Se
il debito è colpa, perlomeno in tedesco, credito è credere: “Ogni crisi
finanziaria è una crisi di fiducia”. Obama fu deciso ad affrontarla, come il
suo predecessore Bush, e questo è il segreto della soluzione Usa. Con Paulson
prima e il suo successore Geithner al Tesoro, suggeritori tecnci. Geithner ne
dà testimonianza dal di dentro, e insieme fa un assestamento critico delle
crisi, da un secolo e mezzo solo finanziarie, finite le carestie e le pesti. Un
libro che è un’iniezione di vitalità,. Di intelligenza ma soprattutto di
energia. Di vis politica. Che
l’Europa immiserisce, al confronto inevitabile, dopo sei anni sempre
pericolante. Un libro destinato anche a durare, per lo spessore dell’analisi,
oltre che ricco di particoari di attualità. Che però non si traduce, benché si
traduca di tutto – si è tradotto solo in tedesco.
Il
primo problema che Obama si pose appena eletto fu: “Come ristabilire la fiducia”.
L’analisi era semplice, l’economia era nel circolo vizioso: la crisi
finanziaria – di banche e fondi – aggravava la recessione, e la recessione
aggravava la crisi. Inoltre, cinque “bombe” erano pronte a esplodere, in aggiunta al fallimento della banca Lehman Brothers: le banche Citigroup e Bank of
America, il gruppo assicurativo Aig, le finanziarie pubbliche di controassicurazione
sui mutui “Freddy Mae” e “Freddy Mac”. Più General Motors e Chrysler, “anch’esse
sull’orlo del fallimento”.
Un
nuovo “massiccio stimolo fiscale”, cioè un intervento pubblico, era necessario,
“per colmare il reddito e la ricchezza perduti, rivitalizzare la domanda, creare
lavoro”. E per evitare “la lunga collaterale deriva che il Giappone aveva
sperimentato nella sua crisi negli anni 1990” – la soluzione adottata poi
dall’Europa, benché al Giappone sia costata dieci anni di
stagnazione-deflazione. Le cinque “bombe” erano “tutte molto più grandi di
Lehman. Tutt’e cinque avevano ricevuto grosse infusioni di denaro pubblico per
salvarle dal fallimento; Aig era stata salvata tre volte in quattro mesi. E
tutte erano di nuovo in difficoltà”.
Il
27 gennaio, al primo incontro del nuovo segretario al Tesoro con Obama, il
presidente disse chiaro: “Strappiamo il cerotto e guariamo la ferita. Voi portatemi
la soluzione, della politica m’incarico io”. Il 9 febbraio, come primo atto
della sua presidenza, Obama annunciava un piano di stabilizzazione finanziaria. Forzando Geithner
che ancora non era pronto. Un intervento, tra spesa e riduzioni fiscali, che
avrebbe potuto assommare a 700 miliardi di dollari nello scenario peggiore. Senza
contare gli interventi a favore di soggetti non bancari, Aig, General Motors,
Chrysler. L’ammontare e i criteri del piano sollevarono molte critiche.
Che si provvedesse a salvare “Wall Street e non Main Street”, le banche e i
fondi responsabili della crisi e non l’uomo della strada. Non fu facile arguire
che Main Street si salvava a Wall Street. Ma dopo appena tre anni la Grande
Depressione era stata evitata e anzi l’economia e la finanza erano tornate in bonis. Il Financial Stability Plan di
Geithner, con al centro il Public-Private Investmente Fund, un intervento
pubblico di salvataggio, condizionato alla partecipazione degli azionisti e
investitori, aveva subito ristabilito la fiducia dei risparmiatori e dei grandi
investitori, malgrado le critiche politiche.
In
un certo senso, come controllore alla Fed di New York, Geithner era
responsabile della crisi delle banche, Bear Sterns, Lehman Brothers,
Citigroup, Bank of America, se non degli altri soggetti, assicurazioni e case
automobilistiche. La saggezza di Obama è stata di usare un “uomo delle banche”,
seppure di profilo pubblico, per venire a capo della crisi delle banche, invece
di un giustiziere. Uno che conosceva i fili e i nodi della crisi di ognuno dei
soggetti – di Bear Sterns, la prima banca in crisi, aveva messo a punto e realizzato
il salvataggio e la cessione. Una scelta impopolare, che lo stesso Geithner
aveva prospettato a Obama al primo incontro, che però è stata quella giusta.
E
l’Europa? Geithner ha avuto un ruolo anche nella crisi europea. Prende poche
pagine della sua voluminosa memoria, ma è preciso e sconcertante.
Europa
sbalorditiva e inspiegabile
A
metà settembre 2008, a crisi manifesta, “la Banca centrale europea aumentò i
tassi, il che mi parve sbalorditivo e inspiegabile”. Se non per “un altro round di paranoia da inflazione”, per
l’aunento dei prezzi del petrolio. Il governo americano invece lanciava una riduzione delle tasse per 140 miliardi, un’iniziativa bipartisan, per stimolare i consumi e gli investimenti. Mentre la Fed
di New York, che Geithner presiedeva, negli stessi mesi spingeva le banche
d’affari a ricapitalizzarsi per 40 miliardi di dollari, e a ridure il breve
termine e l’esposizione sui titoli rischiosi. Questo non bastò a salvare una
delle quattro, la Lehman, ma salvò le altre.
Successivamente
due eventi fanno “inorridire” il ministro del Tesoro di Obama, e lo stesso
Obama. L’attacco franco-tedesco all’Italia a novembre del 2011 - l’unica parte
di questa memoria già nota, riprodotta un anno fa all’uscita del libro - e sei-sette
mesi dopo l’attacco tedesco alla Grecia. “L’Europa aveva passato la maggior
parte del 2011 nei tormenti”. Il 21 luglio fu ristrutturato il debito greco.
Nello stesso mese la Bce di Trichet accresceva l’acquisto di titoli pubblici
sul mercato secondario “per aiutare a puntellare la Spagna e l’Italia”. Ma
“l’Europa non persuadeva gli investitori con una strategia credibile”. A
ragione il governo tedesco recalcitrava ai salvataggi, perché “i beneficiari
del sostegno europeo – la Spagna e l’Italia come la Grecia – non mantenevano
gli impegni di riforma”. Ma “la linea che Angela Merkel disegnava sulla sabbia
limitava le opzioni” anticrisi. C’era bisogna di un intervento massiccio
subito. Di un piano di intervento, che nei fatti avrebbe consentito alla Bce
uno sforzo gigantesco a sosteggo del debito e dell’euro, con una “leva” di “piccoli
aiuti” pubblici. Le banche centrali canadese e svizzera lo proposero, la
Bundesbank lo rigettò.
A
un certo punto gli europei presero a rivogersi ai paesi asiatici per finanziare
il loro fondo di intervento, “uno spettacolo abbastanza sconcertante”. Giappone e Cina non risposero.
A
settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, il consiglio europeo dei
ministri del Tesoro. Tentò di non andarci, l’invito fu reiterato e pressante, e
allora parlò “con umiltà”, scusandosi, schermendosi. Ma non poté non dire: “È
più rischioso un intervento a piccole dosi graduale che un intervento
preventivo massiccio”. Gelo, e invito a tornarsene a casa dei ministri dell’Austria
e del Belgio per conto della Gerrmania. “No
leadership”, è il commento interno al Tesoro Usa sull’Ecofin europeo.
Il
26 ottobre fu annunciata una ulteriore revisione della ristrutturazione del
debito greco. Fu annunciato anche “un piano modesto per tentare di fare leva
sul fondo di salvataggio per movimentare il denaro privato, ma era congegnato
male e più che altro sembrò segnalare i limiti di quello che l’Europa voleva
fare”.
Via Berlusconi
Quell’aututnno
Obama “parlò regolarmente con i leader europei”, e anche Geithner con le sue
controparti. Ne ricevettero spesso richieste di intervenire sulla Merkel per
una maggiore flessibilità, e su Italia e Spagna per un “impegno responsabile”.
Qui viene il complotto: “A un certo punto quell’aututnno alcuni rappresentanti
europei ci presentarono un complotto per tentare di costringere Berlusconi
fuori dal governo; volevano che rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo
monteraio finché non se ne fosse andato. Informammo il presidente di questo
sorprendete invito, ma per quanto potesse servire ad avere una migliore
leadership in Europa non potevamo impegnarci in un complotto come quello”.
Geithner ne riferisce come di un approccio e una decisione interna al suo
ministero, al plurale, abbandonando la prima persona, afferenti cioè a qualcuno
dei suoi collaboratori. E probabilmente per iscritto, poiché Obama non parla.
Poi torna al singolare: “«Non possiamo macchiarci le mani del suo sangue»,
dissi”.
Pochi
giorni dopo, ai primi di novembre, si tenne a Cannes il G 20. Obama “passò la più parte del tempo in negoziati riservati, per tentare di aiutare
l’Europa a salvarsi. La maggiore parte della conferenza riguardò le pressioni su
Berlusconi, ma noi continuammo a premere sulla necessità di un robusto firewall, e ci fu molta pressione anche
su Merkel. Merkel si sentì isolata e sotto attacco; non l’ho mai vista così
agitata”.
Poi
le cose cambiano. Cambiano i governi in Grecia, Italia e Spagna. E alla Bce
arriva Draghi. “Ai primi di dicembre Draghi annunciò una massiccia iniezione di
liquidità a lungo termine per il sistema bancario europeo”, con “un istantaneo
effetto stabilizzatore… L’Europa aveva mostrato un po’ di forza e un po’ di
volontà”. A febbraio, al G 20 dei
ministri del Tesoro a Città del Messico, il morale era su: “Gli europei erano
sollevati, molti dichiararono che la crisi era finita. Io non lo pensavo.
Sembrava più una tregua che una soluzione”.
L’attacco alla
Grecia
A
luglio del 2012 Draghi impegna la Bce a fare “qualsiasi cosa” sia necessario per
salvare l’euro nella sua integrità. Geithner ci vede un’identità di vedute con
l’intervento monetario e finanziario americano. Ma è sorpreso – “terrificante”
– da Schaüble, che in un incontro successivo gli prospetta come “una strategia
plausibile - e anche desiderabile”, nelle sue parole, di Geithner, l’uscita
della Grecia dall’euro. Come una lezione agli altri: l’evento, sempre nelle
parole di Geithner, “sarebbe stato abbastanza traumatico da aiutare a
spaventare il resto dell’Europa, inducendola a cedere più sovranità a un’unione
fiscale e monetaria più forte”. E come incentivo all’opinione tedesca a
sostenere l’euro, senza più il pregiudizio antigreco.
Schaüble
viene presentato ora come la controfigura di Merkel, quello che si prende il
ruolo del cattivo per coprire politicamente la cancelliera con il ceto politico
più recalcitrante all’idea di eurozona e di Europa. Geithner lo dice simpatico,
“engaging”. Ma ha agitato i mercati, aggravando la situazione, più del necessario,
molto di più, in più occasioni, troppe.
“A
giugno dl 2012 la crisi eurpea bruciava più che mai”, ricorda Geithner. Ma
solo Draghi se ne preoccupava. E la risolverà ripercorrendo – in parte e in
ritardo – la ricetta americana: “L’Europa non era risucita a convincere il
mondo che non avrebbe consentito una catastrofe”. Geithner ha presente,
ricorda, quello che tutti sapevano ma nessuno in Europa denunciava: “difese fragili
e politiche confuse”. Scrive allora a Draghi per incoraggiarlo: “Temo che
l’Europa e il mondo guarderanno ancorta a te per un’altra dose di abile,
creativa manifestazione di forza da banca centrale”. Draghi sa di doverlo fare
ma la Bundesbank non glielo consente. I tedeschi “non avevano un piano per
salvare l’Europa ma sapevano quello che non volevano”, così Geithner
sintetizza le sue conversazioni con Draghi – “quel luglio Draghi e io abbiamo
avuto parecchie conversazioni”: “Davano una lettura limitativa dei poteri legali
della Bce, e si opponevano a qualsiasi cosa sapesse di questione morale”, di salvataggi
con denaro pubblico (quello che la Bundesbank aveva tranquillamente fatto in
casa, va aggiunto).
Qualsiasi cosa
Il
consiglio di Geithner è di “lasciare la Bundesbank fuori”. Il 26 luglio uno
studio Citigrouprp dà la Grecia fuori dall’euro al 90 per cento. Quello stesso
giorno, a un convegno a Londra, al termine di una serie d’incontri con bancheiri e
gestori di fondi, Draghi proferisce le parole famose: “Nei termini del nostro
mandato, la Bce farà qualsiasi cosa per preservare l’euro. E credetemi, sarà
abbastanza”. Fa l’annuncio, scrive Geithner, sotto l’impressione del pessimismo
che ha riscontrato negli incontri londinesi, ma non ha un piano. Geithner va
allora a Sylt, dove Scahüble è in vacanza, per tentare di convincerlo. Ne
ricava quanto si è già riferito – “lasciai Sylt più preoccupato di prima”. Si
ferma a Francoforte da Draghi, che lo
rassicura, ma sempre senza un piano.
Di
ritorno a Washington, Geithner spiega a Obama che l’Europa può mettere
a repentaglio il programma anticrisi americano. Obama chiede più volte che
l’Europa affronti la crisi con decisione. A settembre Draghi annuncia il
programma di riacquisto di titoli pubblici europei sul mercato. I mercati si rassicurano, ma per
poco. Viene Cipro, altra confusone.
La
memoria lascia gli europei in crisi. Tra “impegni sempre confusi e incompleti”,
nei “loro tardivi e spesso inefficaci tentativi di imitarci”. Sempre divisi su
“un robusto programma europeo di ricapitalizzazione diretta del sistema finanziario, come il nostro”. Incapaci di “un piano effettivo di un sistema comune di
assicurazione sui depositi” (quello oggi in discussione). Con una
disoccupazione a livelli impensabili, “molto peggiore che negli Usa, una
crescita stagnante, … un’austerità mal posta”. La conclusione è triste: “C’era
tanta sofferenza innecessaria dietro questi dati”. E orgogliosa: “Gli errori
degli europei … fornivano un’ottima pubblicità alla nostra risposta alla
crisi”.
Nessuno
ha contestato, in questo anno dacché il libro è uscito, la minuziosa rappresentazione
di come Geithner ha salvato l’America dalla depressione. Che quindi è da ritenere
veridica. Obama ha peraltro terminato il mandato a Geithner al termine della
sua prima presidenza – è d’uso rinnovare la squadra al secondo mandato. Che ora
si accontenta di gestire il fondo di private equity Warbug Pincus.
Timothy F. Geithner, Stress Test. Reflections on financial crises, Random Huse, pp. 580,
ill, £ 9,99