“È
più facile figurarsi la Russia come una combinazione di vodca, orsi, zingari e
bombe atomiche. O l’Italia come una combinazione di mafia e pastasciutta”,
Nikita Mikhalkov risponde caustica a Paolo Valentino su “La lettura”. Per la
durezza del pregiudizio, il “discorso”, fissato in tradizione. Lui stesso, grande regista, universalmente
riconosciuto, ha difficoltà a rovesciarlo. “Le fiabe vengono generate dalla
paura, e la paura è figlia dell’ignoranza”.
All’improvviso la sociologia della mafia
crolla a Cassano allo Jonio. Dove un delinquente si fa scudo del nipotino di tre
anni. La famiglia, l’onore, il maschio?
Si fa scudo anche un’amante giovane, una
marocchina che ha fatto sposare, per la residenza, al suo assassino. A uno dei
due assassini, l’altro era un suo consuocero, i rispettivi figli essendo fidanzati.
La sociologia da caserma non morirà per questo, ma dovrà aggiornarsi.
Collaterale alla storia di Cassano è che
i Carabinieri ci hanno messo due anni per accertare un fatto che tutti sapevano.
Mogli, sorelle, fratelli, semplici paesani, e probabilmente lo stesso vescovo monsignor
Galantino, visitando il quale il papa Francesco specialmente s’indignò.
La scoperta
della Calabria
“Vista
dall’esterno”, conviene infine Carmine Abate sul “Corriere della sera”,
“difficile trovare una regione così schiacciata dalla generalizzazioni, dai
pregiudizi, così poco conosciuta”, come la Calabria. Abate infine lo dice, e il
“Corriere della sera” glielo lascia dire. Due miracoli?
Ancora
più diretto Corrado Alvaro sul primo numero dell’“Espresso”, sessant’anni
fa:
“Con uno spiegamento di inviati speciali, la stampa italiana
si è buttata sull’“Operazione Aspromonte”, secondo il termine cinematografico
adottato per l’occasione. In verità, vi si gira un filmetto mediocre che non
vale tanta pubblicità. I Romeo e i Macrì sono esistiti da cinquant’anni, lo
sanno i prefetti che si sono succeduti nella provincia, devono saperlo le forze
dell’ordine nei vari comuni”, i Carabinieri. Lo scrittore, da Roma, sapeva
tutto. Tanto più, aggiungeva, che “questo non è neppure il momento culminante
dell’attività della malavita.; l’organizzazione è in crisi, è vacante il posto
di capo in testa dei tre versanti, alcuni oziosi di eleggono da sé dignitari
dell’Onorata Società senza avere i quarti di fedina penale sporca che si
richiedono”. La ‘ndrangheta allora era Onorata Società. Sprezzante,
ridimensionava l’operazione: “Una normale operazione di polizia, e meglio una
consistente azione della polizia, poiché i nomi degli affiliati al banditismo
li conoscono perfino i ragazzi della provincia di Reggio Calabria, sarebbero
bastate a ripulire l’ambiente, a evitare le reviviscenze, e a scongiurare le
dicerie dei reggini, secondo cui l’azione, con l’apparato di uno stato di
assedio, sarebbe stata intrapresa soltanto perché un sottosegretario di Stato
calabrese è stato per errore fatto segno ad un assalto dei banditi”.
Un
brano di verità semplice da parte dell’inventore dell’Aspromonte triste e
degradato. Forse perché minato dal tumore, di cui presto morirà, Alvaro aveva
abbandonato il rispetto umano e il senso delle convenienze. Oppure era
veramente arrabbiato. Il disprezzo è l’unica difesa dal tutto è mafia.
Il
sottosegretario era un ex, l’onorevole Capua, liberale, di Sinopoli. Mentre
viaggiava sulle strade di casa con la moglie, l’automobile che l’autista guidava
fu fatta segno a tre colpi di arma da fuoco. O almeno, tre colpi furono
sentiti, la macchina non fu colpita. Tre giorni dopo il questore di Reggio fu destituito,
al suo posto fu mandato il questore di Trieste, Carmelo Marzano, uomo dalle
maniere forti, questore a Palermo al tempo della messinscena del conflitto a
fuoco tra Giuliano e i Carabinieri, che mise l’Aspromonte in stato d’assedio.
Ancel
Keys, rivela Luca Bergamin sul “Corriere della sera” il giorno della Calabria
all’Expo, ebbe l’idea della “dieta mediterranea” durante un soggiorno di studio
a Nicotera, sotto capo Vaticano, nel 1957 – “cibo saporito, sano, sostenibile”
(allora la sostenibilità non era d’uso, ma pazienza). È vero che Keys, l’inventore
della razione K, la dieta dell’esercito americano in guerra, l’esercito americano,
mise a punto la “dieta mediterranea o polirematica“ con un lungo soggiorno nell’Italia
meridionale. A Pioppi, nel Cilento, acquistò una casa in località che
ribattezzò Minnelea, Minneapolis (centro granario degli Usa)-Elea, dove visse
per quarant’anni, insieme con alcuni amici e collaboratori. Tornò negli Usa nel
2004, centenario, per morirvi. Epidemiologo delle malattie cardiovascolari, era
riuscito a collegarle statisticamente all’alimentazione.
Il
Sud attarantato
Fa senso rileggere come attuali, e segno
di un’antropologia introspettiva e realistica, gli scritti di De Martino sulla “magia lucana”, la jettatura
a Napoli, e il tarantismo nel Salento. Raccolti sessant’anni fa e riproposti come
“Sud e magia”, mentre non ce n’era traccia al Sud nemmeno allora – De Martino,
studioso severo delle religioni, s’era concesso alcune divagazioni “sul campo”,
in missioni antropologiche con molti fotografi al seguito a documentare le magie,
ottimi fotografi, Franco Pinna, Ando
Gilardi et al. Fa senso tanto più che, surrettiziamente, s’intendono questi “studi”
specchio di una diversità del Sud. Che magari sarebbe non disonorevole, ma non
c’è: il Sud è mitologico, non magico..
Primo Levi in una prosa coeva (si può
leggere in “Ranocchi sulla luna e altri animali”) sulla tarata ne sapeva di più.
La tarantola si presumeva velenosa anche in Spagna: “Si presumeva che la persona
punta dalla tarantola contraesse una malattia
mortale da cu poteva sfuggire solo danzando freneticamente. Oggi è dimostrato
che la tarantola è innocua come quasi tutti i ragni del nostro paese”.
Molto di più e meglio si può leggere
sulla jettatura, il “malocchio”, nella letteratura tedesca. Anche in Benjamin. E
sulla “taranta” in Leopardi. Anzi meglio ancora, con più appropriatezza, nel “Cortegiano”
del Castiglione. Che ne tratta al § VIII del primo capitolo, preliminare alla
discussione delle varie materie: “Che,
come si dice che in Puglia circa gli atarantati, s’adoprano molti instrumenti
di musica e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmita,
per una certa convenienza ch’egli ha con alcuno di que’ suoni, sentendolo,
subito si move e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a
sanità, cosi noi, quando abbiamo sentito qualche naseosa virtù di pazzia, tanto
sottilmente e con tante varie persuasioni l’abbiamo stimulata e con si’ diversi
modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore,
cosi ben l’abbiam agitato, che sempre s’è ridutto a perfezion di publica pazzia;
onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per
certo che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato
possa multiplicar quasi in infinito”.
Nel breve saggio “Leopardi poeta
tarantolato”, Carlo Ossola ha ritracciato sul “Sole 24 Ore”, 19 agosto 2012, una
serie di riflessioni acute in materia di “tarantismo”. Del “Libro del
Cortegiano” Berni non ha mancato di appropriarsi,
“alla lettera” dice Ossola, nell’“Orlando innamorato”, anche del tarantismo. E altri
minori dopo di lui.
Leopardi
ci torna su più volte nello “Zibaldone” (15 1827, §§ 4243-4244-4245). Anche per
la passione semantica: come i diminutivi si formano, e con che senso. È qui che
fa riferimento, dopo aver discusso aronde-hirondelle,
rondine in francese, alla serie di diminutivi-frequentativi taranta-tarantella-tarantola-tarantolato
- “tarantola” è dialettale per lucertola, la cui coda, se tagliata, si agita
lungamente prima spegnersi. Poco prima ha trattato lungamente gli effetti del
cosiddetto tarantismo – non dice la parola ma ne descrive i segni: il senso di
agitazione che prende a volte l’uomo, anche nel fisico oltre che nella mente, e
come e a che fine è utile liberarsene. “A
noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger
forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle
pareti, cose usate nelle sventure degli antichi, usate dai selvaggi, usate tra
noi oggidi dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e
veramente a noi non sarebbero, perché non ci siamo più inclinati e portati
dalla natura in niun modo; tanto è mutata, vinta, cancellata, in noi la natura
dall’assuefazione. Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura
medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente,
un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Onde
quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l’animo
accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso. Sicché
quegli sfoghi sono veramente una medicina, quasi un narcotico, preparata dalla
natura medesima, perché l’uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente”.
Con qualche problema, ma per la limitata capacità conoscitiva dell’uomo –
Leopardi presumeva meno dell’équipe De
Martino: “E noi siamo ridotti a non saper né pure intendere come essi giovino a
quelli che naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio
della filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le
calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del
dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e
da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva
apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro”.
leuzzi@antiit.eu