“Caratteriale”,
“combattivo”, “radioso”, “fanatico” e “fanatismo” per entusiasta e entusiasmo,
essere “tedesco” o “nordico”, contro il “razzialmente inferiore”, la “guerra
giudaica”, “il sistema” (la repubblica di Weimar – oggi sarebbe “la casta”), il
“materiale umano”, e “cieco”, “ciecamente”, “messa al passo”, “montare”, “credere”,
“settembrizzare”, “assalto”, “grande”, “storico”, l’esclamativo, il superlativo delle cifre, le sigle, SS, SA,
HJ, le prime schiacciate per imitare il fulmine, il segnale di scariche
elettriche: il nazismo parlava una sua lingua, semplice. Piena di bugie
naturalmente, in pace e in guerra – Dresda “risparmiata” dai bombardamenti
perché i nemici volevano farne la capitale della Cecoslovacchia, fino al fatale
13 febbraio 1945. Ma non ci fu l’invenzione di una lingua nazista: “Il Terzo
Reich non ha forgiato, di suo, che un piccolissimo numero di parole della sua
lingua, e forse anche verosimilmente nessuna. La lingua nazista rinvia molto ad
apporti stranieri, e per il resto si rifà al tedesco prima di Hitler. Ma cambia
il valore delle parole con la loro frequenza”. Come dire: il nazismo è tra noi,
con noi. Non il diavolo che si esorcizza.
“Stranieri”
sta per il fascismo mussoliniano e per il comunismo sovietico: nuove per questo in tedesco e
ricorrenti furono la “cellula d’impresa” e la “spedizione punitiva”. Ma
Klemperer non è Nolte, non collega le dittature - non scusa Hitler col dire che
c’erano prima Mussolini e Lenin o Stalin. Molto influiva l’espressionismo,
bellico e postbellico, che Klemperer fa figlio del futurismo, della invadenza di Marinetti. Con un insospettato lato “provvidenziale” nella storia
di Hitler: “la Provvidenza ci guida” ricorreva in “quasi ogni discorso, quasi
ogni appello”. Una “storia provvidenziale” del buon austriaco Hitler, ma più
protestante che cattolica: il cerimoniale nazista prevedeva l’“Azione di
grazia olandese”, un inno del 1626, della rivolta contro la Spagna. Tutto,
soprattutto, è völkisch. Che sarebbe
“popolare”, ma è molto di più: il concetto nazista di völkisch è la barriera che si erige tra “ariani” e “semiti” - gli
studiosi di Heidegger, così pieno di Volk,
non potevano avere dubbi (la cosa è stata peraltro ampiamente spiegata anche da
Faye, “Langages totalitaires”, 1974, e “Le langage meurtrier”, 1996).
Con molto
nazismo surrettizio, discutibile. Per esempio nelle “Memorie di una socialista”
di Lyly Braun, 1911. Nel linguaggio degli stessi ebrei durante la persecuzione,
orale e critto, in opere anche di autori considerati. E nei “materiali” che
Herzl, il padre del sionismo, avrebbe seminato e Hitler ingigantito. La voglia
disperata degli ebrei tedeschi di essere tedeschi è fra i capitoli centrali più
densi. Ma uno di essi non era Klemperer. Che imputa a Herzl, in lunghe pagine, di
avere dato tanto al nazismo col sionismo, fino a “infettarne”, sic, la
Germania, dall’Austria dove il sionismo era divenuto dominante e Hitler lo aveva mediato. Non per cattiveria, per
la comune radice romantica, del sionismo e del nazismo - “non soltanto il
romanticismo kitsch ma anche quello vero”. Ma poi ce l'ha anche contro Buber, in teoria per il suo misticismo, di fatto per la scelta di Israele. Un’opera d’autore, più che un repertorio di filologo, disperata: di uno che vuole
essere tedesco contro venti e tempeste. La “maledizione del superlativo” non è importata dalla “influeza italo-spagnola” del Seicento, per sé ignota alla proba lingua tedesca - “Il superlativo maligno della LTI è per la Germania un fenomeno senza precedenti”?
Sapevamo
I meriti,
però, sono eccedenti. Leggendo questo diario, non c’è revisionismo possibile.
Le cose – i lager, le “spedizioni
punitive”, le bastonature, le persecuzioni, radicalissime e costanti, ogni
giorno, ogni ora, contro gli ebrei - erano dette e note dal primo momento. Non
ha senso nemmeno il “non sapevano” dei più, della Germania nata e crescita
negli anni di Hitler: erano storia quotidiana, e nota a tutti, fanatici e
oppositori.
La
“Lingua Tertii Imperii” nasce da un diario segreto, che il filologo Klemperer
tenne per i dodici anni di Hitler. Come un bilanciere da equilibrista, dice,
che lo salva sulla corda sospesa sul’abisso. La disanima che fa a regime finito
è senza animosità. Eccetto che per i colleghi: nessuno gli venne in aiuto,
nemmeno per una conversazione. La “colpa” non è – era - dei campi di sterminio:
c’era stata, lungo un lunghissimo dodicennio, la privazione, del lavoro, poi
della casa, poi degli amici, infine delle conoscenze. Delle relazioni umane in
genere, perfino delle letture, con la proibizione dell’accesso alle
biblioteche.
“LTI” è
un saggio e non il diario. Il diario è stato redatto per la pubblicazione a
guerra finita, nel 1945, ex post. Ma fatti ed eventi, oltre che impressioni e
giudizi, sono incontestabili, e sono – erano - noti a tutti, esercizio
quotidiano, a partire dal 1932. Gli ebrei, pur tedescofili, si trascinavano tra
gli “ariani” con la stella gialla, ogni giorno erano deprivati di qualcosa, i
non deportabili, per vari motivi,.erano confinati nelle Judenhaus, i Cpt
dell’epoca, nessuno li poteva frequentare, e alla fine nemmeno parlargli.
Mentre la guerra fu sempre giusta, di difesa, e anche messianica, l’Europa
doveva essere germanica per scelta divina.
L’inizio
è sintomatico, col fascino che emana il passo dell’oca, il tamburo che batte il
passo, la marcia celebrativa della battaglia dello Skagerrak, che l’8 giugno
1932 toglie al professor Klemperer, con la sua forza paurosa nelle immagini
tonanti del cinegiornale che precede il film, il piacere della visione
dell’“Angelo blu”. Tanto più che per Klemperer il Tamburo maggiore, o Tamburino
che sia, è Hitler, come lo stesso futuro führer
si voleva al processo nel 1923 per il putsch della birreria: “Non è per
modestia che volevo diventare tamburino, è ciò che c’è di più nobile, il resto
sono bagattelle”.
La LTI invece
è “povera e monotona” nell’analisi che Klemperer premette, “come se avesse
fatto voto di povertà”. Modellata sul “Mein Kampf”, 1925. Con tratti del
linguaggio militare (cioè di caserma?), che poi sempre più corromperà. Ma
invasiva: ricorrente nel “Mito del XXmo secolo” come nell’“Almanacco del
commerciante”, e in bocca anche all’operaio, all’oppositore, e agli stessi
ebrei che disprezzava.
Il diario
è di un sopravvissuto, sotto minaccia quotidiana per molti anni. Un figlio di
rabbino, allontanato dall’insegnamento nel 1935, e poi sempre più ristretto,
fino al lavoro obbligatorio in fabbrica, ma non deportato, per via della moglie
“ariana”. Una coppia non qualsiasi: lui è un “ebreo non ebreo” (Isaac Deutscher),
che si battezzerà senza problemi al matrimonio, entrambi filologi romanzi, lui
specialista di letteratura francese e italiana. Da ultimo Victor e la moglie
sopravvivono da sfollati in Lusazia, protetti dalla comunità sorabe, serbi
del’alta Sprea, o wendes, protetti a loro volta dal territorio acquitrinoso, e
storicamente dalla Boemia. E il giorno in cui lui infine, contro la legge,
viene convocato per la deportazione, il 13 febbraio 1945 (a guerra perduta si
facevano ancora deportazioni, la burocrazia germanica è inflessibile) sarà concluso dal bombardamento che distrusse
Dresda. Ma il filologo vuole capire e non combattere
Tedeschi
di Dresda, i filologi Klemperer si ritroveranno comunisti alla divisione della
Germania e si adatteranno, l’importante per loro è tornare all’università e
riprendere gli studi. A Natale del 1946 Victor, cugino del più famoso direttore
d’orchestra, è in grado di licenziare questo LTI (il diario sarà pubblicato per
intero solo nel 1995). La Germania Est non era già più vetrina di libertà, e la
“Lingua Tertii Imperii” avrà vista grama, con distribuzione ridotta – ma
assommerà pur sempre dodici edizioni, prima della riunificazione della Germania
e del rilancio editoriale.
Victor
Klemperer, LTI, la lingua del III Reich. Diario di un filologo, Giuntina, pp.
355 € 20