sabato 17 ottobre 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (262)

Giuseppe Leuzzi

“È più facile figurarsi la Russia come una combinazione di vodca, orsi, zingari e bombe atomiche. O l’Italia come una combinazione di mafia e pastasciutta”, Nikita Mikhalkov risponde caustica a Paolo Valentino su “La lettura”. Per la durezza del pregiudizio, il “discorso”, fissato in tradizione.  Lui stesso, grande regista, universalmente riconosciuto, ha difficoltà a rovesciarlo. “Le fiabe vengono generate dalla paura, e la paura è figlia dell’ignoranza”.

All’improvviso la sociologia della mafia crolla a Cassano allo Jonio. Dove un delinquente si fa scudo del nipotino di tre anni. La famiglia, l’onore, il maschio?
Si fa scudo anche un’amante giovane, una marocchina che ha fatto sposare, per la residenza, al suo assassino. A uno dei due assassini, l’altro era un suo consuocero, i rispettivi figli essendo fidanzati. La sociologia da caserma non morirà per questo, ma dovrà aggiornarsi.

Collaterale alla storia di Cassano è che i Carabinieri ci hanno messo due anni per accertare un fatto che tutti sapevano. Mogli, sorelle, fratelli, semplici paesani, e probabilmente lo stesso vescovo monsignor Galantino, visitando il quale il papa Francesco specialmente s’indignò.

La scoperta della Calabria
“Vista dall’esterno”, conviene infine Carmine Abate sul “Corriere della sera”, “difficile trovare una regione così schiacciata dalla generalizzazioni, dai pregiudizi, così poco conosciuta”, come la Calabria. Abate infine lo dice, e il “Corriere della sera” glielo lascia dire. Due miracoli?

Ancora più diretto Corrado Alvaro sul primo numero dell’“Espresso”, sessant’anni fa: 
“Con uno spiegamento di inviati speciali, la stampa italiana si è buttata sull’“Operazione Aspromonte”, secondo il termine cinematografico adottato per l’occasione. In verità, vi si gira un filmetto mediocre che non vale tanta pubblicità. I Romeo e i Macrì sono esistiti da cinquant’anni, lo sanno i prefetti che si sono succeduti nella provincia, devono saperlo le forze dell’ordine nei vari comuni”, i Carabinieri. Lo scrittore, da Roma, sapeva tutto. Tanto più, aggiungeva, che “questo non è neppure il momento culminante dell’attività della malavita.; l’organizzazione è in crisi, è vacante il posto di capo in testa dei tre versanti, alcuni oziosi di eleggono da sé dignitari dell’Onorata Società senza avere i quarti di fedina penale sporca che si richiedono”. La ‘ndrangheta allora era Onorata Società. Sprezzante, ridimensionava l’operazione: “Una normale operazione di polizia, e meglio una consistente azione della polizia, poiché i nomi degli affiliati al banditismo li conoscono perfino i ragazzi della provincia di Reggio Calabria, sarebbero bastate a ripulire l’ambiente, a evitare le reviviscenze, e a scongiurare le dicerie dei reggini, secondo cui l’azione, con l’apparato di uno stato di assedio, sarebbe stata intrapresa soltanto perché un sottosegretario di Stato calabrese è stato per errore fatto segno ad un assalto dei banditi”.
Un brano di verità semplice da parte dell’inventore dell’Aspromonte triste e degradato. Forse perché minato dal tumore, di cui presto morirà, Alvaro aveva abbandonato il rispetto umano e il senso delle convenienze. Oppure era veramente arrabbiato. Il disprezzo è l’unica difesa dal tutto è mafia.
Il sottosegretario era un ex, l’onorevole Capua, liberale, di Sinopoli. Mentre viaggiava sulle strade di casa con la moglie, l’automobile che l’autista guidava fu fatta segno a tre colpi di arma da fuoco. O almeno, tre colpi furono sentiti, la macchina non fu colpita. Tre giorni dopo il questore di Reggio fu destituito, al suo posto fu mandato il questore di Trieste, Carmelo Marzano, uomo dalle maniere forti, questore a Palermo al tempo della messinscena del conflitto a fuoco tra Giuliano e i Carabinieri, che mise l’Aspromonte in stato d’assedio.  

Ancel Keys, rivela Luca Bergamin sul “Corriere della sera” il giorno della Calabria all’Expo, ebbe l’idea della “dieta mediterranea” durante un soggiorno di studio a Nicotera, sotto capo Vaticano, nel 1957 – “cibo saporito, sano, sostenibile” (allora la sostenibilità non era d’uso, ma pazienza). È vero che Keys, l’inventore della razione K, la dieta dell’esercito americano in guerra, l’esercito americano, mise a punto la “dieta mediterranea o polirematica“ con un lungo soggiorno nell’Italia meridionale. A Pioppi, nel Cilento, acquistò una casa in località che ribattezzò Minnelea, Minneapolis (centro granario degli Usa)-Elea, dove visse per quarant’anni, insieme con alcuni amici e collaboratori. Tornò negli Usa nel 2004, centenario, per morirvi. Epidemiologo delle malattie cardiovascolari, era riuscito a collegarle statisticamente all’alimentazione.

Il Sud attarantato
Fa senso rileggere come attuali, e segno di un’antropologia introspettiva e realistica, gli scritti di  De Martino sulla “magia lucana”, la jettatura a Napoli, e il tarantismo nel Salento. Raccolti sessant’anni fa e riproposti come “Sud e magia”, mentre non ce n’era traccia al Sud nemmeno allora – De Martino, studioso severo delle religioni, s’era concesso alcune divagazioni “sul campo”, in missioni antropologiche con molti fotografi al seguito a documentare le magie, ottimi fotografi,  Franco Pinna, Ando Gilardi et al. Fa senso tanto più che, surrettiziamente, s’intendono questi “studi” specchio di una diversità del Sud. Che magari sarebbe non disonorevole, ma non c’è: il Sud è mitologico, non magico..
Primo Levi in una prosa coeva (si può leggere in “Ranocchi sulla luna e altri animali”) sulla tarata ne sapeva di più. La tarantola si presumeva velenosa anche in Spagna: “Si presumeva che la persona punta dalla tarantola contraesse una malattia  mortale da cu poteva sfuggire solo danzando freneticamente. Oggi è dimostrato che la tarantola è innocua come quasi tutti i ragni del nostro paese”.
Molto di più e meglio si può leggere sulla jettatura, il “malocchio”, nella letteratura tedesca. Anche in Benjamin. E sulla “taranta” in Leopardi. Anzi meglio ancora, con più appropriatezza, nel “Cortegiano” del Castiglione. Che ne tratta al § VIII del primo capitolo, preliminare alla discussione delle varie materie: “Che, come si dice che in Puglia circa gli atarantati, s’adoprano molti instrumenti di musica e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmita, per una certa convenienza ch’egli ha con alcuno di que’ suoni, sentendolo, subito si move e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a sanità, cosi noi, quando abbiamo sentito qualche naseosa virtù di pazzia, tanto sottilmente e con tante varie persuasioni l’abbiamo stimulata e con si’ diversi modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosi ben l’abbiam agitato, che sempre s’è ridutto a perfezion di publica pazzia; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato possa multiplicar quasi in infinito”.
Nel breve saggio “Leopardi poeta tarantolato”, Carlo Ossola ha ritracciato sul “Sole 24 Ore”, 19 agosto 2012, una serie di riflessioni acute in materia di “tarantismo”. Del “Libro del Cortegiano” Berni non ha mancato di appropriarsi, “alla lettera” dice Ossola, nell’“Orlando innamorato”, anche del tarantismo. E altri minori dopo di lui.
Leopardi ci torna su più volte nello “Zibaldone” (15 1827, §§ 4243-4244-4245). Anche per la passione semantica: come i diminutivi si formano, e con che senso. È qui che fa riferimento, dopo aver discusso aronde-hirondelle, rondine in francese, alla serie di diminutivi-frequentativi taranta-tarantella-tarantola-tarantolato - “tarantola” è dialettale per lucertola, la cui coda, se tagliata, si agita lungamente prima spegnersi. Poco prima ha trattato lungamente gli effetti del cosiddetto tarantismo – non dice la parola ma ne descrive i segni: il senso di agitazione che prende a volte l’uomo, anche nel fisico oltre che nella mente, e come e a che fine è utile liberarsene. “A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle sventure degli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidi dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e veramente a noi non sarebbero, perché non ci siamo più inclinati e portati dalla natura in niun modo; tanto è mutata, vinta, cancellata, in noi la natura dall’assuefazione. Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l’animo accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso. Sicché quegli sfoghi sono veramente una medicina, quasi un narcotico, preparata dalla natura medesima, perché l’uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente”. Con qualche problema, ma per la limitata capacità conoscitiva dell’uomo – Leopardi presumeva meno dell’équipe De Martino: “E noi siamo ridotti a non saper né pure intendere come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro”.

leuzzi@antiit.eu

Il teatro di guerra di Gadda

Fra le tante opere che si rieditano sulla Grande Guerra quella insieme più dettagliata – oggettiva – e più personale. Il ventiduenne  Gadda fa l’ingegneria della guerra, minuzioso rilevatore di coordinate e curve di livello, schieramenti, linee di rifornimento, linee di ritirata, e insieme è già “Gaddus”, tra entusiasmi e malinconie, arguto esploratore dei dialetti in trincea, e poi del tedesco quando sarà prigioniero in Germania, acuto indagatore dei caratteri, per una sorta di fascino che esercitano su di lui, “animo sensibile”: i taccuini di guerra dispone graficamente come un romanzo, come un teatro. Scrive anche in forma gaddiana, per cose e immagini, limitando la mano d’autore.
È un libro dunque già d’autore, ma è anche quello che si voleva: un curioso documento delle strategie e tattiche della guerra. Viste dal basso e in orizzonte limitato, alla compagnia di Alpini di cui il sottotenente Gadda era capo plotone, al più al reggimento, e tuttavia, a cose fatte, perspicace, molto. La sua guerra è anche un altro game rispetto a quella, per esempio, di un altro scrittore che ne fu definitivamente segnato, Ernst Jünger. Nessun eroismo in Gadda, e nessuna filosofia della guerra nella modernità, il suo occhio è ancora ottocentesco e romantico, dell’italianità, la patria, l’onore, l’umanità dolente. E tuttavia per questo più “contemporanea” – o eterna.
Il “Taccuino di Caporetto”, di cui forse si vergognava e che consegnò a Alessandro Bonsanti perché non lo pubblicasse in vita, è anche un unicum nell’opera di Gadda, che per lunghi mesi non sa sorridere, neppure irridere. Copre il periodo dal 5 ottobre 1917 al 30 aprile 1918. Gadda soffre in prima persona la guerra. Nell’entusiasmo prima, nella depressione poi, lenta, lunga, nei campi di prigionia di Rastatt, nella fredda e spoglia fortezza di Federico, fu prigioniero subito, poche ore dopo la disfatta del 24 ottobre 2014, e poi nel campo appositamente creato a Celle nell’Hannover, fino alla notizia della vittoria.
Dopo la vergogna, della sconfitta, della resa, della prigionia umiliante, la fame è il tema del diario, degradante e sovrastante. Sempre a rovistare senza vergogna tra i rifiuti della cucina, in cerca dei “torzeletti” e le foglie scartate dell’insalata. Il giorno di Natale si sfama con “un torsolo di cavolo e una mezza patata dal mucchio delle immondizie”. Accetterà l’odiato incarico di supervisore delle cucine, che lo mette in urto a ogni pasto con diecine delle centinaia di prigionieri in fila, per potersi infine rifare della fame di mesi. L’altro tema, che lo accompagnerà tutta la vita, è il compianto di sé. Forse ipocondriaco forse no. Il senso di colpa è fortissimo. A metà del diario interpola un memoriale circostanziato, “narrazione per uso personale, scrupolosamente veridica”, in 33 capitoli e una lunga nota, sulla battaglia dell’Isonzo (Caporetto) e la sua cattura, “in caso di accuse”. A ventiquattro anni, già sul treno tedesco, e poi a Rastatt e  Celle, non finisce di dirsi finito. Per la patria sconfitta, ma più per il personale destino. A volte anche emozionante, se non commovente.  Finito dopo una vita “che fu sempre così ricca di dolori, e di disinganni, così povera di fortuna”. Con una pagina acuta e scoperta di autoanalisi - “come tramutarmi in uomo?”: la sensibilità “eccessiva”, la timidezza, la scarsa “forza di volontà”, o scarsa applicazione, eccetto che per lo studio al Politecnico e le amate letture. Ripetutamente imputandosi “scarsa salute” e ogni sorta di malanno. Ma sapendo che molti malanni sono “pianto dell’anima, Herzleid, mal di cuore”.
Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia. Con il “Diario di Caporetto, Garzanti, pp. 444 € 16,50

venerdì 16 ottobre 2015

Il vincolo esterno europeo si aggiusta

Il bilancio spagnolo fuoriesce dai parametri europei – Maastrciht e fiscal compact – ma Bruxelles lo abbuona: il primo ministro spagnolo è dello stesso partito di Juncker e Merkel, e deve vincere le elezioni tra un mese. Il bilancio italiano è dentro i parametri, ma si può essere certi che Bruxelles lo rimanderà indietro un paio di volte (già diffonde dubbi), perché Renzi, benché democristiano nell’animo, appartiene allo schieramento avverso, che una volta si chiamava socialista e ora, con Renzi, forse progressista. Il bilancio francese è da una diecina d’anni fuori norma, ma sta bene così perché è la Francia – la Francia si suppone governi l’Europa, con la Germania. .
Si fa grande caso in Italia di “Bruxelles” come normatore europeo. Contro le intemperanze, i vizi, la corruzione e tutto il peggio, “tipico” dell’Italia. Vige in Italia la regola, dei vecchi repubblicani e della Banca d’Italia, dell’Europa come “vincolo esterno” della cicala Italia. Che in molte occasioni è stato equo e opportuno. Ma non lo è in principio. In principio conta a Bruxelles il fattore potenza, contano cioè Germania e Francia. In secondo luogo conta il fatore poliirico: le parentele, le alleanze, le cordate.
La dipendenza peggiore dell’Italia, unica nel giornalismo accreditato a Bruxelles, è si intendere l’Unione Europea, foro e un po’ covo di politicanterie, come un governo equanime, al di sopra delle parti. 

Il Risorgimento divora i suoi figli, in Algeria

“Yasmina Khadra” ritorna all’antico. Nella scena, Algeri,  nelle scene, oscene, e questa volta anche nel linguaggio, che dire da caserma è poco, da vecchio colonnello dell’esercito algerino, che adottò uno psedunoimo femminile per meglio camuffarsi – grande fatica dev’essere stata per Marina Di Leo, che lo ha tradotto. Un noir cupo, tra i segreti turpi della solare Algeri. Un’arringa savonaroliana, ripetuta, ribattuta, spesso con le stesse parole, contro un paese che l’autore ha lasciato da tempo per Parigi, e ora denuncia in decomposizione.
L’ennesimo inno alla bianca Algeri del romanticismo francese attardato, ma ora “bianca come un passaggio a vuoto”, “una città che si prepara a diventare un cimitero”. Capitale di un paese “in cui si è fieri di corrompere e di essere corrotti”. Al centro di una requisitoria costante, inesauribile - i due terzi delle pagine – e purtroppo saccente. Una città di rivoluzionari arricchiti, di arricchimenti facili, dentro e attorno al potere. A opera degli stessi che hanno operato cinquant’anni fa il risorgimento della nazione, o così dicono.
È successo per il socialismo algerino, in piccolo, quello che è successo in Russia alla caduta del regime sovietico: che pezzi del vecchio regime si sono impadroniti di tutte le ricchezze, banche, miniere, giacimenti, commerci, imponendosi con la collusione reciproca e la violenza criminale. Il vecchio regime era però quello dei padri della patria, nella guerra vittoriosa contro la Francia colonizzatrice. Li ritroviamo qui trasformati in rboba, pescicani. Per i quali la tribù dei Beni Kelbun viene risuscitata, l’appellativo berbero che usava per i cannibali (“cani”) che attaccavano i pellegrini disarmati – “geneticamente nefasti, i Beni Kelbun dispongono di una loro trinità: mentono per natura, barano per principio, nuocciono per vocazione”.
Il plot è desunto dalle cronache - “un rajah indù mangiava il curo delle vergini perché non poteva deflorarle”, troppo vecchio. Ma la requisitoria prevale, contro la “legittimità storica” degli ex del Fronte di Liberazione Nazionale, gli “zar della Repubblica”: asfissiano il paese con la violenza e lo hanno corrotto. “Sennò, come spiegare che, malgrado le sue ricchezze inestimabili, l’Algeria resta povera in sogni e ambizioni, e arranca in coda alle nazioni?” L’algerino è aggressivo? “Le troppe soperchierie rendono l’aggressività imperativa”. Quando il magnate dei giornali incontra un editore di libri con una sua giovane promessa, i tre si bersagliano reciprocamente per incarnare “il paradosso algerino”: “Tutt’e tre incarnano non la razza umana ma la specie umana, alla categoria dei pazzi furiosi incapaci di generosità, mossi dal bisogno malato di nuocere, talmente tristi che se si venissero a esporre sotto i loro occhi tutti gli splendori della terra, non vedrebbero che la loro propria bruttezza”. Di cose così è pieno il libro, di enfasi retorica. Che però resta sufficientemente allucinogeno, la lettura d’un fiato.
Col linguaggio da caserma, l’autore franco-algerino usa qui scorrevole, più che in altri suoi romanzi, la prosa bireligiosa che lo caratterizza. Di un tono di fondo mussulmano – nella koiné non nelle pratiche: il profeta non ricorre mai, né Allah né il “Corano”. Con riferimenti cristiani costanti  ai formulari e ai riti, che sono quelli del francese, della lingua. Di un paese che è mussulmano ma non arabo, non del tutto, e molto europeo – una piccola Francia, a percentuali rovesciate.   
Yasmina Khadra, Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini, Sellerio, pp. 309 € 16

giovedì 15 ottobre 2015

Secondi pensieri - 235

zeulig

Amore - La coscienza di classe è la tomba dell’amore, si diceva. Anche la coscienza dei ruoli, del semplice io, tu e io. Specie nella disattenzione.

Bisogno – Non si lega più alla mancanza ma al di più – al desiderio”. È l’effetto dell’elevato standard di vita mondiale che cresce con la globalizzazione. E della dominanza dei modelli comunicativi commerciali – della pubblicità, meglio detta reclame.

Corpo - È il più simbolico – significativo, creativo – dei riferimenti nella poesia e nei romanzi, nella scrittura creativa. Non solo come funzionalità, ma come coinvolgimento dei sensi, della percezione. Anche irrelati, all’apparenza, con la scena o materia evocata-costruita. E tanto più quanto più è slegato dal significato simbolico del gesto o della materia. Il dito puntato di fra’ Cristoforo può significare molte cose, in contesti diversi. Il melone che l’adescatore Dimitrij affetta dopo aver sedotto la cechoviana Anna, giovane e pura, “La signora col cagnolino”, è giallo e freddo. – Cechov del resto diceva: “Il mio sancta sanctorum è il corpo umano”.

Destino – Ci sarà ma è sempre incerto, nella fabbrica in progress della storia. Si può dire implacabile perché è quello che è avvenuto.
È peraltro facilmente sopravanzabile. Per improntitudine (leggerezza), distrazione, stupidità. Per gli stessi motivi può imporsi: a volte si prevale della mediocrità, delle persone e della storia – per Lutero il destino era tedesco, “speciale” cioè, ma più spesso è volubile e incomprensibile: un accadimento.
Si va a volte per strade segnate e non sono rassicuranti, nel destino ci si smarrisce, mentre eventi improvvisi rassicurano.

Il mondo di Newton era legge e destino, ora con Einstein è caos e potenza: il destino è adattabile?.

Galileo – La fisica meccanica di cui è stato all’origine – in una con la “riforma” di Bacone - l’avrebbe approvato nella forma corrente (prevalente), semplificata,”riduzionista”? Non perché era un credente – un creazionista. O non solo: soprattutto perché non era un meccanicista. Galileo sapeva che l’avanzamento della fisica - le “scoperte” - l’aveva fatto non perché le lenti erano migliori ma perché aveva saputo usarle. La scienza del resto si dimette nel riduzionismo fisico o scientifico.

Incomunicabilità – È in Kant prima che in Bergman, il regista. Se la cosa in sé è “uguale a x”..

Intercettazioni – Sono selettive, tempestive sempre a fini ignoti, e artefatte. La prova regina è la più manipolabile tecnicamente: accelerazioni, rallentamenti, tonalità, dimmering, illuminazione, accentuazione, e poi le trascrizioni. È anche contro ogni idea di prova, che è un fatto (responsabilità, corpo del reato) e non un’opinione (indizio). Da strumento investigativo (prevenire il crimine) sono diventate prova regina – sui giornali e poi anche in tribunale. Fanno il paio con l’altro perno della giustizia in tribunale, il pentito. Uno che, assicurato dell’impunità, può dire ciò che vuole. Pilastri di una giustizia cioè tradita – di qualsiasi senso di giustizia, compreso quello largo, della moralità pubblica.
Si intercettano del resto più di frequente gli stessi intercettatori tra di loro. Le Autorità custodi della sicurezza, la giustizia e la verità. A fini di ricatto. O di più verità, alla Snowden  o Wikileaks, che loro stessi, araldi della trasparenza, selezionano. Oppure di beffa, perché no.

Sono strumenti non di giustizia né di verità, ma di segreto. Di selezione dei reati da punire – di costituzione di masse d’informazione nelle quali pescare per fini di parte. Servono a orientare le indagini, quando si vogliono per qualche motivo tentare, o a documentarle selettivamente. Le intercettazioni di per sé non producono altro, specie  quelle in massa o “a strascico”, che un accumulo di dati di cui opportunamente, attraverso parole chiave, fare uso al bisogno.

Normalizzazione – Fa perno sul pensiero – sull’argomentazione – e non sul dominio o la repressione. Indirizzandolo a formularsi come domanda-bisogno, a fini comunque commerciali, utilitari. Attraverso quella che fu definita la persuasione occulta.
Peter Trawny, “La libertè d’errer, avec Heidegger”, p. 67, censisce ben otto tipo di normalizzazione della filosofia, nell’ambito di una “normalizzazione universale nell’unità della tecnica, del capitalismo e dei media”: sociologico-morale di tipo illuminista, tecnico.scientifico (analitica, filosofia dello spirito), pratica, della “saggezza asiatica”, del “rifiuto dell’integrazione”, della dialettica anti-tecnicocapitalistica, cristiana della “correzione”, e universitaria (la meno conformista malgrado tutto).

Opinione pubblica – Il “pubblico” nel senso tradizionale di borghese e critico oggi sarebbe piuttosto da intendersi di massa e passivo. Permeabile a ogni sorta di concetto, purché inesatto. E più al falso. Anche dichiaratamente falso. Per un linguaggio che si vuole veritiero in quanto oltraggioso, seppure insignificante.
La rapida sparizione del giornale e del giornalismo, organismi principi dell’opinione pubblica, ne è un effetto – ma anche una delle cause, una sorta di suicidio del giornalismo.

Società aperta – Il modello attuale, che più sembra esprimere il modello di Popper, è quello più chiuso. Aperto cioè al segreto. Sotto forma di pubblicità, di denuncia del segreto stesso, ma allora a opera di un segreto “superiore”. È l’effetto società aperta così come ora è concepita: una serie di caselle-fortezze presunte inattaccabili, l’una che controlla l’altra. Una società di segreti, cioè, più raffinati o segreti degli altri. Una società aperta piena di ombre:

Storia - Signor contadino, chiedeva La Pira, il sindaco santo, la stagione la fa lei? La storia ha le sue stagioni.

Si dice conoscere, o riconoscere. Una fisiognomica. Ma gli uomini somigliano più al loro tempo che ai loro padri, secondo Voltaire.

Vangelo – La sua forza è l’imprevedibilità, è stata storicamente - le cose implausibili riescono semplici, perfino ovvie. Un non violento che vince il mondo - benché figlio di Dio - con i miracoli, la morte innecessaria, con  supplizio aggiunto, e il rifiuto delle donne, mamma compresa, per una congrega d’uomini plebei, più stupidi che ignoranti, tra adolescenza e maturità - Giovanni doveva avere quindici anni, Pietro sui quaranta.

zeulig@antiit.eu

Il Sud stregato, sotto jettatura

“L’analisi del documento etnografico ha messo in evidenza, nelle campagne del sud, la sopravvivenza dell’antica fascinazione stregonesca, in connessione con altri stati magici affini, quali la possessione e l’esorcismo, la fattura e la contro fattura”. È l’epilogo che Ernesto De Martino appone ai tre saggi della raccolta, “Magia lucana”, “Magia, cattolicesimo e alta cultura”, all’interno del quale c’è posto per un “Regno di Napoli e jettatura”, e l’appendice “Intorno al tarantolismo pugliese”. Lucania, Puglia, dovrebbe trattarsi del Sud d’Italia. Che però è al contrario senza fascinazione, tanto meno antica, poiché è senza tradizioni e anzi senza radici.
Si riedita superbamente, per i cinquant’anni della morte di Ernesto De Martino, la sua opera più famosa – in parallelo con l’edizione economica Feltrinelli, che Galimberti introduce, qui già censita. Con introduzione sfarzosa a due voci, di Fabio Dei e Antonio Fanelli. E una fittissima serie di materiali preparatori. Come di una fucina ancora viva: “un contributo - modernissimo, addirittura precorritore - alla comprensione profonda dei modi e dei riti della cultura popolare che portano al riscatto dalla «crisi della presenza» in contesti di forte e perturbata criticità”. Mentre è la più caduca. 
Il Sud incatenato ai resti, si è detto, a persistenze inerti. Già all’epoca, 1958. Una lettura divertente, non fosse per la seriosità cui l’illustre storico delle religioni ambisce. Nel quadro della “non storia del Sud” – nel mentre che Pontieri, Placanica, Rosario Villari, Galasso la rinnovavano. Tutte cose remote, un po’ assurde anche per l’epoca. Senza contare che della “taranta” avevano detto molto di più, e comunque meglio, il Castiglione nei preliminari del “Cortegiano” e Leopardi in vari passi dello “Zibaldone”.
De Martino ne ha il sospetto, che nell’introduzione dice il confine labile tra “magia” e “razionalità”. E del “materiale relativo alla «magia lucana»”: “In generale il folklore religioso come coacervo di relitti disgregati che l’analisi etnografica astrae dal plesso vivente di una determinata società non è, nel suo isolamento, storicizzabile” – nell’isolamento cioè in cui la mette lo studioso. Ma la fascinazione non traccia negli stati psichici, che sono il suo luogo, anche morbosi. Privilegiando invece come modi interpretativi l’esorcismo, la religione (diavoleria), la superstizione, e come luogo fisico il Sud. Mentre il formulario della fascinazione che censisce non ha nulla di esoterico o cabbalistico: sono filastrocche, in italiano dialettizzato, quindi recenziori e imitative.
La jettatura De Martino nobilita con scritti “curiosi” tardosettecenteschi – che Dumas si approprierà nel “Corricolo”, il romando napoletano del 1840 – dicendoli di elevata qualità illuministica, insomma filosofica. Tali da comportare “la trasformazione della fascinazione”, dapprima a Napoli, e poi “da Napoli nel resto d’Europa”. Dove?
Per la “non storia” De Martino si appoggia a Croce. Che la storia del regno di Napoli diceva “ingrata”, ma è uno che si è divertito a rifarla in molteplici aspetti, compresi i teatri.
Un’opera buona cattiva?
Ernesto De Martino, Sud e Magia, Donzelli, pp. LI-414, ill., € 34

mercoledì 14 ottobre 2015

Il mondo com'è (234)

astolfo

Israele nucleare – È Israele la potenza nucleare del Mediterraneo, Medio oriente incluso fino all’Afghanistan. Col sostegno finanziario e tecnico della Germania. Non dichiarando l’armamento nucleare, Israele non incorre nelle sanzioni del trattato di non proliferazione nucleare, ma il suo arsenale atomico è noto e ammesso.
Israele aveva già fabbricato almeno due ordigni operativi alla vigilia della guerra dei Sei Giorni nel 1967, testati nel Sud Africa allora afrikaner. Alla guerra del Kippur, sei anni dopo, disponeva di otto-dieci testate. Oggi l’arsenale atomico israeliano è conteggiato in 120-200 ordigni operativi, di cui 80 “strategici”. Che Israele è in grado cioè di utilizzare su veicoli a lungo raggio, missilistici (fino 11 mila km.), aerei e navali. La fornitura di sommergibili convenzionali equipaggiabili con missili cruise a testata nucleare amplia il raggio d’azione del deterrente israeliano praticamete tous azimut.
È la Germania che rifornisce i sommergibili dei missili cruise. Tecnicamente, Israele ha sviluppato l’arma atomica in Francia. Il costo è stato invece sostenuto dalla Germania. In base a un accordo firmato nel 1960 dal cancelliere Adenauer e da David Ben Gurion, padre fondatore di Israele e all’epoca rimo ministro.  Il costo totale viene calcolato in cinque miliardi di euro.
La Germania cofinanzia, per un terzo del valore, pure i sommergibili i corso di fornitura a Israele.
L’accordo Usa-Iran è stato contestato da Israele perché potrebbe intaccare la sua posizione di unica potenza nucleare in Medio Oriente.  

Mediterraneo - È la sua cancellazione all’origine della “scomparsa” dell’Europa? È arduo professarlo,  ma è così – è più probabile che sia così. La sua funzione di cerniera, tra l’Europa e il resto del mondo – a meno di non voler passare per l’inospitale Russia siberiana - è stata inalterata nei secoli. Anche dopo la scoperta dell’America. Ancora la seconda guerra mondiale è stata vinta nel Mediterraneo – gli Alleati hanno cominciato a vincerla in Nord Africa e in Sicilia. Nel Mediterraneo, a Suez, si è affermata l’egemonia americana su tutto l’Occidente, nel 1956, emarginando Francia e Gran Bretagna. Senza che tuttavia l’Europa perdesse la sua funzione: l’anno dopo si riscattava con la creazione del Mec, avviata a Messina nel 1957.
L’eclisse dell’Europa si profila col cancellierato Kohl, che volle la disgregazione della Jugoslavia per “annettersi” la Slovenia e la Croazia. Un’allegra cancellazione del Sud Europa che sfocia nella “guerra” alla Grecia e poi all’Italia. Parallela al disinteresse totale per le questioni mediorientali, per la Libia, per la Tunisia, per l’Egitto, per il radicalismo arabo-islamico, per le masse di immigrati disperati, già tremila morti affogati solo quest’anno (delle ultime centinaia non si dà più nemmeno notizia). Della stabilità politica del Mediterraneo, Turchia compresa. Degli approvvigionamenti energetici.
Annessione e guerra sono termini simbolici: non ci sono annessioni ma feudi politici sì. Né ci sono guerre, ma match truccati sì. Anche da un punto di vista etico, della responsabilità, non si può dire che l’abbandono del Mediterraneo sia stato proficuo, abbia portato più serietà nelle trattazioni, più certezze del diritto.
Si ragioni un momento per ipotesi in astratto. Come è possibile che l’Europa si concepisca tutta al Nord, quando è condizionata per la sicurezza, per l’approvvigionamento energetico, per l’ordine pubblico, per gli assetti demografici e sociali, dal Mediterraneo? Dalla frontiera euro-afro-asiatica?

Napoleone – Un ladro e un sanguinario? Lo era, e potrebbe benissimo ridursi a queste connotazioni, non fosse per il sentimentalismo delle leggi nuove che in qualche modo introdusse in Europa - in Italia, in Germania, nel Belgio-Olanda: da Goethe a Hegel, ai lombardi della Repubblica Cisalpina, perfino un poco in Spagna. Stendhal, che tutta la vita tentò di scriverne, fece molte prove ma non sciolse il nodo che glielo impediva: lo ammirava come stratega in battaglia ma non sapeva passare sopra alle malefatte.
Andò in Egitto per nient’altro che per derubarlo. In Italia non si ricorda ladro peggiore, nemmeno Carlo VIII rubò tanto. Con la pletora di familiari da sistemare e gli amici e servitori devoti da nobilitare, con prebende, a carico della finanza pubblica. Dappertutto introducendo la levée en masse, la leva obbligatoria, per farsi fare le guerre. Fu questa la ragione principale per cui non “pacificò” mai la Spagna: dovendo andare in guerra, tanto valeva battersi contro di lui che per lui. E e nel Sud Italia la Calabria, dove i “massisti” furono incoraggiati e armati dagli inglesi. Andò in Russia, impresa assurda da ogni punto di vista, unicamente  per creare feudi e a scopo di rapina.

Progressismo – È ora di destra, liberale ultra. Mentre la sinistra è e si ritiene conservatrice:  protezione del lavoro, dei diritti acquisiti, dei contratti – sui temi etici e civili destra e sinistra condividono il free for all. Il Nobel, premio progressista, per l’Economia a Angus Deaton incorona le disuguaglianze. Di cui il premiato è l’analista e il celebratore: il progresso (ricchezza, cultura, felicità) avviene attraverso le disuguaglianze, per il bisogno – con una “soglia della felicità” irraggiungibile ai più, poiché bisogna disporre di 75 mila dollari, netti, l’anno.
Anche in campo internazionale, si concelebra con Deaton il vecchio teorema di cinquant’anni fa  degli aiuti allo sviluppo inutili e in parte dannosi. Denominato “cartierismo”, dal giornalista francese Raymond Cartier che faceva campagna contro le colonie – “costano troppo”.
L’aiuto allo sviluppo era criticato anche perché sostituiva regole più aperte negli scambi internazionali, nel senso del liberismo, poi instaurate con la “globalizzazione”, che invece avrebbero solidamente impiantato lo sviluppo nelle aree povere. Questa è una vecchia critica di sinistra, che con Deaton si è imposta da destra. A metà degli anni 1960 P.T. Bauer, l’economista internazionale della London School of Economics, argomentava, sulla base delle partite correnti tra paesi donatori  paesi recipienti, che degli aiuti allo sviluppo traevano beneficio i donatori. Avendo fatto i conti dei trasferimenti - il dare e avere reale degli aiuti - aveva scoperto che aiutavano i donatori, oltre alle élites dei destinatari: “I poveri dei paesi ricchi finanziano con le tasse i ricchi dei paesi ricchi e dei paesi poveri”, affermava.
Cinquant’anni fa questa posizione passava per retrograda, anche se Bauer e la Lse gravitavano nell’area socialista - al suo seminario, ristrettissimo, era contestata da Angela Davis.

Savonarola - Un Lutero made in Italy? Un mobilitatore. Un divinatore e profeta. Gli mancavano le basi teologiche di Lutero e le Alpi di mezzo. Anche l’intelligenza politica. Fu l’esito, uno fra i tanti, di un messianismo popolaresco, molto diffuso nel Nord Italia, Firenze inclusa. Residuo del messianismo dei primi secoli del mllennio. Zelina Zanfarana, studiosa della storia religiosa di Firenze nel Quattorcento, rilevava in un lontano studio, nel 1968, “Una raccolta privata di prediche”, che l’offerta religiosa e omiletica a Firenze a fine secolo era talmente affollata e varia che chiunque cercasse la salvezza in lacrime poteva fare a meno di Savonarola.

Fu perduto dal governo democratico, che indirettamente perseguì, osteggiando la Signoria, e con l’invasione ci Carlo VIII impose. Più che dal papa, dai francescani e dai Medici. Il governo democratico gli alienò le simpatie popolari: non è un paradosso, è un fatto storico.
Passato per fanatico, era invece un realista. Fino all’ultimo si misurò abilmente con i Medici, che avversava, e col papa Borgia. Moltiplicò a dismisura le vocazioni a Firenze, al suo convento a San Marco, domenicano. Si vollero frati domenicani tra i tanti Pico della Mirandola, in morte, e Angelo Poliziano.  Osteggiò una chiesa che peggiore non poteva essere. Era papa Roderigo Borgia, di costumi sessuali dissoluti, e di politiche nepotistiche avventurose. Il tempo di Savonarola era quello. Giovanni dei Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, era stato fatto cardinale a otto ani. Il figlio del duca Ercole d’Este, Ippolito, arcivescovo d’Ungheria alla stessa età. E tuttavia i Medici e lo stesso papa Borgia lo tenevano in gran rispetto: lo temevano e lo lusingavano.
All’invasione predatoria del re francese sulla strada per Napoli, la città lo delegò a trattare. Ebbe successo, indebolì i Medici, favorì il governo democratico. Era impegnato, oltre che per il rinnovamento della chiesa, per il ritorno di Firenze alla repubblica, alle “virtù repubblicane”, e questo lo perse. Le molte fazioni in cui la città era divisa, Compagnacci, Bigi, Arrabbiati, furono presto scontente del governo democratico, e i suoi stessi Piagnoni si assottigliarono vistosamente in breve. Restò quindi isolato di fronte ai suoi, relativamente pochi, nemici. Che rapidamente se ne sbarazzarono, condannandolo all’impiccagione e al rogo. Subito poi il papa Borgia si disse male informato, e disposto a santificarlo. Disponibili a riconoscere l’errore e alla canonizzazione si dissero anche i papi Giulio II e Clemente VIII, un Medici che sempre gli era stato devoto, figio di Giuliano.

Nel rogo dei libri di Dante, Petrarca e Pulci, nel 1496, da lui ritenuto il grande corruttore di Firenze (forse per non poter criticare Lorenzo il Magnifico), Savonarola volle aggiunto anche il “Decameron”. Ma il suo “Lamento contro la corruzione” era anche il lamento della Pampinea del “Decameron”, il degrado morale e politico della città di Firenze. 

astolfo@antiit.eu 

Non c’è guerra giusta

Un estratto dagli “Adagia” – a cura di Davide Canfora, già editore della raccolta pi vasta, “Adagia di guerra, pace, saggezza e follia”, in edizione italiana, e con l’originale latino. Sotto un titolo, “Dulce bellum inexpertis”, mediato da Vegezio, lungamente meditato e commentato. Gli “Adagia” sono un centone di varia saggezza, mediato da Erasmo dai classici greci e latini, ripreso e ripubblicato più volte in vita, l’ultimo ricca di 4.151 riferimenti.  
Erasmo era uomo di pace a tutti i costi e nemico della guerra. Che nell’“Elogio della follia” dirà opera di “parassiti, ruffiani, briganti, sicari, campagnoli, imbecilli, indebitati e simile feccia umana”. Era per progetto uomo di concordia. Anche in materia di religione. Per cui, pur comprendendo appieno le ragioni di Lutero, fu contro la Riforma. Qui esclude esplicitamente la guerra “giusta”, la guerra di religione: il suo pacifismo è integrale. Molto più vivace e persuasivo che nel “Lamento della pace”.
Erasmo da Rotterdam, La guerra piace a chi non la conosce, Sellerio, pp. 140 € 10

martedì 13 ottobre 2015

Il papaleaks

È il papa che ha dato la lettera dei cardinali dissenzienti a Sandro Magister. Naturalmente non lui, uno di suoi familiari. Un altro cameriere? È improbabile, papa Bergoglio non h camerieri. Ha però una serie di consiglieri poco affidabili.
È perfino assurdo pensare il sinodo come una partita di calcio, tra “noi” e “loro”, innovatori e conservatori. Poiché tutti sono duchi e principi della stessa chiesa. Il cardinale Müller, uno dei firmatari dichiarati, lo può dire incontestato a Gian Guido Vecchi sul “Corriere della sera”: “Lo scandalo è che si renda pubblica una missiva privata del Pontefice”. Lo scandalo è perfino sfrontato, con errori voluti di traduzione o trascrizione, e un paio di firme false, per farlo montare meglio.
E così l’“ermeneutica cospirativa” che il papa argentino denunciava è la sua, del covo di Santa Marta, vecchio ostello di meretrici, seppure pentite. Dei collaboratori con i quali governa la chiesa a furia di scoop e dichiarazioni ai giornali, invece che con i vescovi – niente più passa dalla sala stampa istituzionale, del Vaticano. Un gesuita argentino era una scelta, forse, dello Spirito Santo “ut scandala eveniant”.

Letture - 231

letterautore

Firenze - “Città illustre, divisa fra un’agitazione fittizia e un costume gretto", Anna Banti la fa dire dal protagonista del romanzo “Noi credevamo”. Lo avrebbe potuto dire lei. Animatrice culturale di prim’ordine, scrittrice di notevole forza, e tuttavia dimenticata. Nata a Firenze, sposata a Longhi, dopo esserne stata collaboratrice, animatrice di quel che di vivo era rimasto in città di letteratura dopo la guerra, ma isolata. Isolatissima e presto dimenticata. Un isolamento che risentiva in vita, non personale probabilmente ma funzionale (la cultura). Al punto da dichiararsi, lei nata e vissuta a Firenze, da madre pratese e padre torinese, “calabrese” – giusto perché un nonno era nato in Calabria, dove non era mai tornato. Cioè estranea.

Magia – Ritorna, alla “fine” della tecnica? Della tecnica estremizzata, allo spasimo, ma senza effetti per la conoscenza, e deleteri per la sensibilità. Si celebra con dovizia Della Porta, per i cinquecento anni della morte come se fosse un Galileo misconosciuto – non il Della Porta architetto, l’alchimista e mago, che si dilettava secretorum naturae. Campanella ritorna per il solo aspetto esoterico. Nuccio Ordine pubblica uno studio approfondito di “miti, emblemi, spie”, attorno a Enrico III, re di Francia e di Polonia, con segreti legami oltre Manica, nel dibattito dell’epoca, anche sotterraneo, su re (stregone) e religione, sulla natura, e sulla natura della conoscenza. Marc Fumaroli, che glielo presenta, ne parla come di un prolungamento della stagione warburghiana delle mitografie: dei poteri delle immagini, delle potenze angeliche, degli effluvi magici - Giordano Bruno collegando a Turing, il matematico.

Manzoni – Singolare celebrazione del “Sole 24 Ore” e del “Corriere della sera” alla riapertura al pubblico della casa milanese in via Morone. Quattro pagine, otto articoli delle migliori firme, e niente, solo rigaggio. Possibile che Manzoni non abbia più nulla di dire? O è Milano che non sa più che dirgli? Se ne gloria, ma come di una pietra diruta.

Pasolini - Il “Narciso ferito” lo dice Nico Naldini ricordando la notte quando lo accompagnò alla stazione di Casarsa, alla fuga, con la madre, per Roma. Partirono perché la sera Pier Paolo aveva preso a pugni il padre Carlo Alberto, rientrato a casa ubriaco e manesco, come spesso da ultimo gli capitava. Dopo otto anni di guerra e prigionia, Carlo Alberto era tornato attivo, specialmente fiero del suo figlio superstite, malgrado i pettegolezzi e gli scandali. Ma, rìfiutato dalla sposa Susanna, nell’ambiente chiuso di un paese non suo, si era ingaglioffito – la zia Susanna, sorella della madre, Naldini ricorda sempre allo specchio, in interminabili toilettes, anche nello sfollamento a Versuta nel 1944-45, nella piccola stanza d’affitto che condivideva col figlio ventiduenne prediletto.
Nel 1949, l’anno dello scandalo e del primo processo, Naldini ricorda che il cugino aveva una fidanzatina a San Vito. Al processo fu condannato localmente, ma poi assolto in appello e in Cassazione.

Fu l’unica “scoperta” di Contini. Il filologo emerito, così tanto disponibile, non ne fece altre. Grandezza di Pasolini poeta friulano? Caso? Destino?

È il recordman dei processi prima di Berlusconi – o forse il recordman in assoluto: almeno una cinquantina di procedimenti si elencano a suo carico, molti per i film. Con alcune condanne pecuniarie ma mai un giorno di prigione.
L’accostamento a Berlusconi non è blasfemo come sembra: è l’indice di una correità del sistema giudiziario, si voglia di destra oppure di sinistra.
L’avvocato Francesco Carnelutti, che lo difese in alcuni processi “cinematografici” dei primi anni 1960, e lo faceva assolvere, milanese principe del foro, ottantenne, democristiano professo, veniva indicato dai cronisti giudiziari (il “complesso giornalistico-giudiziario”) come l’amante di Pasolini. Tutto si poteva dire anche allora.

Nella difesa di “Accattone”, contro un avvocato lucano in cerca di pubblicità alle elezioni, che per questo lo aveva denunciato dicendosi offeso da un personaggio malavitoso del film chiamato col suo cognome, Pasolini spiega che “Accattone” è un film “religioso”. Tra virgolette, dice: “Io, che sono marxista, sarei sciocco se non ammettessi che le masse sottoproletarie sono ancora succubi di tale fede, e che la loro vitalità è una forma, tutto sommato, di religiosità”. Cioè inspiegabile. Ma in un senso che è in realtà religioso. Di  una “fede atroce, pagana, barocca, corrotta”, e tuttavia: “Credente è Stella, e credente è Accattone: due sottoproletari e, peggio, due relitti…. La fede di tutti e due è ingenua, superstiziosa e quasi sacrilega: ma c’è. E la loro vita morale – quel filo di vita morale che resta loro – è regolata da quel moncone di fede”.
Lo scrive in nota alla pubblicazione della sceneggiatura, in finta garbata polemica con Carnelutti, il suo steso avvocato. Il querelante, Salvatore Pagliuca, era un democristiano di Potenza, eletto alle prime due legislature, e in cerca, dopo due legislature di astinenza, di un rilancio. Non sarà eletto ma il processo si farà lo stesso, e a Pasolini sarà ingiunto di eliminare, in correità col produttore, il nome Pagliuca dal film.

Sempre ben vestito, correttamente, seppure di dubbio gusto (camicie trasparanti, o traforate, gale): camicia bianca e cravatta, anche nel pieno del casual e dell’unisex. Contro i capelloni. Contro i jeans. Un anticonformista dell’ordine .
Sui jeans faceva eccezione per quelli aderenti dei ragazzi, purché dal “pacco” – scriveva – ben fornito.

“Pasolini è rimasto solo”: Walter Siti, che lo ha avuto sotto mano più di ogni altro in questi quaranta anni, curatore delle opere, lo trova derelitto (domenica su “La lettura), in mezzo al pettegolio – “nella cultura italiana è tutto un brusio, Pasolini Pasolini Pasolini, tutto un ristampare e fare convegni, senza che si imposti un discorso serio”. Impostare un discorso serio probabilmente non sarebbe piaciuto a Pasolini, ma è vero ciò che Siti denuncia e a cui tenta di rimediare.
Il rimedio di Siti e però sconsolato: “la sua attività principale” vuole “la letteratura”. Ma “letterariamente” lo dice “un poligrafo”. Di “talento poliedrico”, ma confuso e confusionario – “meglio il cinema”.

Pubblico – “Io parlo al vento, è il privilegio di chi non ha pubblico”, si consola Domenico Lopresti, il perdente protagonista del romanzo di Anna Banti, “Noi credevamo”. È la condizione del blogger. Che un pubblico ce l’ha, ma informe e indistinguibile – se lo compone, anche. Del romanziere e del poeta, che si creano (immaginano, ipotizzano) un pubblico.

leterautore@antiit.eu

Il pastore errante della filosofia

“L’antisemitismo si rivela resistente. Credere che l’antisemitismo è gli altri è una scappatoia. Ciò che l’antisemitismo è, è l’«io»” – “l’antisemitismo è gli altri” è Sartre. Trawny, uno degli ordinatori dell’opera omnia di Heidegger, non scantona. Ma accanto alla palinodia del suo filosofo, “Heidegger e il mito della cospirazione ebraica”, ha pubblicato un anno fa in contemporanea, in Francia, questo saggio riequilibratore – molto più interessante, che però non si traduce.
Qui non salva Heidegger ma lo situa (giustifica): il suo errare-errore fa parte del suo concetto di erranza. Della provvisorietà - il farsi - di ogni realtà, a cominciare dal pensiero. Che è fisso e mobile. Il pensiero è la domanda, la ricerca, fino all’estremo (al sofisma):“La verità è, nella sua essenza, non verità”. La verità è  “erranza”, un vagabondaggio filosofico. Dunque è il suo antisemitismo un errore? Trawny non lo dice ma lo suggerisce. Ora, il nazismo forse sì. Ma a torto l’antisemitismo si dice un errore: è un limite – lo stesso Trawny lo dice qui sopra. C’è a chi gli ebrei non piacciono, neanche morti perseguitati. Per nessun motivo preciso, certamente non Cristo o altra civiltà, ma perché si vogliono ebrei, non si confondono. Il “giudaismo internazionale” che Heidegger mette sotto accusa nei “Quaderni neri” è il tema dei “Protocolli dei savi di Sion”, cioè della vera cospirazione internazionale, si situa storicamente. Ma è assunto in proprio, tanto più se il filosofo non si riferisce ai “Protocolli”, se non fa un errore storico. 
Con questo limite, Trawny redige un sussidiario esemplare, senza averne l’aria, accurato e semplice, di Heidegger - e un contrappunto alla lettura invadente e pasticciona di Derrida (“Heidegger e la questione”). Il sapere è un momento della produzione della verità. Noi non possediamo un sapere, siamo sapere. “Il carattere esemplare del filosofo non può essere reso che attraverso una messa in racconto”, traduce Trawny. Come di ogni esistenza, secondo lo stesso Heidegger. Ciò comporta la “finitezza della filosofia”. Nessun sapere filosofico saprebbe rinunciare a un sapere oggettivo: filosofare presuppone un’immensa conoscenza della filosofia. Tuttavia, verità e libertà avvengono, per quanto le si curi, o le si trascuri, non si sistematizzano. È questa l’erranza, l’errare è umano.
La finitezza s’intenda come rovesciamento del platonismo e della metafisica, dell’eternità delle idee. È la finitezza, per di più, di un essere che va alla fine, l’essere-per-la-morte. Un concetto originale ma non anodino. “Il suo frutto catastrofico”, commenta Trawny, “è la fine della metafisica sui campi di battaglia e nei campi di sterminio”. La guerra, lungi dall’essere la “purificazione del mondo”, che Heidegger celebra nei “Quaderni neri”, lo tradisce: “Era l’ultimo e senza dubbio il più arrabbiato ritardatore della modernità”. Ma, andrebbe aggiunto, con le stesse armi che lui contestava: la modernità, la tecnica. “In lui”, spiega Trawny che si è centellinato i “Quaderni neri”, “la Seconda Guerra Mondiale con tutte le sue mostruose metastasi, fino alla Shoah e a Hiroshima, diventa l’espressione d’una eruzione vulcanica alle dimensioni della storia mondiale: il mondo doveva uscirne trasformato”. Ma non c’è peggiore tecnicismo (burocratismo, insensibilità) di qulla
aa sua guerra.
L’effetto è doppiamente paradossale, o contraddittorio. Heidegger, il cui bersaglio è il tecnicismo, lo erige a pilastro. La storia stessa dissolvendo nella tecnica - isolati d’intimità e sensibilità saranno possibili, ma “fuori dal mondo”. Inoltre - Trawny se ne accorge subito - per uno “che ha tanto celebrato lo chez soi”, la Gemütlichkeit e il Volk, l’intimità e il popolino, “sia pure in un senso formidabilmente provinciale”, per un tradizionalista, fin nei minuti adempimenti quotidiani, è bizzarro o mostruoso invocarne la distruzione. Un aspetto trascurato, ma costante e vivissimo in Heidegger, è il suo voler essere un “paesano”, contadino e montanaro insieme, radicato dove è nato malgrado l’erranza. C’era un lato localistico fortissimo in lui - in questa dimensione folkloristica rientra il famoso esempio della “storia che avviene” quando l’aereo porta il Führer dal Duce, più stolido che politico.
Dopodiché?  Il fatto più importante, in tanta erranza, è che non c’è nessuna autocritica – la critica di Trawny è nell’esposizione. Senza autocritica per un motivo preciso, che è il fulcro della trattazione: se l’etica è dell’erranza, essa è quella tragica, di Edipo, piuttosto che quella soppesata di Aristetele. Ed è anche un’etica del “non-ritiro”: quello che è fatto è fatto. Heidegger – terza contraddizione - preso al suo amo, dunque, impiccato alla sua corda? “Edipo è l’uomo della storia”, Trawny si limita a sottolineare: “Erra tragicamente, non responsabile né colpevole… Nel dispiegarsi della verità, la responsabilità morale non è che un fantasma”. Nell’etica tragica di Heidegger la libertà è “abissale”. Insomma, non c’è responsabilità. Assolvendosi così preliminarmente, spiega Trawny, “Heidegger ha certamente ragione quando afferma che l’etica della tragedia non è un’etica della vendetta, della colpa, né della coscienza”. Ma c’è una differenza, va detto: Edipo si punisce (si acceca), Heidegger no. L’erranza, conviene Trawny, “finisce in farsa, se non concerne l’errante”.
Trawny, professore di filosofia in un’università di provincia (Wuppertal), presidente dimissionario della Fondazione Heidegger, è l’editore dei primi “Quaderni neri” di appunti del filosofo di Messkirch. Quelli dei primi dieci anni da quando iniziò la pratica, fino al 1941 (ne tenne fino alla morte nel 1976, in tutto 33 o 34 quaderni). Coniatore, nel libro che ha pubblicato in contemporanea ed è stato tradotto (“Heidegger e il mito della cospirazione ebraica”), dell’“antisemitismo istoriale” – dell’“antisemitismo iscritto nella storia dell’essere”, per caso (per colpa ma non per dolo si direbbe in tribunale, un’attenuante forte del delitto). Ha lasciato la Fondazione dopo aver completato la pubblicazione dei primi “Quaderni”, in certo qual modo dissociandosi.
Il punto centrale dei suoi cerchi concentrici è liberatorio e angosciante: l’“erranza”. Il “teatro dell’errore” di Heidegger: “La verità non avviene per caso”, parafrasa Trawny, “ma per necessità, insieme all’avvenire dell’erranza”. Magari di secondo grado: “Se possibile, Heidegger stesso può ancora sviarsi parlando di erranza: l’idea stessa di erranza conduce alla divagazione”.
Heidegger è un filosofo senza etichette. La sua filosofia consiste nel filosofare. Ed è fatta di domande più che di risposte. La sua filosofia diceva “varchi, non opere” – “varco” glielo aveva suggerito Jünger, per il quale “la patria di Heidegger” era la “foresta”: “Là è a casa sua, nella foresta vergine e nei sentieri che non portano in nessun posto”.  Ospite dell’inospitale? “Questo potrebbe spiegare”, ipotizza Trawny, “che, quasi ineluttabilmente, il suo pensiero s’impegna non soltanto su «sentieri che non portano in nessun posto» ma semplicemente si svia”.
“L’uomo è una Katastrophe”, dice Heidegger di Hölderlin. Ma, nella sua essenza e singolarità, a chi altro deve il catastrofico se non a se stesso? “Una storia senza colpevoli è insopportabile”, conclude invece Trawny. È che della guerra vediamo sempre la coda: la catastrofe della Germania, con l’ignominia dell’Olocausto. Mentre si dovrebbe ricordare che fino al 1942 la guerra era vinta, trionfalmente. Era di popolo, era un tripudio, una festa, un banchetto. Il senso – non il mistero - di questi “Quaderni neri” è che Heidegger li abbia conservati integri e con cura, e ne abbia prescritto la pubblicazione. Perché conservare i “Quaderni” nella loro integralità, così come si erano venuti redigendo, quando tutti si sbarazzavano di lettere, pratiche e appunti, delle foto ricordo e anche dei distintivi? Perché Edipo-Heidegger non è  ammutolito, come altri nazisti, dopo la guerra e anzi ha rivoluto con tenacia e furberia la cattedra? Perché per lui non era finita: doveva solo passa’ ‘a nuttata, come nella commedia di Eduardo – lo volle dire anche, da ultimo, nell’intervista a futura memoria con lo “Spiegel”.
Peter Trawny, La liberté d’errer, avec Heidegger, Indigène éditions, pp. 67 € 7

Renzi senza freni

Va a ruota libera domenica Renzi da Fazio sull’onda del facile successo al Senato contro il Senato, e sul fatto che l’Italia per una volta in dieci anni va in controtendenza sull’economia europea. Promette tutto a tutti, sembra eccitato, e forse lo è. Fa al conduttore perplesso perfino la legge finanziaria 2016.
Va a ruota libera ormai ovunque, nelle dichiarazioni estemporanee, nelle conferenze stampa, nei talk-show dove imperversa, in ogni pizzo televisivo. Si agita, parla senza pause, monotono, senza riflettere, a nessuna domanda, fa il ragazzone, senza nessun senso del ruolo. A Fazio ha perfino promesso che assumerà 500 professori all’università, dopo un blocco del turnover che dura da sedici anni, ma all’estero: i professori stranieri sono meglio. Ha ancora i media ai suoi piedi, ma di un altro si sarebbe detto: un’enorme sciocchezza.
Fare il bullo è la sua cifra, la sua scelta di Grande Comunicatore. Ma dopo un anno e mezzo di governo, e dovendo decidere su due guerre, in Libia e in Siria, la cosa stona: sembra fatto, o ebro, comunque su di giri. Mentre getta il fondamento della sua prima sconfitta politica, se Marino farà una lista civica a Roma – e Renzi spinge perché la faccia: con Marino in lizza, il candidato Pd non andrà al ballottaggio, il Cinque Stelle e Marchini hanno più chances.
Perdere Roma, quando si apre la campagna per il voto politico, sarebbe dura. Ma Renzi non se ne cura, fa dire che il voto a Roma si può rinviare, al 2017 per il giubileo, al 2018 con le politiche. E Milano e Napoli? Se Roma si rinvia artatamente, il voto ne sarà contagiato: a rischio per il Pd sarebbero anche le altre due metropoli.

Tra Fca e Gm investimenti a perdere nell’auto

Fca, l’ex Fiat, lo ha anche messo nero su bianco, per spiegare il pressing su General Motors per una fusione: il settore auto spreca gli investimenti, 122 miliardi di dollari nel 2014, non essendo in grado di ripagarli, neanche con ammortamenti prolungati. Per costi unitari di vendita dai margini ristrettissimi, e per volumi di vendite comunque insufficienti.
Lo sbilancio è destinato a peggiorare con l’entrata in funzione di parametri più rigidi per le emissioni inquinanti e per la sicurezza, e con gli sviluppi della connettività. Mentre con una fusione i due gruppi americani potrebbero risparmiare 3-4 miliardi di dollari l’anno, per due terzi nella ricerca.
L’accordo contrattuale ora alla fase finale in Fca dovrebbe aprire la porta al negoziato con Gm. Il management di Gm è contrario, ma gli azionisti no. E comunque non c’è alternativa, secondo Fca e non solo.
Per un consolidamento ulteriore opera anche il presidente di Renaut-Nissan, Carlos Ghosn. Che pure a in programma investimenti per nuovi modelli, per fare del suo gruppo il terzo al mondo, dopo Toyota e Volkswagen.

lunedì 12 ottobre 2015

Problemi di base - 248

spock

“La verità è, nella sua essenza, non verità” (Heidegger)?

“La verità è più strana della finzione” (Mark Twain)?

“La verità vi renderà folli” (A.Huxley)?

“La verità è dubbia solo per i filosofi” (Kant)?

Cos’è un pensiero vero, c’è un luogo di legittimazione del pensiero?

Perché le filosofie possono essere vere e false?

Perché l’università è estranea alla filosofia?

“La logica pervade il mondo” (Wittgenstein)?

“Deve poter sbagliare in grande chi pensa in grande” (Heidegger)?

"Ogni pensiero è un inizio" (Heidegger)?

spock@antiit.eu

Pasolini straziato

Porto le prove, dice Grieco. Ma non porta nessuna prova, tutte chiacchiere – vezzo da vecchio giornalismo, o superficialità ereditaria, se lo zio Ruggero tanti lutti indusse a Gramsci. Chi c’era quella notte all’idroscalo di Ostia? Boh! Che cosa aveva scoperto Pasolini? Mah! Chi ha firmato la sua condanna a morte? Nessuno.
Rizzoli non aveva altra maniera di celebrare Pasolini?
David Grieco, La macchinazione. Pasolini. La verità sulla morte, Rizzoli, pp. 244 € 18,50

domenica 11 ottobre 2015

La terza guerra è Nato

Centoventi-centotrenta  morti e cinquecento feriti a una sfilata contro la guerra del presidente turco Erdogan ai curdi – guerra vera, nella regione curda. Lo stesso che fa arrestare chi twitta in difesa dei curdi. E vuol levare l’immunità ai parlamentari che li difendono.
Non è il primo attentato contro i curdi, altri due o tre si hanno fatto questa estate diecine di morti. Senza colpevoli.
Ma questo, dice Erdogan, potrebbe averlo fatto l’Is. Come no. Magari il presidente turco troverà pure il colpevole, anche due. Ma l’Is ha libera circolazione in Turchia? Libero di confezionare bombe ad alto potenziale, con biglie dirompenti?
Il giorno dopo la strage di Ankara Erdogan si occupa della guerra ai curdi, in Turchia e anche in Iraq, uccidendone una cinquantina.
Erdogan è al di sopra di ogni sospetto perché è il presidente della Turchia, e la Turchia “siamo noi” – è un pilastro della Nato. Per questo non si pone alla Turchia una questione diritti civili o politici.
Si teorizza molto la terza guerra mondiale, quasi la si coltiva. A bassa intensità. Magari a pezzetti, come dice il papa. Ma sono tutti fronti Nato. Aperti dalla Nato, alimentati dalla Nato.

L’Euromerkel contro l’Italia

Barroso e Zapatero confermano a Alan Friedman in “May Way” quanto aveva rivelato il segretario al Tesoro americano Geithner un anno e mezzo fa in “Stress Test”, le sue memorie: a novembre 2011 Merkel e Sarkozy tentarono di “commissariare” l’Italia. E di far cadere il governo. Entrambi confermano anche che Merkel e Sarkozy tentarono di coinvolgere Obama, che invece si defilò.
Non c’è bisogno di un processo, a questo punto: il fatto è acclarato. Accanto alla testimonianza neutra di Geithner, Barroso apporta quella del fronte politico popolare, e Zapatero quella del gruppo socialista. Era il commissariamento “regolare”? No. Era magari “irrituale” ma necessario? No, come si è visto, malgrado le difficoltà causate da quel tentativo, di cui i “mercati” ebbero notizia subito. Fu possibile in una logica europea non comunitaria ma concorrenziale.
Resta da decidere di chi fu l’iniziativa, se di Merkel o di Sarkozy. Dell’Italia no: Merkel e Sarkozy fanno parte dello stesso schieramento moderato a Bruxelles, il partito popolare, una cultura diversa da quella dell’opposizione in Italia, che era allora prevalentemente di sinistra e aveva come riferimento Napolitano. Era una iniziativa congiunta. Anche se da un’idea probabilmente di Sarkozy, l’unico presidente francese che ha fallito la rielezione, dopo essersi fatto eleggere con la sceneggiata squallida di una moglie che non aveva. Non un grande politico, insomma, e un sicuro antitaliano – forse in odio alla bella seconda moglie, Carla Bruni: è lui che ha voluto disintegrare la Libia, sempre contro l’Italia. Ma Merkel disprezzava già all’epoca Sarkozy: i giornali francesi scrivevano che rideva di lui con i suoi collaboratori. 

Fisco, appalti, abusi (78)

Il codice della strada, artt. 7, 140, 157 e 158 dà ai Comuni 32 possibilità di multa. Più una liberatoria “altre varie”. La multa minima è 42 euro. Quanto la retribuzione giornaliera di un vigile urbano. Poi dice che (non) c’è la corruzione.

I due milioni di “cartelle pazze” (false) di Veltroni sindaco di Roma per fare il bilancio 2007 continuano a ingombrare Equitalia. Che le ha pagate, anche se a sconto, e in più ha già speso otto anni, di personale e pratiche, per imporne il pagamento ai contribuenti-trasgressori, stornarle, rifonderle, rivalersi sul Comune. Perché Equitalia non chiede i danni a Veltroni, o comunque al Comune di Roma?

Succede di essere chiamati da Telecom con offerte “imbattibili” cinque e sei volte al giorno, per la telefonia, la navigazione, la telefonia mobile, etc. Si vede che Telecom fuoriesce dal Registro Opposizioni.

Ma non è sfruttamento del lavoro, illegale? Telecom fornisce gli stessi elenchi a diversi call center, che sprecano tempo e personale – i call center sono remunerati per ogni cliente recuperato.

Per qualsiasi operazioni in banca, sia pure il ritiro della carta di credito al rinnovo, bisogna apporre dozzine di firme, su fogli pieni a caratteri minuti – impossibili a leggere, volendo - che nessuno legge. E andranno al macero, dove altro? Servono, si scusa la banca, a garantire la privacy. Imposti dal Garante per la protezione dei dati personali, un’Autorità che non protegge nulla ma pletorica, anche di dirigenti, che costano dai 200 mila euro in su.

Pugni soporiferi

Un racconto lungo e uno breve di noiosi round di boxe. Con due figure, per una vota, anche femminili, ma altrettanto soporifere. Fuori della natura niente London.  
Jack London, Storie di boxe, Il Sole 24 Ore, pp. 79 € 0,50