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sabato 19 settembre 2015

Ombre - 284

Un programma americano per creare una forza armata siriana anti-Is, rivela il “New Yorker “, forte di quindicimila uomini in tre anni, al costo di cinque milioni di dollari, ne ha già speso un milione  per raggruppare pochi combattenti. “Parliamo di quattro o cinque”, ha comunicato al Congresso il comandante delle operazioni militari Usa in Medio Oriente, gen. Lloyd J. Austin III. Sembra na barzelletta.

 Sessanta donne su cento che tentano di emigrare dal Sud e Centro America negli Usa via Messico sono violentate nella traversata, secondo Amnesty International. Se anche fossero sei, che mondo è questo? Le donne partono avendo preso un  anticoncezionale che dura tre mesi.
Si fanno piani per tutto, ma uno per le emigrazioni è impossibile.

Almeno ventimila desaparecidos sono stati contati nella traversata del Messico, su 400 mila migranti dal Centro e Sud America, nel 2014. I trafficanti intascano il “biglietto”, fino a 10 mila dollari, e si disfano del carico. Un business secondo in Messico solo al traffico di droga. Senza scandalo.

Nei dieci giorni che hanno seguito l’annuncio di Merkel, “venite, porte aperte”, il flusso dei gommoni dalla Libia si è arrestato: la rotta balcanica era più ricca. Poi la Germania ha chiuso la frontiera e i viaggi transmediterranei hanno ripreso immediatamente. Oltre 4 mila salvataggi in poche ore.

Lele mora si comprava il televoto all’Isola dei famosi – quando ancora era Lele Mora. Scandalo. Perché, il televoto non si compra, organizzando i call center, in tutti i festival e i “Saranno famosi”?

“Solo nel 2014 sono stai più di un centinaio gli anziani trovati morti in casa, la metà circa dai pompieri, deceduti da mesi”, solo a Roma – Rinaldo Frignani ricostruisce la statistica sul “Corriere della sera-Roma”. Nella disattenzione dei vicini, malgrado gli odori, oltre che dei conoscenti, medici di base, assistenti sociali. Ma è l’Italia del buon cuore.

Il giornale radio apre la mattina alle otto con una “mega-operazione anti prostituzione nelle province di Brindisi e Lecce” (Taranto?). Tra i denunciati, annuncia il Capo della Squadra Mobile (Anti-racket?), c’è “addirittura un professore universitario ordinario”. Addirittura. Ordinario. Il giro d’affari è valutabile in 150 mila euro. Addirittura. Magari all’anno. Il motore dell’Italia è ancora l’invidia sociale.

Un giovane su due, fra i 25 e i 34 anni,il 47 per cento, vive coi genitori. Questa sì che è una notizia. A fronte di un 11 per cento in Francia. La questione non è latina.

“Proroga sul rientro dei capitali. Atteso un gettito tra 1 e 5 miliardi”. Cioè non si sa quanti capitali sono in fuga e quanti torneranno: sui capitali all’estero si fa solo demagogia.

Il dg della Juventus Marotta, che ha sbagliato la campagna acquisti e cessioni e perde tutte le partite, rimprovera la squadra: “Niente alibi per la squadra. I problemi erano in preventivo, quando si inseriscono 9-10 elementi nuovi”. Infatti l’Inter, che ne ha inseriti una ventina, vince sempre.
Questo Marotta è uno che pensava di rafforzarsi senza Pirlo e Vidal, mezza squadra, e senza Tevez, l’altra mezza. La colpa è sempre degli altri.

Angela Mekel, dopo avere aperto le frontiere a tutti gli immigrati, le ha chiuse. E ha ragione anche ora: aveva ragione quando rimproverava l’Italia di non fare abbastanza per tenere lontani gli immigrati, ha avuto ragione quando ne ha accolti alcuni con fiori e bambole, e ha ragione ora. L’imperialismo è sempre persuasivo.

Merkel chiude la frontiera con l’Austria ma in realtà con l’Italia – anche con l’Ungheria, ma più con l’Itala. Ma questo non si dice, la chiusura è all’insegna dell’ordine.  

Sono pieni i giornali della riforma del Senato, di cui a nessuno interessa nulla e nessuno capisce nulla. Che sarà decisa da parlamentari che al 99 per cento non sarebbero rieletti, gli ex berlusconiani di Alfano, Fitto, Verdini. Poi dice che la fiducia nella politica si è persa.

Irruzione di Femen al congresso islamico a Parigi dedicato alle donne, relatori solo uomini. Ma niente foto di tette la vento questa volta, come invece ai congressi di Putin. Erano col burqa?

“E se a scuola si studiasse?” Sembra una domanda pleonastica, ma il libro di Paola Mastrocola che la scuola vorrebbe luogo di studio è presentato come “una provocazione”.

Borges senza sorprese in sogno

Il sogno di Borges è il paradiso dell’anima di Addison, che “si trasferisce in diecimila scene di sua immaginazione". Un paradiso di sua creazione, dell’anima stessa. Borges ne organizza un repertorio, dei suoi propri racconti di sogni, inventandone per l’occasione di nuovi (minori), e dei sogni nelle letterature. Una sorta di storia della letteratura dei sogni, da Gilgamesh e il cinese “Sogno della camera rossa” a Papini, che Borges molto apprezzava.
Ritorna il sogno, si può dire, come uno dei tanti sintomi della insoddisfazione del millennio. Questa è la vecchia raccolta organizzata nel 1986 per Franco Maria Ricci, la Biblioteca di Babele, dallo stesso Borges, curatore della collana, con Gianni Guadalupi, già a lungo negli Oscar, nella traduzione di Tilde Riva, qui rivista da Tommaso Scarano. Un repertorio immaginifico, trent’anni fa, ora manieristico – rileggere Borges riserverà sorprese?
Jorge Luis Borges, Libro di sogni, Adelphi, pp. 336 € 15

venerdì 18 settembre 2015

Secondi pensieri - 231

zeulig

Abitudine – Rallenta il tempo. La ripetizione periodica, costante, degli atti è una scansione del tempo che lo desensibilizza. Il rituale è scontato, l’effetto  inavvedutamente pacificatore – pacificatore perché scontato, di routine, sembra un controsenso. La ripetizione annoia, ma corrobora.

Lontananza – È spesso la forma più viva di vicinanza, nell’affetto e nel rifiuto: Nel pensiero e l’immaginazione, esenti dall’ordinario e l’obbligato. Dal reale anche: il distacco fisico fluidifica i contorni e anche gli esseri, le cose. Li addolcisce o li irrigidisce, ma in definitiva LI alterizza – NW approssima meglio la realtà, la reale consistenza.

Memoria – Il piatto rotto non si ricompone. Ma ciò che si è vissuto non si cancella, buono o cattivo. Come pure ciò che dobbiamo e vogliamo vivere – la trascurata speranza:  il futuro, le attese che a ogni istante si rinnovano. Jankélévitch, “L’irreversibile e la nostalgia” (in “Nostalgia. Storia di un sentimento”, a cura di A. Prete) ne fa un viatico d’immortalità: “Colui che è stato non può ormai non esserci stato; questo fatto misterioso e profondamente oscuro d’aver vissuto è il suo viatico per l’eternità”.

Nostalgia – È di qualcosa che manca, ma anche di irraggiungibile, come di una memoria immemoriale. Uno stato d’animo, un evento, un essere.
È una forma del desiderio, in aspetto di già noto – di Sisifo e Tantalo.

Perdono – Presuppone una superiorità morale, in atto o potenziale, sia darlo che chiederlo. Perdonano Dio, il Re, lo Stato, non si perdonano i non notabili. È – era – esercizio sacerdotale per il sacramento della confessione, che fa del confessore il ministrante del perdono divino. Ma si trasforma agevolmente nella quotidianeità. Dove può assumere un connotato negativo: equalizzatore, eliminando la colpa, delle diverse posizioni (valori) morali.
È di fatto un dato storico recente, europeo. Chiedere perdono per la propria storia, l’impero romano, le persecuzioni, l’inquisizione, le crociate, la colonizzazione, la tratta dei negri, gli imperi, le guerre, questo si fa solo in Europa. Perché l’Europa si vuole coscienza critica, per prima di se stessa. Ma senza altre coscienze critiche: l’assunto è sempre che siamo i migliori, superiori moralmente.

Sovranità – È in crisi in Europa per l’emergere della sovranità europea interstatuale, peraltro non  definita e quindi risentita più spesso come ingerenza (questioni del debito e dell’indebitamento, dell’accoglienza umanitaria, dell’immigrazione, della libera circolazione). È in crisi nel mondo globale per l’emergere di un “diritto di intervento”, a fini civili e\o umanitari, peraltro anch’esso non definito. È di fatto subordinata alle egemonie, non dichiarata me effettuali, della Germania nell’Unione Europea, degli Usa nelle relazioni internazionali.

Tempo – Jünger lo moltiplicava centellinandolo davanti alla clessidra, anche nell’inerzia, nel fluire costante degli istanti. Istanti passati, davanti alla clessidra, ma non perduti. Nel senso di uno sgranocchiamento, come sgranare il rosario, non di una corsa, anzi dell’immobilità contro il movimento, lo stesso trapasso del tempo. Il tempo in sé non dà il senso di essere perduto – di potersi perdere. Se non in un arco temporale, e in rapporto a un‘esperienza.
La fuga nel tempo, la dilatazione del tempo, che non possono essere reali, fisici, sono sensazioni diffuse e operanti.

Viaggio – È la trasposizione del tempo nelo spazio. Anche in senso proprio, per le variazioni di fuso e di stagione. Dà anche un (senso di) anticipazione, di accelerazione del tempo, o di rallentamento, per il semplice spostamento spaziale, specie ora, con le elevate velocità degli aerei.  Sarà in questa sensazione (illusione) l’origine della moderna dromomania, che non è più quella del nomadismo (non solo quella, dell’irrequietezza): l’illusione di accelerare il tempo, e di moltiplicarlo – suddividerlo, sfaccettarlo, organizzarlo.

zeulig@antiit.eu

Parlare male di Roma

Tutto quello che sapevate su Roma era stato detto, un secolo e passa fa. Dall’ambrosiano Carlo Dossi, che fu espatriato alla Farnesina, le cui voluminose “Note azzurre” Dell’Arti rilegge a questo semplice uso. Con un sensibile secondo livello, di ironia sull’ironico ma affaccendatissimo Dossi, come a dire la casta, rimborsopoli e mafia capitale degli eterni ritorni.  
Tutto il peggio di Roma era detto di Roma subito dopo Porta Pia. Per essere papalina, per non essere Parigi, per lo scirocco. Ma dai romani per primi. Allora come ora. Questo è il fondo non detto delle “Note azzurre”, che la fa spesso astiose più che divertite.
E poi c’è un fatto. Che Roma resta la città meglio amministrata in Italia, nella sanità, l’istruzione, la nettezza urbana, internet, e perfino nei trasporti. Fra le città metropoli, a fronte di Milano cioè – Napoli è fuori concorso. Allora probabilmente anche meglio di oggi.
Carlo Dossi, Corruzioni. Le “Note azzurre” manipolate da Giorgio Dell’Arti, Clichy, pp. 180 € 12,90

giovedì 17 settembre 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (258)

Giuseppe Leuzzi

Il porto di Gioia Tauro fa vent’anni. Nessun celebrazione anche se è la maggiore realtà industriale in Calabria e una delle maggiori al Sud. Giusto qualche cronaca di cocaina scoperta nei container – scoperte che sì immaginano a onore dello scalo ma vengono fatte pesare contro. Ha 1.300 dipendenti e fattura circa un miliardo, tra servizi propri e quelli in outsourcing nell’imprenditoria locale. È la realtà più invisa alla stampa nazionale, e anche a molti calabresi. Poi si dice che l’odio-di-sé non c’è.

Solo dodici deputati si sono trovati, su 630, per assistere, tra gli sbadigli, al dibattito in calendario alla Camera sul Sud.  Non era nemmeno di venerdì – la Camera fa week-end lungo, a mezzogiorno di venerdì si spopola.

Maurizio Ferrera lamenta sul “Corriere della sera” che uno studente meridionale su quattro sceglie l’università al Nord. Perché, è un male?
E non era peggio trenta o venti anni fa, quando due su quattro, se non tre, dovevano andare al Nord? Questo Sud è senza respiro.

Mirko Felice Eros Turco,  35 anni ,di Gela, 17 anni di processi e undici di ergastolo, era innocente. Era stato condannato perché accusato da sette pentiti. E  questo era bastato: non si dovrebbe condannare in assenza di riscontri, ma pazienza. Nel 2008 gli assassini veri si sono autoaccusati. Ma ci sono voluti altri sette anni per avere l’assoluzione e la liberazione di Turco.

Il Salento Giuseppe Berto trovava sessant’anni fa “una regione monotona, senza montagne né fiumi né boschi, (che) l’estate inesorabilmente brucia…. Un regione poco propria al turismo, dunque?” Che è ora da un decennio la regione più prospera del Sud e una delle più prospere d’Italia, di seconde case restaurate, molto appetite e ben pagate da mezza Europa, e anche dall’Asia, di spiagge rinomate, di cultura, di musica, di industria compatibile, di vini e olivi, di storia, di arte. I vuoti si possono colmare.

Aspromonte
Una bella foto di una bella tela del pittore naturalista francese Théodore Rousseau, primo Ottocento, “Groupe de Chênes à Apremont”, è presentato da Franco Mosino, filologo classico, su “Calabria Sconosciuta” come “La quercia d’Aspromonte”. Con tanto di pedigree da attribuzionista esperto: “Essa presenta i Piani di Aspromonte… Ed è sicuro che il pittore, per ritrarre dal vero quel paesaggio, venne in Calabria, forse sospinto dalla Canzone di Aspromonte, canzone epica del Medioevo”. Th. Rousseau, pittore ottimo e uomo di buon carattere, non era versato nelle letture. E la quercia non cresce ai Piani di Aspromonte, altopiano dell’Aspromonte occidentale tra i 1000 e i 1.200 metri – anche se potrebbe. La Francia ha alcuni Apremont e Aspremont, e quello di Rousseau è tra le gole della Savoia. Mosino è studioso oculato, solitamente. È anche inventivo: è lo scopritore del vero autore dell’“Odissea”, poema del “mare d’Occidente ignoto ai greci d’Asia”, che si dovrebbe chiamare Appa, giusto l’acrostico da lui individuato tra i primi versi della narrazione, e potrebbe essere stato reggino, per motivi che non staremo a spiegare (Mosino ci ha scritto sopra cinque volumi, con i quali si è candidato al Nobel). Ma è vero che anche chi la abita non conosce la Montagna.

Giovanni Sole arrabbiato ricorda in “L’invenzione del calabrese” l’Accademia Cosentina, “l’istituto culturale più importante della regione”, tra Sei e Settecento. Impegnato nel 1724 a produrre sonetti e stanze “in memoria della contessa Anna Maria d’Althann”. Della quale non dice nulla, mentre era la madre del cardinale Michael Frederich von Althann, che in quegli stessi anni era viceré a Napoli, e si ricorda come uno dei più ambiziosi, se non illuminati. La contessa fu celebrata anche da Vico. Nonché da Metastasio, che aveva dedicato al cardinale il suo primo melodramma.
Non si dice anche che la contessa era nata Aspermont. Della nobile famiglia svizzera che traeva titolo dalla signoria sul Vecchio e Nuovo Aspermont, il primo vicino Trimmis e il secondo sopra Jenins nel distretto vescovile di Coira. Una gentildonna svizzera dunque – il cui nome gentilizio era stato nei secoli raddoppiato in Rhomberg (un Rhomberg creerà nel Texas nel 1889 il villaggio Aspermont).
Un’altra Marianna d’Althann, una Pignatelli nobildonna spagnola, nata a Alcùdia, vedova di suo figlio Michele Venceslao Althmann, aveva da sposata, e manterrà tutta la vita, una relazione con Metastasio, che nel 1721 le aveva già dedicato l’“Endimione” – un anno prima dunque della dedica al Michele cardinale della ”Didone abbandonata”. “In vita della contessa Marianna, Pietro Trapassi detto Metastasio compose i melodrammi più riusciti”, informa la bio su wikipedia: “Dopo la morte della contessa, iniziò la fase calante della produzione metastasiana”.

Verlaine, “Sagesse”, I, 5: “Qualcosa di puro permane sulla montagna, qualcosa del cuore infantile e sottile”. Prosa che incantava Dino Campana, un  altro che stava bene solo in montagna (al mare impazziva, letteralmente), in una delle lettere a Astrid Ahnfelt, 16 ottobre 1916: “Perché, cos’è veramente che ci accompagna, e quando la morte verrà che ne resta?”.

Del suo paese in montagna Corrado Alvaro ricorda “il colore delle ore” e “il sapore dell’acqua” (“L’’uomo nel labirinto”). Oggetto, l’acqua, di una cerimonia quotidiana. “Quello è il padre che dà da bere ai figli prima che si mettano letto”, nota di un padre al balcone di sera con i figli. E aggiunge: “Anche mio padre lo faceva. Noi eravamo cinque. Ci chiamava sul davanzale, beveva lui per primo nell’orcio, poi lo passava a noi, uno per uno. Uno per uno bevevamo. Nel chiarore della sera, prima di chiudere gli occhi nell’atto di bere, scorgevamo i nostri occhi riflessi nell’acqua, l’orcio, sotto il respiro interrotto, risuonava come una conchiglia marina e il fiume pareva che gridasse più forte ai piedi del paese. Ritiravamo la bocca col sospiro mozzato di chi sia stato per affogare”. Il culto dell’acqua persiste sulla “Montagna”, come è d’uso riferirsi all’Aspromonte, in tutti i suoi versanti.
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C’è da Antonio B. in Montagna, nell’orizzonte aperto dell’altopiano, un biancospino. Amato, curato, che non fa mai mancare l’ombra e la brezza lieve. Sotto le cui fronde si sta con Orazio, che spesso vi si rifà. Riposare sotto l’albero, ricevere gli amici, bere un bicchiere, è “la profondità del piacere semplice”,  della “voluttà discreta”, e rileva dell’“immediatezza” del piacere. (Orazio, “Odi”, I, 1, v.21. III, 22).
È anche lo spirito dell’altopiano. Mosino ha in fondo ragione, i piani d’Aspromonte, che sul versante occidentale ne abbonda, piani di Carmelia, piani di Melia, piani d’Aspromonte propriamente detti, piani della Corona, avrebbero potuto ispirare Th. Rousseau. Maurice Barrès mezzo secolo dopo ci ha scritto su un intero libro, “La Colline inspirée”, per esaltare lo spirito dell’altopiano – luogo “che tira l’anima fuori dalla letargia”. È il luogo in cui la terra si accosta al cielo, una ierogamia fisica e una teofania, per effetto degli stessi astri che vi si manifestano lucenti e come puri.  Senza effetti speciali o spettacolari, di una solidità peraltro senza iattanza, che conforta senza pretenderlo. È l’immediatezza della serenità. La Grecia classica se ne esaltava: dappertutto dove ne individuava uno a portata di basto vi erigeva un tempio.

La Fata Morgana sopra l’aeroporto
Scendendo lungo il Tirreno verso Lamezia al’altezza dell’aeroporto internazionale una catena montagnosa si accosta dal mare, via via più vicina man mano che si procede sull’autostrada, dettagliata, anche dapprima bassa, incrostata di case, poi aspra di burroni, che si riconoscono per i Peloritani, i monti sopra Messina. L’autostrada corre lungo il mare, ma il mare più non si vede, chiuso dall’apparizione. Alla stazione di servizio i Peloritani sembrano sempre incombenti, con un che ora di remoto, ma sembra di leggere perfino le scritte sui muri. Il banconista, interpellato dopo un’esitazione, non ne sa niente – è conciliante; “Qui siamo a Lamezia, da quella parte c’è l’aeroporto, è tutto pianeggiante”. Uscendo, in effetti, l’orizzonte è sgombro. In lontananza c’è il monte Poro, sopra Tropea e il Capo Vaticano – il vecchio Promontorium Taurianum. Ci consoliamo dalla sorpresa ipotizzando un effetto di luce, o di diverso orientamento per un breve tratto dell’autostrada, che il Capo Vaticano potrebbe avere riportato al Nord. E invece no, è la Fata Morgana.
Widmann, un viaggiatore svizzero, ha registrato la stessa esperienza in “Calabria 1903”, p. 34: “Mentre il treno continuava la sua corsa, scorsi al’improvviso delle montagne in mezzo al mare. Non poteva trattarsi della costa siciliana, come potevo vedere dalla carta geografica e, d’altra parte, le montagne erano troppo grandi e tropo alte per  essere le isole Lipari. Un viaggiatore mi informò gentilmente che si trattava di un miraggio, un caso di Fata Morgana, molto frequente su questa costa”. Un miraggio in Calabria non fa storia?
Widmann non trova necessario spiegare, nel 1903, cosa si intende per Fata Morgana. Oggi è necessario: “Una forma complessa e insolita di miraggio”, la dice l’enciclopedia, “che si può scorgere all’interno di una stretta fascia al di sopra dell’orizzonte”. Il nome è italiano perché il fenomeno si osserva nello Stretto di Messina – ed è stato magnificato dai Normanni nell’epopea della loro conquista. “Esso fa riferimento”, continua wikipedia, “alla fata Morgana della mitologia celtica, che induceva nei marinai visioni di fantastici castelli in aria o in terra per attirarli e quindi condurli a morte”.
Giuseppe Berto, che scelse il Capo Vaticano per vivere, non se ne meraviglia – in un testo ora raccolto in “Il mare da dove nascono i miti”: ”È un semplice fenomeno di rifrazioni atmosferiche”. Semplice, cioè banale? La costruzione e il dissolvimento di un mondo, in un apparire e sparire. Non è un mito, è un fatto. Ma semplice?

Il Sud è un signorotto
Il Sud si rivelava a Berto a Terracina: “La rivelazione del Sud è improvvisa e totale soltanto dopo che a Terracina ci si affaccia sul Golfo di Gaeta”. Il Sud è il mare. Il mare riporta ordine e armonia in quel paesaggio del Sud “fatto di violenza e di contrasti”.
Il Sud Berto ipostatizzava anche in un uomo seduto sui gradini del monumento ai Caduti di un qualsiasi paese calabrese il giorno in cui il cinema dava un film di Frank Caora e l’altoparlante lo propagandava in piazza: “Era lui il Sud. Lui aveva assorbito in una unica atmosfera chiusa, opprimente, ostinata, le varie civiltà con cui era venuto a contatto. Anche l’ultima, quella dei cinematografi e delle insegne al neon e delle calze nylon”. Che non vuole dire nulla, e non lo dice, se non in modo raffazzonato. Ma sì qualcosa di urtante.
È il secondo articolo che Berto scrive sul Sud, intitolato proprio “Il Sud”, per “Il tempo” nel 1948 (ora in “Il mare dove nascono i miti”). Ma il nodo Berto lo ha subito fiutato. Prosegue infatti: “Qui il medioevo deve ancora passare. Perfino i figli del popolo che si elevano con le professioni o con i commerci hanno l’ambizione di diventare dei signorotti. Esattamente come l’emigrante che torna dopo essere stato vent’anni a New York o a Chicago, e che con i dollari risparmiati si costruisce una casa magari senza impianti igienici, ma con un balcone sulla via principale…”

leuzzi@antiit.eu

Nostalgia della sovranità

Un ritorno? No, una celebrazione, con molta nostalgia. De Giovanni, che è stato parlamentare europeo, sa che la sovranità oggi latita, stretta in Europa tra le istituzioni sovranazionali e il regionalismo. Tra due realtà politiche che della cancellazione della sovranità hanno fatto la loro ragione d’essere. Che è l’origine prima della disillusione e della crisi della politica.
De Giovanni non arriva a questa conclusione – il suo è soprattutto un excursus storico-giuridico sulla creazione e lo sviluppo di alcuni Stati europei. Ci arriva, all’inconsistenza della sovranità, per un’altra via: il “liberalismo dei diritti umani”. Che è anche vero: il liberalismo è fondamentalmente anarchico, antistatuale, e quindi anti-sovranità. Ma quanto c’è di liberale nel “liberalismo dei diritti umani”? Sono nati con Brzezinsky (Carter) per minare l’Unione Sovietica, e si esercitano per giustificare una sorta di “il diritto di intervento”, contrario al diritto internazionale, ammesso che ancora ce ne sia uno. Ecco: sovranità e diritto internazionale andavano di conserva, mentre l’Occidente oggi si distingue per avere affossato il tutto. E non è chi non veda il rischio boomerang.  
Biagio De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica, pp. XIV-334 € 20

mercoledì 16 settembre 2015

Problemi di base - 244

spock

Si possono chiudere le frontiere per umanità?

O bisogna fare l’elemosina?

Bisogna soccorrere i bisognosi – anche senza il papa?

Si può far male per fin di bene? Il medico certamente, e gli altri? I politici? I banchieri? Le guardie

E bene per fin di male?

Si può mentire per umanità – dire per esempio di voler accogliere tutti gli immigrati?

Non chiunque dice il falso mente, dice sant’Agostino, ma si può dire la verità mentendo?


Una menzogna che non nuoce né a sé né agli altri è solo una finzione, la dissimulazione di una verità che non si obbligati a dire. Ma, se al posto di contentarsi di non dire, qualcuno dice il contrario, in quel caso mente o non mente?

spock@antiit.eu

Abbaiano ma non hanno i denti

Come finirà la partita del Senato? Purtroppo nell’unica maniera possibile – l’ultima resistenza è affidata a Grasso, è tutto dire. Finirà senza Senato, se non una camera corporativa delle Regioni, le stesse Regioni la riforma provvedendo a depotenziare, riportandole a mere unità amministrative.
Quelli di sinistra che per questo e altri motivi stavano a disagio nel Pd se ne sono andati. Questa fronda è degli ex Pci. Ed è una sorta di eutanasia, scontato che Renzi li vuole comunque liquidare. Non sanno dove sbattere – fuori del Pd è la certezza della nullità politica - ma questo è un altro problema.
La riforma politica non è tanto del Senato, che comunque è in liquidazione, ma del Pd stesso: non c’è spazio per gli ex Pci, socialisti o socialdemocratici che si pretendano. Molti, già rottamati, ancora non si danno pace. Ma a nessun effetto. Gli altri ancora non rottamati alle elezioni anticipate – saltasse la riforma del Senato - non sarebbero candidati e comunque non sarebbero votati.

Una regione senza storia

Una regione, si legge della Calabria, distrattamente o pure seriamente, violenta, complicata e bella, disperata e appassionata, sfruttata e vera. E nessuno di questi aggettivi è vero – una regione vera? Si capisce che il lavoro per il ricercatore culturale deve’essere arduo.
Cioè: meglio sarebbe riprenderlo dalle radici. Ma questo è già un problema, un altro aspetto del problema. No, il primo problema: dove sono gli studi? E poi non si può partire daccapo: la tradizione, per quanto inventata e opprimente, insiste e deforma qualsiasi sforzo – anche se soltanto in ipotesi.
Sole, studioso di tradizioni popolari, ci prova attaccando proprio questo, il muro dei luoghi comuni. La diffidenza. La malinconia. La collera. L’asocialità. L’ospitalità o la mancanza di ospitalità. Lo snobismo dei poveri - tutti signori, meglio se nobili. E traditori, con Pirro e con Annibale. Giuda era calabrese. Calabresi i boia di Gesù Cristo, quelli che conficcarono i chiodi. In alternativa, calabresi sono tutti quelli dei ricordi di scuola, Oreste, un paio di donne di Ulisse, e fino ai discendenti di Noè dopo il diluvio, a partire da Aschenaz. 
Un campionario interminabile di vanità e pregiudizi, ripetitivi e noiosi, ma di perdurante efficacia, per l’effetto accumulo: moltiplicati, gonfiati, insistiti, particolareggiati per maggiore verità, senza nemmeno preoccuparsi della verosimiglianza. I “caratteri originari” dei popoli sono trattazione impervia: vuole antenne addestrate e sensibili (affinati) utensili di ricerca. Mentre in Calabria si abbandona all’improvvisazione, la retorica, la furbizia. A opera dei viaggiatori e allogeni, e più a opera degli stessi aborigeni - tutto meno che la ricerca, peraltro non faticosa. Di pregiudizi un po’ più fondati altri se ne potrebbero aggiungere che sono sotto gli occhi: l’abusivismo di necessità, il disordine, la sporcizia, la maleducazione, la prepotenza, i debiti (lincapacità di farsi i conti).
Sottotitolo del saggio è “Intellettuali e falsa coscienza”. Una sfida invitante, anche perché rischiosa: Sole ripassa sotto una luce beffarda, insieme con le loro teorie e “invenzioni”, una lunga serie di autori. I viaggiatori dell’Otto e Novecento tende a salvarli, più spesso che non prendendo per buone le loro informazioni, mentre, con non più di un paio di eccezioni, sono essi stessi parte del problema, essendo intellettuali: avulsi, caratteristicamente presuntuosi, e quelli che si avventuravano in Calabria sicuramente con uno o due problemi loro, uomini e donne, giovani e navigati – si andava in Calabria all’avventura, a sfidare gli elementi e anche il destino. Ma la sostanza è l’ignoranza della storia, compresa quella delle mentalità, dei caratteri originari e di ogni altra loro deriva, magari sociologica ma sostenuta, documentata.
La tradizione in Calabria più che un’invenzione è una mancanza – se non per tracce popolari, sparse, contaminate. La tradizione è inventata di un mondo senza storia, e per questo informe, senza personalità – che non può essere, ma sottintende una personalità debole e contestata. Tipica la storia “lombrosiana” del brigantaggio postunitario. Contro cui lo Stato sabaudo impiegò forze straordinarie. Col concorso di laudatores  locali di varia incapacità. Già per quanto concerne i numeri. Si va dal calcolo ufficiale di 5.212 briganti uccisi in combattimento a 700 mila… E lo si fa un fenomeno di neo borbonismo. Mentre la spedizione Borjès, promossa nel 1861 dai Borboni, memori della lunga marcia nel 1799 del cardinale Ruffo di Calabria, non ebbe nessun aiuto dalle popolazioni. Un fenomeno che si voleva terrificante da cui però erano del tutto esenti il reggino e il cosentino tirrenico, due terzi della Calabria. Gli elenchi ufficiali, burocraticamente onesti, contavano poche decine di fuorilegge.
I briganti, relativamente pochi, erano solo malviventi, antesignani della ‘ndrangheta oggi. Con estorsioni, furti, taglieggiamenti, rapimenti di persona, con orecchie e teste mozzate. ‘Ndranghetisti, si puo aggiungere con Sole, erano i briganti anche nei “rapporti con medici, avvocati, giudici e guardie che pagavano profumatamente con i proventi delle grassazioni”. L’unica differenza tra le due criminalità è che fino a tutto l’Ottocento i briganti erano protetti, e anzi comandati, da preti e frati – questa funzione i preti hanno ancora, ma agli ultimi papi e a molti vescovi non piace più. La realtà è difficile districarla sotto la massa di false informazioni. E l’invenzione della tradizione in Calabria questo è, un ammasso di superficialità, anche sciocche. 
Giovanni Sole, L’invenzione del calabrese, Rubbettino, pp. 232 € 15

martedì 15 settembre 2015

Il mondo com'è (230)

astolfo

Astensione – Era raccomandata dalla filosofia antica. Dagli stoici - Seneca ne fa la virtù migliore. Dagli epicurei. Non propriamente quella del voto, di chi si astiene perché in dubbio. Ma in generale: astenersi dal dire, fare, partecipare. La politica contemporanea dei paesi ricchi e liberali, dunque, dove uno su due non vota, si può dire “filosofica”. Ma in sé è il mancato esercizio di un diritto che è anche un dovere. La rinuncia a esso equivale a un atto in certa misura sovversivo. Quando non è - come è stata a lungo, quando non votava uno su quattro - indolenza.
Che segno dare all’astensione? Zero.

Alberi – Il professor Giovanni Sole chiude “L’invenzione del calabrese” con la sorpresa che lo ha colpito al cimitero di Belsito, un paesino vicino Cosenza: “I bellissimi cipressi posti davanti al cimitero erano stati mozzati a mezza altezza”. Il professore si scandalizza, ma “molti paesani, recatisi a commemorare i defunti, mi hanno detto che approvavano il taglio perché non nascondevano più l’entrata, somigliavano a siepi e il cimitero sembrava più pulito”. Di più: “Una donna mi ha confessato che avrebbe volentieri sradicato anche gli altri cipressi: in fondo non erano che piante inutili, malate, maleodoranti e tristi”. Si dice che piantare un albero è un segno duraturo di vita. Ma se ci sono troppi alberi? Molti alpeggi nei parchi nazionali sono stati rimboschiti, con effetti deleteri sul rspporto con la montagna, e per gli stessi boschi. Il rapporto con la natura si vuole bilanciato – l’albero è necessario dove non c’è.

Berlinguer – Ricorda Pansa a Vittorio Zincone su “Sette”, dell’intervista al “Corriere della sera” con cui Berlinguer ripudiava Mosca, nel 1975 o 1976, che lo ha fatto in un’intervista a domande e risposte scritte, il cui testo fu poi rivisto minuziosamente dal segretario del Pci prima della pubblicazione, e fu pubblicato inalterato. Ma ricorda anche: “Eravamo d’accordo che (l’intervista) uscisse contemporaneamente sull’ “Unità” e sul “Corriere”.… Quando presi “l’Unità” in mano feci un balzo. Non c’erano le risposte sulla Nato. Berlinguer aveva pensato bene di farle leggere ai lettori del primo quotidiano della borghesia, ma non a quelli delle sezioni comuniste”.
È a questa carica di bigotto machiavellismo, e cioè proprio a Berlinguer, che si deve la scomparsa repentina del Pci? È possibile. Che non fu per la caduta del Muro: dopo il Muro il Pds-Ds ha raccolto sempre un buon quarto del voto. Con la doppia verità per la borghesia e per le sezioni comuniste era arrivato a un quarto del voto, ma evidentemente non era una base solida di consenso, se ora è il reggicoda del nuovo democristianesimo.

Brigantaggio – Fu il primo caso di “guerra che non c’è stata” di Jean Baudrillard (il sociologo francese la coniò per la Guerra del Golfo, 1991)? Non si pubblicano gli archivi del brigantaggio, della lotta dello Stato italiano post-unità al brigantaggio, e questo è un mistero. Dopo 150 anni. Non che i dati difettino. Ma quelli finora emersi sono contraddittori, non consentono una ricostituzione storica del fenomeno, e in sua assenza  naturalmente la vulgata prevale, quella che accompagnò l’offensiva.
La vulgata vuole un vero esercito di briganti al soldo, lo comunque a beneficio, del Borbone. Mentre la colonna Borjès organizzata dall’ex re Borbone nel 1861 non trovò nessun aiuto in Calabria, e dovette risalire la penisola, prima di finire dispersa. Una stima – accademica! – dà le vittime del brigantaggio, da un lato e dall’altro, in 700 mila…. Mentre la provincia di Reggio in Calabria ne fu esente del tutto, e così l’alto Tirreno cosentino, circa due terzi di tutta la Calabria, la regione che sarebbe stata al centro del brigantaggio. Sono ballerine anche le cifre dei briganti arrestati o uccisi o giustiziati. Un documento militare li cifra in 5.212. Molto meno che i 700 mila, ma sempre troppi per altri resoconti, che invece li cifrano in centinaia, e perfino in diecine.

Carcere preventivo - 24 mila riconoscimenti per ingiusta detenzione dal 1992 a oggi: sono molti, sono pochi? Sono un’enormità. Considerando che almeno altrettanti carcerati ingiustamente, è legittimo presumere, si saranno guardati dall’avviare le procedure per il riconoscimento, felici di essersela cavata. La giustizia s’intende in Italia nel senso della colpevolezza –tutti colpevoli, eccetto  giudici, e i loro confidenti giornalisti.
Il caso di Mirko Felice Eros Turco, di Gela, che su 35 anni di vita ne ha passati la metà in tribunale per un assassinio che non ha commesso, e undici in carcere, condannato all’ergastolo, apre un altro fronte del sistema giudiziario, che pure si vuole perfetto, col massimo delle garanzie per la difesa. Turco fu condannato sull’accusa di un certo numero di collaboratori di giustizia, sette, tutti concordi. Senza riscontri, ma sette testimonianze, seppure dubbie, possono avergli valso l’ergastolo. Solo che nel 2008, quindi già sette anni fa, si accusarono del delitto a lui imputato  e furono riconosciuti colpevoli due criminali. Ma Turco ha dovuto aspettare sette anni per essere riconosciuto innocente, e liberato.
Imperialismo – Soprattutto è persuasivo: un fatto di propaganda riuscita. Anche nella sua stagione d’oro, il secondo Ottocento: nessun dubbio sulla necessità della missione civilizzatrice. Akl congresso di Berlino e anche prima. Anche, successivamente, meno di un secolo fa, del fascismo, fatto troppo sottovalutato, e perfino del nazismo – anzi, il nazismo “convinceva” di più. La condanna dell’imperialismo è sempre successiva al fatto, quando altre ragioni, magari di un imperialismo concorrente, riescono ad affermarsi.
L’“età delle indipendenze”, negli anni 1960, non ne ha scalfito i presupposti. Molto di essa fju dovuta all’opera degli Stati Uniti, che scalzarono definitivamente Francia e Gran Bretagna, indebolite dalla guerra contro il nazifascismo, dalla rete mondiale di potenza. Con le indipendenze l’imperialismo si è voltato in neo colonialismo, come all’epoca si chiamavano le pratiche  di aiuto allo sviluppo, o di integrazione economica.  

Sanfedismo – È una delle categorie che si fanno valere per il Sud, spesso contro l‘evidenza. Nella storia italiana poggia sul caso preclaro del cardinale Ruffo di Calabria, che risalì da Scilla a Napoli per abbattere la Repubblica Partenopea nel 1799. Mentre il cardinale, nella raccolta di lettere curata nel 1943 da Croce che più non si ristampa (“La riconquista del Regno d Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del Re, della Regina e del ministro Acton”), la presenta in altro modo. A Tarsia, sopra Cosenza, fu perfino attaccato dai briganti. Il cardinale non aveva una colonna ma una scorta. Tra i due gruppi armati ci fu un lungo scontro a fuoco, al termine del quale quindici briganti si arresero – due furono giustiziati e gli altri condannati a varie pene.

Toccarsi – Gli inglesi a lungo si emozionavano in Italia alla vista dei giovani che si toccavano, si spingevano, facevano le lotte o camminavano sottobraccio, ritenendoli omosessuali. Non perché i viaggiatori o turisti inglesi fossero essi stesi omosessuali, ma semplicemente perché sembrava loro abnorme e anzi inconcepibile che le persone si toccassero se non per eccitarsi a vicenda. Vigeva anche nelle famiglie bene piemontesi, Susanna Agnelli ne fa la chiave di volta del ricordo d’epoca “Vestivamo alla marinara”: una sorta di impegno costante, non  detto ma “regolamentare”,  a evitare non solo gli sbaciucchiamenti ma qualsiasi contato fisico con i bambini. Poi è venuto ilo dottor Spock e la pedagogia dell’affetta. Culminata un paio d’anni fa in una psicologia creativa (di Fagioli?), anche al Parco della Musica a Roma, che invece proponeva: “Abbracciatevi!”. Per darvi fiducia, prendere fiducia in se stessi. Ora si discute se il personale sanitario negli ospedali non debba avere un badge che inviti a evitare i contati fisici, una sorta di avvertenza ai congiunti dei degenti contro effusioni di riconoscenza con i sanitari e le stesse strette di mano. Ma l’alito non è anch’esso portatore di germi? Bisognerebbe impedire anche di parlare, oppure imporre una mascherina.

Si vuole la distanza per un fatto di igiene. Nei supermercati bisogna usare un guanto di plastica per prendere la merce, e si è serviti da addetti sempre in guanti, loro di gomma. Ma la plastica e la gomma non sarebbero portatori di germi? Il tutto si riduce a una moltiplicazione dei rifiuti di plastica – forse ai fini del riciclaggio? Lo stesso con le mascherine anti-smog. Che andrebbero cambiare di frequente, e comunque a ogni utilizzo, altrimenti accumulano i vapori e le sostanze che si vorrebbero scacciare.

leuzzi@antiit.eu 

Il crimine è brutto, anche raccontato

Jo La Brava, ex agente dei servizi segreti, fotografo, difende Jean Shaw, stella già in voga del cinema, che lui tanto ammirava da bambino, contro gangster e ricattatori. A Miami. Finito il libro non si ricorda nulla. Si legge rapidamente, questo sì.
Leonard, morto da poco alla soglia dei novant’anni, è reputato il padre di James Ellroy, del noir o racconto criminale. Ma lo è più propriamente della schiera di scrittori di criminalità, molto prolifica in Italia, senza tempo e senza ambienti, senza caratteri, in definitiva senza storie. Non una che si ricordi, o un personaggio. Leonard parte da un punto di vista incontestabile: il crimine non è glamour, sia pure sotto forma di psicosi, vincoli genetici, depressioni, o magari ninfomanie. È sudore, fatica, e tempo perso. Di personaggi sporchi e brutti. Ma su questo presupposto non costruisce - dalla scuole cattoliche, che pure frequentò con profitto, sembra aver maturato solo l’ipostatizzazione del male. Il “New Yorker” lo celebra come l’anti-Chandler e l’anti-Hammett, ma a nessun profitto.
Era nato scrittore di western, la sua conversione al crime fu tardiva, negli anni 1960, e opportunistica – il western non vendeva più. Scrittore prolifico per il cinema e la televisione, il più “adattato”. Con 45 romanzi e innumerevoli racconti in 49 anni di attività - tredici dopo i settanta. Scrivendo, quando aveva ricevuto un incarico o firmato un contratto, dalle nove alle sei senza interruzione. Un professionista del crimine.

Elmore Leonard, La Brava

lunedì 14 settembre 2015

Immigrazione alla casella base

La Germania chiude la frontiera con l’Austria: “Serve un afflusso ordinato” di profughi e immigrati. Chiude cioè la frontiera con l’Ungheria e l’Italia, da cui le ondate più massicce di migranti passano. Non è un delitto, fin qui è un atto di buona amministrazione. I partiti cristiano-democratici della cancelliera Merkel sono allarmati, e i socialdemocratici, che sostengono la cancelliera, pure: Il. vice-cancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel nota che “la velocità degli arrivi è quasi più problematica del loro numero”.
Da criticare è semmai la superficialità con cui la Germania ha imbastito l’altra settimana l’operazione immagine dell’accoglienza, con fiori, bambole e automobili di austro-tedeschi entusiasti in cerca di immigrati spersi nelle campagne. Una serie di sciocchezze buca-tv  – peraltro avallate solo dalla stampa italiana, non dai giornali francesi e inglesi, neppure da quelli tedeschi – ma una colpa lieve. Anzi, a effetto possibilmente positivo, se ha disinnescato in Germania e Austria le spinte xenofobe montanti.
La colpa è di non affrontare questo esodo per quello che è. Gabriel è lo stesso che la settimana dell’accoglienza si celebrava giurando che la Germania può benissimo accomodare 500 mila profughi l’anno… Si fa demagogia. Sciocca anche, su un fatto che non porta elettori né voti. E nemmeno, si penserebbe, benefici materiali – ma qui qualche dubbio è lecito: c’è un business dell’accoglienza, miliardario.

L’Ue continua a girare attorno all’immigrazione come al gioco dell’oca: ogni tanto un’impennata, quando ne arrivano dieci o ventimila in un giorno, o ne muore qualche centinaio, poi si torna alla casella base, al niente.

Meno tedesca, più ricca

Unicredit torna a galoppare avendo ridotto le attività austriache e tedesche sulle quali il suo ex deus ex machina Profumo aveva puntato. Le maggiori aree di profitto si aprono riportando in Italia molte funzioni, amministrative e decisionali, in capo alle consociate Bank Austria e la bavarese Hvb – la seconda banca tedesca. Grazie al nuovo regolatore unico europeo, in vigore da dieci mesi, che standardizza le procedure. Ma di più a una revisione del provincialìsmo che aveva spinto il gruppo italiano nelle sabbie mobili del sottogoverno in Austria e Germania meridionale.
I ratios migliorano, grazie alla forte compressione dei costi, e l’utile potrebbe quest’anno raddoppiare. In dipendenza anche dalla ripresa dell’attività produttiva in Italia, dalla domanda per investimenti e consumi

A Mosca, a Mosca, o Berlusconi abbandonato - 16

Ha sbagliato tre allenatori di fila, Mihajlovic compreso, e dunque è finito. Non imbrocca da anni nemmeno un acquisto. Aveva sbagliato tutti i delfini, gli eredi, le mogli, le amanti, e pazienza. Ma col Milan ha perduto anche il fiuto degli affari: “Non si vende Kakà”, “Non si vende Thiago Silva”, “Balotelli è una mela marcia”, “Ancelotti ha un accordo con noi”, “con Bee faremo un grande Milan”, aspettando Godot? Doveva ritirarsi quando vinceva, trovare allora un Mr Bee e farglielo pagare a caro prezzo, non venderglielo ora che perde, da anni. Fose un po confuso. Ha vinto il derby, lo ha perso, non glielo chiedono nemmeno.
Questo è il sintomo più certo della decadenza. Come del resto la sindrome del faccio tutto io, che ha sempre perduto i dittatori. Aveva riunito per la prima volta la destra, l’aveva convinta e le aveva dato un capo, se non un’anima. Ora la frantuma, è già in sei pezzi, forse sette, e tutti mediocri, non un campione fra tanti beneficati. Aveva divisato la tv a tutto campo, anche sul satellite, portando la sfida a Murdoch. A cui ora cerca di vendere tutto. Se ne è andato a Mosca e non sappiamo perché – doveva fare la pace in Siria, ma nemmeno Putin lo pro,muove, nemmeno in fotografia.

Il silenzio della decadenza

È un quarto di secolo che Rovatti ha deposto questo esile invito al silenzio, ma potrebbe essere un secolo. Un invito più ritentivo che espresso peraltro, Rovatti procede cercando le parole. Perché le parole, questo il senso dell’invito, sono un terreno infido da praticare. Magari condivisibile, come tutto il pensiero debole quando è debole. Umile, retrattile – quando non tira randellate, e meglio ancora se scandito in brevi saggi su “aut-aut” e non sistematizzato. Ma come una buona zuppa, non di più.
Molto è Heidegger vs. Husserl. Inconclusivo, naturalmente. E Rovatti? “Il silenzio che cerco di introdurre nelle parole (a partire magari dalla semplice attenzione alle pause, agli stacchi, perfino a dove inserire una virgola, insomma al carattere “scenico” del testo) mira soprattutto a rendere visibili i vuoti”. Dopodiché, se si scrivesse renderevisibiliivuoti senza vuoti? Il “carattere scenico” del testo non era poesia della tarda decadenza, romana?   Pier Aldo Rovatti, L’esercizio del silenzio

domenica 13 settembre 2015

Letture - 227

letterautore

Autobio - “Ogni narrazione autobiografica è una finzione”, per i motivi che si sanno: parte sul sicuro Agnes Heller a Pordenonelegge sabato prossimo, nell’intervento che “Il Sole 24 Ore” anticipa. Ma dice anche di più: “La memoria autobiografica ricorda per certi versi i sogni”. Come i sogni vengono rielaborati e raccontati, a se stessi, ai familiari e amici.

Bambini – Sono d’obbligo per ogni editore, e quindi per (quasi) tutti gli autori, dacché Ammanniti azzeccò il primo blockbuster, nel 1999 , “Io non ho paura”, un milione di copie (in Italia). Ma anche prima erano stati materia, prima del boom. Ivan Karamazov decide di non credere finché ci sarà un solo bambino sofferente. Lo straniero di Camus non accettava la divinità di Cristo poiché era nato con la strage egli innocenti. Flannery O’Connor, che ha studiato la tendenza già cinquant’anni fa (nell’introduzione a “Un ricordo di Mary Ann”, ora in “Il volto incompiuto”, è cattiva: “In questa pietà popolare si guadagna in sensibilità e si perde in visione”. Si guadagna a spese della capacità di raccontare, del “bene”.

Colonna Infame – Fu “scoperta” e trascritta da Joseph Addison in uno dei “Remarks on several parts of Italy”, le sue note di viaggio 1701-1703: “Camminando per le strade di Milano fui colpito da questa iscrizione, concernente un barbiere che aveva cospirato con il commissario alla Sanità e con altri per avvelenare i concittadini. C’è uno spazio vuoto dove c’era la sua casa, e nel mezzo una colonna, con  l’iscrizione “Colonna Infame”. La storia è raccontata in ottimo latino, che trascrivo”, etc.
  
Donne – Il grande romanzo borghese, da madame de Lafayette o prima ancora da Richardson, e da Stendhal fino a Tolstòj, anche fino a Proust, ha creato figure di donne. Tutte memorabili, alcune imponenti, madame de Merteuil, Emma Bovary, Anna Karenina, e tutte irrisolte e irrisolutive. Quasi tutte seduttrici, ma nessuna virago, nessuna cavaliera senza paura. Non c’è la materfamilias, pure così corrente, da ultimo centrale nella psicoanalisi, non c’è la donna che ha voluto vivere sola, l’imprenditrice, la ribelle, la seduttrice magari onesta invece che civetta, e indipendente, magari solo per eredità. Non c’è, questa diversificazione, neanche nei romanzi d’autrice: la donna è monotematica, in qualche modo legata all’amore (sentimento, sesso, abbandono). La trilogia di Larsson, “Millennium”, un chilo di robaccia, si ricorda per avere creato Lisbeth Salander, una fuori dai cliché.

Italia – Tutta arte e natura, e oppressione politica: lo schema fu stabilito presto, nel primo Settecento, dal primo “viaggiatore” – il primo che ne scrisse: Addison, giornalista, diplomatico e studioso di politica (il primo che ne scrisse in inglese, dopo il fortunato racconto di viaggio italo-francese di Montaigne). Addison ha dedicato all’Italia due testi che non si ristampano: “Letter from Italy to the Right Hon. Charles Lord Halifax”, e i “Remarks on several parts of  Italy”. Tra il 1701 e il 1703. Anni delle sue missioni diplomatiche nel continente. L’Italia è un paradiso di suoni, templi, palazzi, giardini e sole: “But what avail her unehausted Store,\ Her blooming Mountains and her sunny Shores,\ With all the Gifts that Heav’n and Earth impart,\ The Smiles of Nature, and the Charms of Art,\ While proud Oppression in her Vallies reigns,\ And Tyranny usurps her happy Plains?” Attento, dedicato, in versi facili, a rima baciata - questi versi sono della ”Letter”.
I “Remarks”, che Samuel Johnson (call) ha liquidato annoiato - “non è una censura troppo severa dire che in buona parte avrebbero potuto essere scritti a casa” – sono invece dettagliati. Precisi, e anche vivaci. Addison non ha personaggi, solo monumenti , richiami classici e itinerari, urbani e extraurbani. Da Genova a Milano e Venezia, quindi Ferrara, Ravenna, Ancona sulla via per Roma, Roma , Napoli, le isole, ancora Roma, i ducati di Toscana – più Ginevra, per via dei laghi,  e la Svizzera. Molto materiale è annotazione di classici, al punto che Horace Walpole poté liquidare i “Remarks” dicendo altrettanto perfidamente che Johnson: “Addisomn ha viaggiato attraverso i poeti e non attraverso l’Italia”.
Il primo “viaggio” inglese è dunque insoddisfacente. Ma Addison è anche chiaro: lo schema è sempre quello della “Lettera”, tanta bellezza, tanta ricchezza anche, e nessuna saggezza. Questa risiede nelle costituzioni inglesi, nell’assetto liberale del potere, dell’organizzazione politica inglese.

Lady Chatterley – La signorina Julia di Strindberg è la prima, e la più vera, lady Chatterley: la giovane ricca borghese che si annoia e la notte di san Giovanni – la notte di mezza estate - seduce il prestante servitore. D.H.Lawrence sembra averla copiata anche nei dettagli. Con l’eccezione del marito poco dotato, o portato, che Giulia naturalmente non  ha.

Otello – È certamente la “tragedia della gelosia” – alla gelosia non c’è risposta:  Desdemona, che non ne dà, ne è la vittima esemplare (cosciente, rassegnata). Ma su un fondo di misgenation e di mésalliance. Se non di razzismo: della incompatibilità dei due personaggi, delle loro storie,  è anzi prima di tutto la tragedia, la gelosia è solo la chiave per dipanarla, il terreno di coltura della differenza. Come storia di gelosia è anzi incongrua, anche se la gelosia non ha regole.
Otello sarà pure un valoroso comandante, e uno di cui Venezia non può fare a meno, ma è illogico e incomprensibile nella gelosia, verso una giovane che ha sfidato la famiglia, la repubblica, l’onore personale, per sposarselo. La verità, fra tante incongruenze, è che il sangue non mente . La tragedia è dell’incompatibilità: due mondi diversi finiscono per cozzare, non possono omologarsi.

Pubblicazione – “Col mio nome l’ho mandato a oltre 40 indirizzi e ho sempre ricevuto un rifiuto. Con uno pseudonimo cinese il componimento è stato accettato al nono tentativo”. Ed è stato incluso nell’antologia della migliore poesia americana per l’anno in corso, “The Best American Poetry” 2015. Cinquanta tentativi per farsi pubblicare una poesia, con la selezione di 50 indirizzi, la redazione di cinquanta lettere di accompagnamento, la fila ala posta, e l’attesa di altrettanti rifiuti. L’arte poetica è faticosa, secondo un’allegra ricostruzione del “New Yorker”.
La poesia rifiutata e poi celebrata s’intitola “The Bees, the Flowers, Jesus, Ancient Tigers, Poseidon, Adam and Eve”.  L’autore un poeta dell’Indiana, Michaleel Derrick Hudson. Il nome d’arte esotico Yi-Fen Chou.

Storia familiare – Usa il com’eravamo, le storie familiari, che al Sud si concentrano sull’emigrazione, specie quella transoceanica del secondo Ottocento-primo Novecento. Sul genere aperto da Gay Talese con “Unto the sons”, un capolavoro: la saga familiare dei senza storia. Ma Ma, in genere, lunghe la metà: invece che settecento, trecentocinquanta pagine. E virate al neo realismo: storie non di scoperta, di entusiasmi, di riuscite, insieme agli errori e ai fallimenti, ma di sofferenza costante, monocorde e anche monotona, su un fondo di rivalsa politica. Talese ha lavorato con animo sgombro e con solerzia. Per anni. Studiando carte, con apposita interprete, intervistando persone, scovando storie e connessioni. I com’eravamo nostrani sono solo appassionati. Fino alle lacrime, a volte, ma non appassionanti.
Talese ne ha ricavato storie di vita e d’avventura, sia pure modeste, di sarti, ciabattini, parenti di ogni genere e grado. Ricavandone personaggi a loro modo, umile, sempre a tutto tondo, sorprendenti - specie le donne, belle, brutte, mamme, nonne, zie, cugine. Con emigrazioni anche fallite,  ritorni, riemigrazioni. I nostri usano invece, non volendo, l’occhio del borghese verso l’umile – lo scrittore in Italia è un borghese, un professionista, ha riuscito l’ascesa sociale, e giudica. Con giustizia naturalmente. Singolare è, in queste storie di lacrime e sangue, la vanificazione delle donne.

Talese operava in crescendo, in aumentando, nel quadro veritiero di un emigrante comunque superdotato, contro disgrazie e sfortune: d’impegno e d’ingegno, le donne come gli uomini, contro tutti gli handicap, la povertà, l’analfabetismo, il mestiere carente. Le nostre invece appiattiscono. Storie vere contro proclami e rivalse, su cui certo i progenitori non si attardavano – prendevano, com’è giusto, dovunque c’era da prendere. L’autore compassato (riuscito, “arrivato”) giudica e proclama più che narrare.

letterautore@antiit.eu

Il giallo politico, folle

Racconti squinternati, “inventati”, inverosimili, come l’investigatore Carvalho e il suo piccolo zoo di collaboratori. Raccogliticci probabilmente, rimasugli. Che lasciano tuttavia il segno. Per l’irrispettosità di Montalbàn, anche verso la lingua e la costruzione romanzesca, nonché verso la politica. Specialmente irrispettoso, cioè, a fronte  del Montalbano italiano, meticolosamente corretto e sempre dal “lato buono”.
Tre racconti lunghi compressi in corpo 6.
Manuel Váquez Montalbán, Storie di politica sospetta, Il sole24 Ore, pp. 95 € 0,50