrambi, Heidegger e Derrida, dalle “Lezioni sulla storia
della filosofia”, che dice la filosofia in Germania erede dell’ebraismo - la
Germania rappresenta come la depositaria finale del ”fuoco sacro” dello spirito,
dice proprio così Hegel, del Geist, compito
che una volta era spettato “alla nazione ebraica”. Le genealogie sono
rischiose, ma se fossero vere? Dei tedeschi non c’è da fidarsi, a lungo hanno voluto
invece essere greci, però…
L’ultima
pagina si legge come una parodia, purtroppo involontaria, dello Heidegger che
profetizza rinascite (recessi temporanei e albe future, marce, destini
incomprimibili, tra Occidente e Oriente - Derrida dimentica che l’Oriente di
Heidegger era ben preciso, solido e minaccioso: la Russia sovietica): “Voi dite
ciò che si può dire di più radicale quando si è cristiani oggi” ed ebrei, Derrida interpella Heidegger: “A
questo punto, soprattutto quando parlate di Dio, di recesso, di fiamma e di
scrittura di fuoco nella promessa del ritorno verso il paese della
pre-archi-originalità, non è sicuro che non riceviate una risposta analoga e
un’eco simile dal mio amico e correligionario, l’ebreo messianico. Non sono
sicuro che il mussulmano e qualcun altro non si unirebbero al concerto e
all’inno”.
Fa senso
rileggere una riflessione su Heidegger appassionata, acuta, pignola, in certo
senso devota, per giunta di un filosofo ebreo, anche se senza kipah, dopo che l’antisemitismo
di Heidegger è diventato manifesto. E - benché si tenti di coprirlo di “storia
dell’essere” - volgare: la cospirazione giudaica mondiale. Non che il nazismo
di Heidegger (nazismo e non nazionalismo - si confondono ad arte, mentre sono
distinti e anche antitetici: Jünger per esempio sta in un altro mondo che Heidegger,
anche se lui ha fatto la guerra per Hitler e Heidegger si è imboscato) non
fosse noto prima, con corteggio di antisemitismo spicciolo (posti accademici, denunce,
radiazioni)… Bisognerà ripensare il
nazismo? Gli anni 1938-1942 la guerra la Germania l’aveva già vinta, senza perdite.
Jacques
Derrida, Dello spirito: Heidegger e la
questione, SE, pp. 142 € 19
lunedì 20 luglio 2015
Rcsexit
Implacable
con i greci, il “Corriere della sera” rischia in proprio un sorta di “Corrierexit”
– o meglio di Rcexit, poiché coinvolge anche l’altra corazzata del gruppo
editoriale Rcs, la “Gazzetta dello sport”: il fallimento. Sembra impossibile, i
due quotidiani sono una miniera, ma a venti giorni dalla scadenza del 10 agosto
per la rimodulazione del debito, le condizioni delle banche creditrici non si
ammorbidiscono.
In
teoria tutto è già definito. Rcs ha un debito di circa 600 milioni, che aveva
denunciato ai creditori non rimborsabile. In crescita da un paio d’anni da 470
a 530 milioni, e negli ultimi dodici emsi a circa 600. Un mese fa un preaccordo
aveva stabilito le linee di un consolidamento, cifrandole anche, ma non se ne è
fatto nulla. Si tratta di un secondo, o ennesimo, preaccordo: quello
precedente, del giugno 2014, ha visto l’editrice insolvente. A opera degli
stessi amministratori in carica oggi.
Le
banche creditrici sono a vario titolo (azioniste, ex, prossime) vicine a Rcs,
ma non, evidentemente, alla sua migliore gestione: Mediobanca, Intesa,
Unicredit, BnpParibas, Popolare di Milano. Il preaccordo peraltro è severo: c’è una limatura dello spread sull’euribor, mediamente di 40
punti base per le varie categorie di indebitamento, che sembra molto ma non lo,
lo spread si aggira sempre sui 400
pb.
Sui
tassi Rcs non ha alcun potere contrattuale. Mentre è insolvente sul lato
dismissioni. Aveva concordato dismissioni di asset non core business
per 250 milioni entro il 2014. Non ha venduto quasi nulla, e ha avuto a giugno
i termini aggiornati al 30 settembre. Ma per quella data potrà realizzare, al
più, 120-130 milioni, se avrà portato a termine la cessione di Rcs Libri a
Mondadori.
Ombre - 276
A quattro giorno dalla firma dell’accordo con l’Iran, una
delegazione di industriali tedeschi era già ospite a Teheran. Non la guidava
Angela Merkel, come di consueto in queste missioni, ma il suo vice, il
socialista Gabriel. La Germania faceva parte del quintetto che ha avallato la
bomba iraniana.
Il calciatore Salah rifiuta la Fiorentina, che gli ha dato lustro,
per andare all’Inter. Sbarramento dela Fiorentina, con minacce, cause penali,
civili, sportive e quant’altro, clausole, firme, tweet avvelenati, contro
l’Inter. “Salah non può andare in una squadra italiana”. Salah allora va alla
Roma. Non dopo un mese, uno o due giorni dopo. La Fiorentina tace. Sarà chela
Roma non è una squadra italiana?
Salah è diventato famoso con la Fiorentina per aver fatto due gol
alla Juventus – poi niente più. La Roma lo vuole per questo? E gli raddoppia
l’ingaggio. Poi dice che il calcio non è tecnica e passione.
“L’Europa dei tecnici ha fallito”, scrive il Nobel per l’Economia
Krugman domenica sul “Sole 24 Ore”. Dopo l’Italia dei tecnici, dunque, un altro
fallimento tecnico? Non è proprio così: Draghi alla Bce e gli uffici europei
del Fmi mostrano di sapere cosa avviene. Mentre molti politici, Schaüble e
tanti capi di governo europei, si sono lasciati abbacinare dalla scelta
“tecnica” di porre la Grecia fuori euro. Non è il tecnicismo in questione, la
conoscenza dei dossier, ma i “tecnici”, specie se politici.
Questo sito si è sbagliato, un giudice si è trovato a Firenze che
ha reintegrato Mallegni a sindaco di Pietrasanta, malgrado i fulmini dei
fratelli Manzione fedelissimi di Renzi, l’una sua capoufficio legislativo, l’altro
sottosegretario all’Interno. Firenze, cioè Verdini. L’accoppiata Renzi-Verdini riunisce
la Toscana che conta.
Si sa, non da oggi, lo sapeva anche questo sito, che se si votasse
Grillo vincerebbe su Renzi – e forse anche Salvini. Ma per saperlo dobbiamo
aspettare che il “Financial Times” faccia parlare Grillo, il quale dice: “Se si
va alle elezioni noi vinciamo”.
Renzi fa tanta paura ai giornalisti italiani? O la servitù è
volontaria – l’educazione sovietica (il capo ha sempre ragione) è indelebile.
Non c’è giorno che Tito Boeri, presidente renziano dell’Inps, non
abbia un’idea. Tutte stravaganti. Peggio:
fa più lui per dare l’idea di una finanza pubblica incontrollabile che tutti i magnaccioni
del mercato messi assieme.
Quando Boeri animava lavoce.info era tutto pepe liberista. Sarà
uno dei tanti cavalli di Troia dell’affarismo? La previdenza privata, altro che
b uusiness!
Si moriva di amianto nelle fabbriche in Lombardia negli anni
1970-1980. Ma con diversi effetti giuridici. Nel caso dell’Enel e della Franco
Tosi senza colpevoli, i Tribunali non ne hanno trovati. Nel caso della Pirelli
invece una pletora di colpevoli: tutti i dirigenti. Tutti condannati ora, dopo
trent’anni, a sei e sette anni, anche se
ottantenni o novantenni.
Tra gli undici con dannati per le 24 morti provocate dall’amianto
alla Pirelli di Milano anche l’amministratore delegato Sierra. Che presiedeva
l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.
Santino di una pagina del “Corriere della sera” per Wolfgang
Schaüble, l’eroe della distruzione della Grecia. Un politico di secondo piano,
all’ombra di Helmut Kohl, l’unico che Angela Merkel si è tenuto, perché
innocuo, un teorico dell’Europa “a più velocità”, cioè gerarchizzata, eletto a
sfidante della stesa Merkel, e a paladino dell’Europa. Un giorno diranno che
non erano in stanza?
Esso stesso in situazione di default,il
“Corriere della sera” si segnala per la cattiveria contro la Grecia. Anche
contro le esigenze di una cronaca leggibile, di cui la direzione Fontana si fa
bandiera. A opera di un corrispondente da Berlino, ex di Lotta Continua,
schiacciato su Schaüble, e di un inviato a Atene, il neo vice-direttore Fubini,
che si segnala per un libro su un parente economista nel 1929 a New York, in
grado di leggere subito gli aspetti tragici del crac di Borsa. Le buone
intenzioni sono micidiali.
Il terzino Romagnoli, in forza alla Roma, che però lo ha prestato
alla Sampdoria per appena mezzo milione, ora è fortissimamente voluto dal Milan
come pilastro per lo scudetto e naturalmente la Champions. La Roma chiede, per
un terzino che non fa giocare, 30 milioni.
Molti giornalisti informatissimi, specializzatissimi, attorno allo
Hacking Team, la società di sicurezza informatica bruciata come niente dagli
hacker. Nessuno che faccia capire cosa è successo, perché, con qual conseguenze.
Non si capisce nemmeno che cosa faceva questo Hacking Team: Internet è il nuovo
esoterismo, altro che democrazia.
Il
giorno dopo la jugulazione della Grecia, il “Corriere della sera” fa diciotto
pagine compiaciute, con l’eccezione di
Paolo franchi e Ivo Caizzi, contro la Grecia stessa. Uno schieramento
impressionante di inviati, commentatori e perfino del filologo Canfora, sempre più
la maschera di se stesso. Ma le correda con due pagine di foto, che valgono”
tutto l’opposto: chi comprerebbe una macchina da Djisselbloem, che la notte
della tregenda badava a farsi rieleggere, o Juncker? L vero giornalismo è inconscio?
Marina
di Carrara fa appena in tempo a celebrare la bandiera blu di Legambiente che
l’Arpa Toscana, l’agenzia per la protezione ambientale, vi proclama il divieto
di balneazione: batteri di Enterichia Coli tre volte in eccesso sul limite tollerabile.
Bandiere blu, cioè da evitare?
Due
anni fa Cassano e Balotelli erano i pilastri della Nazionale. Un anno fa non li
voleva nessuno. E tuttora nessuno li vuole, anche se costano poco.
Fine '800 dal buco della serratura
Curiosa ripubblicazione, di un racconto
ormai svaporato nell’erotismo (una ex prostituta guarda dal buco della
serratura), che è il suo soggetto, e nel realismo che è il suo stile, tra
Flaubert e Zola. Un testo classico di Fine Secolo, fine Ottocento – in cui la
donna è “orizzontale”, e anche la storia, più o meno. Ma in questo senso sì,
qualcosa da dire ce l’ha: non c’è un Fine Secolo Novecento, il Novecento è
svanito vergognoso.
Octave Mirbeau, Diario di una cameriera, Elliot, pp. 288 € 17.50
domenica 19 luglio 2015
Secondi pensieri - 224
zeulig
Corpo
– Nella
“Lettera sull’umanismo” l’animalità resta ancora tabù per Heidegger, che pure
tanto l’ha indagata nell’ “Introduzione alla metafisica”, a commento della
“Metamorfosi del Maligno” di Trakl, e nello “Schelling”: “Il corpo dell’uomo è
essenzialmente altro che un organismo animale. L’errore del biologismo non è
sormontato dal fatto che si aggiunga l’anima alla realtà corporale dell’uomo, a
quest’anima lo spirito0, e allo spirito il carattere esistenziale, e che si
proclami più forte che mai l’alto valore dello spirito”. È il corpo dell’anima?
Filosofia
tedesca –
È la sola filosofia, diceva Hegel, aprendo le “Lezioni sulla storia della
filosofia” col discorso inaugurale dell’anno accademico 1821, e come la Bibbia
per la Germania, materia d’elezione. Dopo avere evocato lo “spirito del mondo”,
ed aver ridotto a “pallido fantasma” ciò che si oppone alla serietà e al
bisogno superiore dell’intelligenza prussiana: “Vedremo che negli altri paesi
d’Europa, in cui le scienze e la formazione dell’intelligenza sono state
coltivate con zelo e determinazione, la filosofia, malgrado il nome, è
scomparsa ed è morta fin nel suo ricordo e nell’idea stessa, mentre si è
conservata come specialità nella nazione tedesca. Noi abbiamo ricevuto dalla
natura la missione superiore d’essere i guardiani del fuoco sacro”.
Cominciava l’era dei “primati nazionali”
- quanti non se ne attribuirà l’Italia? – e dele “missioni”. Ma quello di una
facoltà esclusiva (“specialità”, Eigentümlichkeit) del pensiero è solo di
questa filosofia. È vero che Hegel si rifaceva agli Eumolpidi di Atene, che avevano
la guardia dei misteri di Eleusi. E al tempo in cui lo “Spirito dell’Universo
si era riservato alla nazione ebraica”.
Infanzia
–
“Le ore dell’infanzia sono più lente”, diceva Maria Zambrano (nel ricordo di
Alvar Gonzales-Palacios). Forse per questo la memoria ne è più dilatata?
Intercettazione – Se ne
continua, e quasi se ne impone, l’uso come forcipe della verità, e come principe della verità stessa, processuale,
d’opinione e storica. Una forma di accertamento di cui però sono noti i limiti:
la fedeltà, la labilità, l’impossibile ermeneutica – l’impossibilità di rendere
i torni, i tempi, interni ed esterni, l’incertezza (i contesti, territoriali e
temporali, i precedenti, gli usi….). Molto più labile della testimonianza
personale, visiva, orale, e tuttavia se ne pretende l’assoluta affidabilità. Ma
per un bisogno di indiscrezione più che di verità. Che l’intercettazione
effettivamente profonde con larghezza: come guardare dal buco della serratura
ma comodamente assisi, e dalla parte del bene: buon diritto, buona educazione.
Più che altro, è l’intronazione della verità come maleducazione.
È peggio della testimonianza se si parte
dal presupposto – vanificato ma non ancora negato - che
nessuno è chiamato a testimoniare contro
se stesso. Più spesso è usata a fini di parte, politici o affaristici, anche se
in sede giudiziaria. Ma grande è la tentazione di assumerla a forcipe della verità.
Mentre ne è la circonvenzione. A opera
di un qualsiasi trascrittore, un milite, un semplice amanuense, non
necessariamente letterato, o di una partito o fazione, come usa nelle Procure
della repubblica, faziosissime.
Internet
–
È il mondo degli eguali. Ma non persuasivo: l’eguaglianza non è persuasiva?
Opinione
pubblica –
È largamente rapidamente traslata dai media, cioè dall’intermediazione
giornalistica, alla “rete”, al pubblico indistinto di internet – di cui i media
sono finiti succubi: mediano la “rete”, la rilanciano, la imitano. Perdendo
altrettanto rapidamente ogni ambizione a essere giudizio critico e storico. Ma
in favore di un maggiore “contemporaneismo”, valutazione-determinazione
(giudizio) del presente. Senza presupposti o fondamenti conoscitivi o strumentazioni critiche, anzi
apodittico perlopiù, e semplificato. Ma per
ciò stesso influente, attivo nel tempo presente. La comunicazione è
fortemente emotiva. Umorale anche, e quindi variabile. Ma sulla base di certe
costanti, che sono quelle che fanno la
fortuna delle varie forme di comunicazione sintetica in rete, facebook,
twitter, what’s app: pubblicità (l’era riservata si vuole sempre più ristretta),
condivisione, eguaglianza (indifferenza).
Riforma
– È il principio della ragionevolezza: l’adattamento (miglioramento) al
“reale”. La Riforma storica è l’opposto,
e all’origine della volontà di potenza: centocinquant’anni di guerre
devastatrici, come la Grande Guerra di cui fu l’antesignana, nel nome di un
principio, incorruttibile, assoluto. Che avrebbe potuto essere affermato in
altro modo, razionale anch’esso, ma era violento. La Riforma storica avrebbe
potuto prendere il passo d Erasmo, ragionevole e decente – della decency di Orwell. Prese invece quello
di Lutero, altrettanto appassionato ma violento, dell’intransigenza della follia,
per ciò stesso (per essere intransigente) “seria” – delivering, realizzativa, “realista”.
L’epoca
contemporanea, che si vuole riformista, non si muove nell’alveo della riforma
ma della violenza. Della riforma impositiva, nel nome di principi quasi ovunque
bacati: di parte, di privilegi, di (a costo di) distruzioni.
zeulig@antiit.eu
La Resistenza di tutti
“Storie di ragazzi che scelsero di
resistere” è il sottotitolo. Ma rivissute ai novant’anni: Rovelli è andato a
cercare i superstiti, per un’ultima testimonianza, a uso dei ragazzi di oggi, e
degli archivi orali.
Lo “scrittore e musicista” massese,
animatore del festival annuale del 25 aprile a Fosdinovo in Lunigiana, “Fino al
cuore della rivolta”, prosegue l’opera
dei quasi omonimi piemontesi Nuto e Marco Revelli, facendo raccontare agli ultimi
partigiani in prima persona la loro storia personale. Cercandoli nei loro
ambienti, in val d’Ossola (in memoria dei 40 giorni della Repubblica
dell’Ossola, con la prima donna ministro della storia d’Italia, Gisella
Floreanini), a Milano, a Reggio Emilia e nella Padania, in Liguria, in
Lunigiana. Gente comune, operai, contrabbandieri (Franco Sgrena, padre di
Giuliana, e altri), contadini, una neuropsichiatra, insegnanti, donne
faticatrici e intrepide. Alcuni avevano letto Jack London, “Il tallone d ferro”.
Qualcuno Steinbeck, “Furore”. Ma i più hanno fatto la Resistenza come veniva,
per amicizia, per sfida, anche per caso.
Il primo racconto forse “unitario” della
Resistenza stessa: ci fu il 25 luglio e tutti cominciarono a parlare
liberamente, e poi ci fu l’occupazione tedesca. Memorie “involontarie”, non
costruite, non politiche, di ragazzi allora “tra i 14 e i 23 anni”. A fini
soprattutto pedagogici: “Ho insegnato per qualche anno a Milano, e in molte
classi chiedevo che cos’era il 25 aprile. Ebbene, più d’una volta è accaduto
che nessuno, in un’intersa classe, sapesse rispondere. Perfino a Sesto San
Giovanni è accaduto, città medaglia d’oro dela Resistenza: nessno”.
L’esito è una narrazione distesa, sempre
in contesto, personale, familiare, locale (la fame, la famiglia numerosa, le
angherie quotidiane, di sbirri e fascisti, l’indolenza anche, il gusto del
segreto…). “Unitaria” e non faziosa - anche se gli intervistati sono tutti
curiosamente “democratici” di oggi, del Pci con qualche cattolico (socialisti,
repubblicani, liberali, militari sono morti prima?) Effetto forse della
polemica revisionista che s’indovina retropensiero e molla di Rovelli.
Sicuramente effetto del tempo. Che alla celebrazione faziosa ha fatto succedere
l’indifferenzza e l’ignoranza.
Marco Rovelli, Eravamo come voi, Laterza, pp. 257 € 20
Il mercato del debito
Lungamente
sottaciuto, il nuovo ciclo del debito avviato con la crisi bancaria del 2007 è ora,
almeno in parte, “materia di mercato”. McKinsey ne ha fatto la statistica e la
pubblicizza.
In
primo piano viene l’indebitamento pubblico.McKinsey lo calcola in crescita ogni
anno dal 2007 di un inusitato 9,3 per cento – quasi il doppio dell’incremento
dell’indebitamento privato e per investimenti. Quasi tutto devoluto al
salvataggio delle banche, poco alle politiche espansive dei governi. Per un
ammontare totale ora valutato in 58 mila miliardi, lo stesso del pil mondiale –
il mondo sarebbe fuori dell’euro, il suo debito pubblico eccedendo d un 40 per
cento il massimo tollerabile sancito a Maastricht, il 60 per cento del pil..
Sommandovi
il debito privato - per investimenti e delle famiglie (per consumi) - il
“debito del mondo” è calcolato in 199 mila miliardi, con tassi d’incremento
medi di poco superiori al 5 per cento annuo.
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