sabato 21 novembre 2015

Secondi pensieri - 240

zeulig

America – È cinema, si sa, la mitografia del Novecento – con annessa, ora, Silicon Valley. Ma non perché i miti li sa vendere, bensì perché li sa creare, per la famosa innocenza – l’innocenza libera, la colpa assoggetta. Come Omero, fabbrica anonimi, produttori, registi, attori, truccatori, poco lirici ma possenti. Ed è cinematografica per una sua speciale costituzione materiale. O questa è l’effetto della mitolessia: per l’onestà del diritto, la giustizia.

Romano è l’impero americano anche per essere fortemente allogeno, un vasto popolo di meteci attorno a un nucleo dominante. Per i molti una promessa e una speranza, malgrado la durezza. Da ammirare, l’America ha il destino che si è costruito - se sono solitamente i migliori, i migranti sono anche i peggiori, E da temere, è uno scacciasassi. Romano non era latino, nome di una razza o tribù, ma un premio, il riconoscimento di un privilegio. L’imperium romanum non era militare né dittatoriale, neppure giuridico a guardarci bene, le leggi erano molteplici, ma un comune sentire e un modo di vita. È riconoscersi nella causa dei soggetti, darne l’impressione. Un imperialismo che accomuna e non esclude i sudditi. Roma fu repubblicana anche nell’impero: c’era a Roma una nobilitas plebea, pare a pieno titolo del gruppo dirigente: famiglie plebee sedevano in Senato e figuravano tra i cavalieri. Così in America, c’è povertà e anzi indigenza, più che in paesi meno ricchi come l’Italia, ma non c’è l’invidia sociale. Il sogno americano del Number One è ridicolo, ma la legge dà a ognuno la dignità, il senso della legge che è forte anche tra i criminali.

Contro-giustizia – Nasce mezzo secolo fa come esercizio sovversivo per una migliore giustizia, democratica. Contro i santuari del potere: è “poter esercitare, nei confronti di qualcuno che sfugge di solito alla giustizia, un atto giudiziario”, per Foucault in un testo che si legge in “Microfisica del potere”, la raccolta di interventi politici curata nel 1977 da Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino.
Lo stesso Foucault, però, la trova contemporaneamente contraddittoria: “Nei confronti della giustizia, la lotta può prendere diverse forme. Innanzitutto, la si può attaccare attraverso le sue stesse regole. Evidentemente non è un atto di giustizia popolare, è un tranello teso alla giustizia borghese. In secondo luogo, si possono compiere degli atti di guerriglia contro il potere della giustizia e impedirgli di esercitarsi. Per esempio, sfuggire alla polizia, schermire un tribunale, andare a chiedere i conti a un giudice. Tutto questo è guerriglia antigiudiziaria, ma non è ancora contro-giustizia”.
Foucault presuppone la “lotta” contro la “giustizia borghese”.Ma poi rileva che, nel suo esercizio, la contro-giustizia diventa sovversiva, quindi contraria alla giustizia. E non può essere altrimenti: “Quando si esercita un potere bisogna che il modo in cui lo si esercita – e che deve essere visibile, solenne, simbolico – non rinvii che al potere che si sta effettivamente esercitando, e non ad altro potere che non è realmente esercitato in quel momento”.
Il dilemma è stato sciolto dalla giustizia di “Mani Pulite”, da Di Pietro a Ingroia, facendo della giustizia il contropotere e insieme il potere, nell’irrealtà (abolizione) della giustizia stessa, dell’insieme di norme e procedure su cui si vuole regolata. Ma questa è, con pochi, minuti, aggiustamenti, la “giustizia” su cui Manzoni ha costruito i “Promessi Sposi”: “La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di far punire altrui. Non già che mancassero violenze e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità….”. Con effetti protervi. Contro l’individuo: “(Le leggi) potevano ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l’uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d’aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere”. E contro la società: “L’uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni”. Si rafforzano i gruppi, si creano cordate – Manzoni cita il clero, la nobiltà, i militari, i mercanti, gli artigiani, i giurisperiti, i medici: “Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il vantaggio d’impiegare per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti: i più onesti si valevano di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie..”.

È parte, è stata, dell’idea dei contropoteri, attorno alla controinformazione, o informazione libera  Una entri sociali.

Poesia – È veicolo del divino per sant’Agostino, del religioso. L’introspezione, la ricerca di sé, la coscienza come creazione e insieme manifestazione del divino. Come nella concezione oraziana, del poeta che non può essere un mediocre. Ma di più, in una concezione della divinità che è ricerca e non Olimpo di dati. Tensione cioè costante e mai finita, come l’eterno, l’infinito.

Verità – Non “al di fuori del potere” la voleva Foucault. Non “al di fuori”, in realtà: del soggetto, del contesto, della storia.
È uno strumento più che un fine. Dice meglio Foucault nel prosieguo: “La verità è di questo mondo; essa vi è prodotta grazie a molteplici costrizioni…. Ogni società ha il suo regime di verità, la sua «politica generale» della verità”.

Viaggio – “L’andare e il tornare l’ha creato dio”, è proverbio calabrese.

È interno allo stesso modo che esterno – è esterno per essere interno. “Parto per ritornare” sarebbe - sarebbe stato - il saluto giapponese del partente, secondo Lévi-Strauss, come se il viaggio fosse stato una costrizione, un adempimento doloroso.

È nel tempo anche o più che nello spazio, come dice Benjamin: “Lo stimolo epidermico, l’esotico, il pittoresco prendono solo lo straniero”, mentre il nativo “si sposta nel tempo invece che nello spazio” (il suo “libro di viaggi… avrà sempre affinità col libro di memorie”). O Lévi-Strauss: “Un viaggio si inserisce simultaneamente nello spazio, nel tempo e nella gerarchia sociale” - come sa la letteratura dell’ebreo errante.

zeulig@antiit.eu 

Lo stereotipo meridionale

Una ricostruzione di come la “questione meridionale” è nata, alla metà degli anni 1870, si è sviluppata, ed è stata ricostituita nel fascismo e in questo dopoguerra. A opera di politici, economisti, storici anche, e sociologi. Il sottotitolo è “Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi”: Lupo, come storico e come meridionale, si sente impaniato in una falsa questione. Ma lo stereotipo è la questione stessa: la storiografia si può – si sarebbe già dovuta subito – liberare, la cosa no.
La questione è un fatto di pregiudizio più che di analisi. Le “due economie” non sono divise, anzi l’una è funzionale all’altra, non può essere altrimenti, e altrettanto a questo punto l’unità. E tuttavia la questione è più viva che mai: l’altro ieri sulla povertà, ieri sul leghsimo, oggi sulla criminalità, domani chissà, argomenti non mancheranno al bisogno.
La “questione meridionale” vera e propia è solo una diversità di accumulazione primaria, di capitali, mercati e conoscenze. Che l’unità purtroppo ha aggravato, con leggi d’imperio subito, e poi con una spesa sperequata. Soprattutto nell’istruzione, ma anche nelle infrastrutture materiali, malgrado il fantoccio Cassa del Mezzogiorno, una specie di punching ball dello sdegno nazionale. La società è la stessa, negli assetti, la cultura, la mentalità anche e le logiche familiari, malgrado su questo terreno il pregiudizio ami esercitarsi di più, l’imprenditorialità, i consumi, le abitudini alimentari, demografiche, le logiche politiche, e più in generale la sfera pubblica.
Salvatore Lupo, La questione, Donzelli, pp. 200 € 19

venerdì 20 novembre 2015

Il mondo com'è (239)

astolfo

Contro-giustizia – È la matrigna della giustizia politica, della giustizia cioè contro cui come contro-giustizia voleva reagire. Uno dei lasciti del ’68, era all’origine la reazione di alcuni giudici a un complesso giudiziario strutturato e funzionante come strumento di potere e del potere. Era in nuce “un” potere che insorgeva contro “il” potere dominante, e si è presto trasformato esso steso in potere, insindacabile se non unico. Contro la politica, la Funzione Pubblica e perfino lo stesso apparato repressivo, specie i Carabinieri. Una scorciatoia al potere.

Controinformazione – È – era – l’informazione libera, fuori dai condizionamenti economici, editoriali o politici – fuori dal coro, o dal “potere”. L’espressione forse più influente del Sessantotto:la possibilità e la capacità di criticare. Con propri mezzi, benché limitati, e presto con le radio libere. Pio Baldelli, storico del cinema di formazione e poi sociologo delle comunicazioni, poteva teorizzarla già nel 1972, in “Informazione e controinformazione”, una ricerca che rivalutava la controinformazione come antidoto alla cosiddetta comunicazione di massa, via radio e tv.

Curdi – Si possono dire l’unica nazionalità nel Medio Oriente, a fronte dei conglomerati di popolazioni, tribù e fedi che sono l’Iraq e la Siria, e lo stesso Iran, ma senza un Stato. Divisi tra Iran, Iraq, Siria e Turchia.
Sono stati e sono la grande minoranza nel mondo arabo, e poi turco, come i berberi in Nord Africa. Iraniani e semiti al momento della conquista araba, hanno mantenuto la loro diversità. Il feroce Saladino”, che conquistò Gerusalemme e Antiochia e le difese contro la terza Crociata, di Riccardo Cuor di Leone, fu sultano curdo dell’Egitto, della Siria e dello Heggiaz, l’attuale Arabia Saudita, con i luoghi sacri islamici - detto in realtà il Legislatore, rimasto nella storia, anche nel Limbo di Dante, come sovrano saggio e generoso. Lo stesso quando passarono sotto l’impero ottomano.
Dentro l’impero ottomano, così come a Est dentro l’impero persiano, hanno mantenuto sempre uno statuto di autonomia. A Sèvres, nel trattato di pace, 1920, la Turchia accettò la formazione di un Curdistan indipendente. Ma tre anni dopo, nel trattato di Losanna, l’indipendenza venne ridotta ad autonomia amministrativa, e solo per i curdi dell’Iraq. I curdi si ribellarono, ma prima la Gran Bretagna, poi i nuovi governi turco e iracheno li schiacciarono.
La guerriglia è stata da allora endemica in Iraq, e da un trentennio è stata ripresa in Turchia. Qui dal Pkk, una formazione politica moderna, il partito dei Lavoratori del Kurdistan, fondato e gestito da Abdullah Ocalan, vecchio comunista. In Iraq attorno alla famiglia Barzani, ora nella persona di Masud, capitribù influenti.

Gioacchino da Fiore – Henry Swinburne, “Viaggio in Calabria”, lo riduce a povero visionario di paese. Le guide gli indicano con  orgoglio Celico, dicendolo il pese natio del “grande santo e saggio”. Swinburne ha “difficoltà a indovinare di chi parlassero”, finché un monaco non gli spiega che si tratta di Gioacchino da Fiore, “famoso nella storia del XII secolo per la sue profezie e le sue interferenze nella politica del tempo”. Oggi si fatica a immaginare come un uomo isolato, Gioacchino, Campanella,  in epoche di comunicazioni lente e difficoltose, potesse interferire nella politica, ma avveniva. Swinburne oerò non apprezza, come non aveva apprezzato il monaco, scrive, Riccardo Cuor di Leone: “Egli pretendeva di conoscere le Scritture attraverso visioni miracolose e di essere capace di interpretare le parti più difficili dei testi sacri. Il libro delle rivelazioni era il suo campo di ricerca preferito. Il nostro Riccardo I lo mandò a chiamare a Messina per interrogarlo sulla spedizione che si apprestava a fare in Palestina, ma questo sovrano acuto e libero pensatore, che era un discepolo dei trovatori e iniziato alla loro scienza, rivolse al profeta domande così difficili da confonderlo e farlo cadere in varie contraddizioni. I prelati e gli uomini di corte ridicolizzarono anch’essi il visionario e lo rimandarono scornato nel suo convento calabrese, dove morì nel1202”. Sembra una rappresentazione da libero pensatore, ma Swinburne era nato e fu cattolico, praticante.

Giornalismo – Annaspa perché annacquato (sorpassato) dall’informazione in rete, inventiva, o virtuale, immediata, incontrollata e incontrollabile?  Il ruolo del giornalismo, come definito un secolo fa da Walter Lippmann, e dallo stesso Lippmann successivamente in dibattito con Jhn Dewey, è di mediare tra i gruppi di comando - élites – e popolo. Che altrimenti non saprebbe come orientarsi né districarsi. Il giornalismo cioè ha una funzione democratica, in quanto consente di capire per decidere.
Era una concezione professionale (strumentale) del giornalismo, che Dewey contestò. In una sorta d anticipo del comunitarismo, Dewey voleva l’informazione come una forma di democrazia, uno scambio tra uguali, in conversazione, dialogo, dibattito. Quello che oggi si chiama forum, chat,  blog alla Grillo, che avrebbero fatto inorridire Dewey – il dibattito fra “non uguali” (per formazione, carattere, censo, esperienza, etc.) è demagogia.
D’altra parte, il ruolo di “fabbrica del consenso” che Lippmann attribuiva-imputava al giornalismo (“che la fabbrica del consenso si capace di grandi raffinatezze, nessuno,  penso, lo nega”), e che sembrava limitativo, si è liquefatto. Per il nulla, solo parole – molte: si fa “rigaggio” di supporto alla pubblicità.

Grande Guerra – Il maggior numero di chiamati alle armi nel 1915-18 furono lombardi, la Lombardia avendo la popolazione più rilevante. Diversa la graduatoria se si rapportano i mobilitati ai mobilitabili (maschi adulti): prima viene l’Abruzzo, seconda la Calabria. Diversa la graduatoia anche dei mobilitati in rapporto alla popolazione: prima la Sardegna, poi la Basilicata, quindi la Calabria, con 113 chiamati alle armi su mille persone. C ‘erano più uomini che donne al Sud?

Imperialismo – Non c’è rumeno che - sia stato in Italia pure dieci e vent’anni, e ci abbia fatto fortuna - non usi una macchina tedesca. Non c’è nordafricano del Maghreb, tunisino, marocchino, algerino, che non preferisca, anche di terza e quarta mano, una macchina francese. L’imperialismo è stato coloniale, cioè armato, anche se poco e male (Adua), tale era la superiorità di cui si investiva, e invasivo: spendeva forse più di quanto ricavava. Ora quello sforzo produce effetti duraturi, anche senza armi. È una tigre di carta, diceva il presidente Mao, ma allora in senso proprio: di parole, argomenti, persuasioni. 

Islam – Vive (rivive, revival) da mezzo secolo, da Khomeini, nel mito dell’identità tra politica e religione che sempre lo ha rovinato. A opera di sceicchi e imam tanto fanatici quanto, in genere, ignoranti. L’identità è stata vera solo col fondatore Maometto, e non poteva essere altrimenti. Ma con i suoi familiari già diventava caduca e traditrice.
Vive anche (rivive) la sua guerra di religione tra opposte confessioni. Tra sette più che confessioni. Una storia che anche cristianesimo ha vissuto ma riducendola accorto, per la parte cruenta, a pochi decenni dopo Lutero. Invece nell’islam si rinnova periodicamente. Senza esclusione di violenza.

Prevale la lettura di una guerra tra sunniti e sciiti.  È invece il blocco arabo della penisola contro l’Iran. I curdi, la forza più efficiente contro il califfato sunnita, sono sunniti essi stessi.

astolfo@antiit.eu

Il comico inquieto

Nanni Moretti leonardesco, pittore della “cosa mentale”, e non polemico, politico, comico - come l’immagine del suo personaggio vorrebbe - Stéphane Delorme ritrova a Roma per il numero di novembre della sua rivista. L’occasione è l’uscita di “Mia madre” nelle sale francesi a dicembre, ultima novità della stagione. Lappuntamento romano coincide con il suicidio di Chantal Akermann, cineasta belga poco conosciuta in Italia anche se ha fatto una quarantina di film (era a Venezia ma alla Biennale, con una installazione), coetanea di Moretti, anch’essa autrice recente di un film sulla morte della madre, “No home movie”, ancora in uscita, e di un libro, “Ma mère rit”. Il numero su  Moretti diventa così un bilancio generazionale, dei sessantenni. Che Delorme sintetizza, nella presentazione e nella lunga intevista con Moretti (coadiuvato da Emiliano Morreale, il critico dell’“Espresso”, che è anche direttore della Cinemateca Nazionale e con Moretti ha diretto il festival di Torino), come “sentimentale”. Proprio così: “Moretti è uno inquieto, un intranqullo”.
È anzitutto un irrequieto, “è sempre stato un marciatore”. Un po’ in tutti i film, di più in “Sogni d’oro”, “La messa  finita”, “Palombella rossa”: “Cammina parlando, gesticolando, vociferando. È un marciatore d’appartamento”. Ma, forse, più che un marciatore, bisognerebbe dirlo un film maker d’appartamento: di una rete e un orizzonte personali, intimi. E in questo senso lo è anche negli ultimi film, dove invece Delorme lo trova statico, e specie in “Mia madre”. Ma, poi, anche qui ha accanto in forma di alter ego femminile il personaggio-regista che è lui stesso, agitato, pieno di sé, in forma problematica, certo, pieno dei suoi problemi, e “inadeguato” – per quanto, un narciso inadeguato è probabilmente una primizia, e perciò “adeguato
È il secondo numero che l’ex bibbia del Nuovo Cinema francese, anni 1960-1970, dedica a Moretti, dopo quello del 1998 per l’uscita in Francia di “Aprile”, e lo trova molto cambiato. Con “La stanza del figlio”, “Habemus Papam”, e ora “Mia madre”. Parlando di sé, del suo lavoro, e del ruolo di Margherita Buy in “Mia madre”, sua alter ego, Moretti fa più volte riferimento a una “inadeguatezza”. Come incapacità a “stare in pace con se stessi”. Per un’irrequietezza di fondo. Forse anche, opina, per la mancanza di fede – o non per l’insocievolezza?
La forte carica sentimentale che la rivista sottolinea in “Mia madre” e nei due-tre film precedenti,  Delorme trova appunto  elaborata da Moretti nella “cosa mentale”. Tra il sogno sempre della cosa, e l’agitazione infantile costante, il bisogno del persoanggio di muoversi e quasi correre. Con una recitazione che si vuole sempre “a lato” del personaggio, al modo brechtiano dell’estraniamento.
“Cahiers du cinéma”, Nanni Moretti à Rome, p. 98 € 5,90

giovedì 19 novembre 2015

La guerra introvabile

I russi bombardano “soprattutto” centri medici e gruppi di assistenza nella zona Is. Sono così precisi, e cattivi? Ma lo dice l’Is e noi ci crediamo.
Il putiniano russo ora anti-Putin su “Repubblica” distingue: l’aereo scoppiato in volo sel Sinai è colpa di Putin, Parigi è colpa dei terroristi. La pace è divisa, divisibile?
Michale Walzer, il polemologo più illustre, non trova la “guerra” nell’intervista con Arturo Zampaglione su “Repubblica”: “Siamo veramente in guerra? È un conflitto reale e concreto, ma di un genere mai visto”. Non c’è “un fronte”, dice: il fronte segue una linea retta, fisica, geografica?
Walzer ha tutti gli elementi ben chiari di questa guerra: “Abbiamo un’alleanza tra sciiti, Hezbollah e Bashir al Assad che combattono contro l’Is, ma anche contro tutti i sunniti. Gli Stati Uniti sono alleati dell’Arabia Saudita, la quale però finanzia segretamente i jihadisti. I turchi bombardano più i curdi che l'Is: e invece i curdi sono i più temibili avversari sul terreno dei jihadisti. La Russia ha un ruolo ambiguo” - ambiguo? “Intanto in Europa la guerra è soprattutto condotta dagli apparati di polizia”. Tutti fatti che labella di “stranezze e contraddizioni”.

Problemi di base - 254

spock

Muore ancora giovane chi è caro a Dio?

A quale Dio?

Un Dio che ama gli assassini?

Perché gli assassini piacciono, quando si dicono terroristi?

Perché tante frottole sull’Is, non è cosa nostra?

Tutti bravi ragazzi, biografie mirabili, ma dove imparano a usare le armi, che non è facile?

O hanno imparato da “Mean Streets”, sembrano una copia?

Tutti sconosciuti a parenti, amici, conoscenti, questi “Mean Streets” sono ninja?

Kennedy ci ha lasciato due guerre disastrose, Obama vuole superarlo?

spock@antiit.eu

Alice fa 150 anni

Lo Scartazzini di Alice, “Attraverso lo specchio” compreso, con ogni immaginabile lettura, rigo, si può dire, per rigo – ci sono pagine di sole note. Ma divertente, e illustratissimo, con un paio di centinaia di foto e riproduzioni, di Tenniel, e di Dalì, Potter, e altri. Martin Gardner, che lo impostò nel 1960 (poi rieditandolo un paio di volte, ogni volta arricchito, “More Annotated Alice” nel 1990, e la “Definitive Edition” nel 1999) era un matematico avventuroso e un logico come l’autore di “Alice”, e ogni suo indovinello e gioco di parole sa sbrogliare e avvilupare con altrettanto humour.
Il racconto di Alice può essere accidentale, come la vulgata dello stesso autore vuole, nato per caso come una delle tante favole – “faity-lore” – che raccontava alle bambine degli amici: “Nel tentativo disperato di  tirar fuori qualche nuova riga di fairy-lore, avevo mandato la mia eroina dritta giù per una tana di volpe, per cominciare, senza la minima idea di cosa sarebbe successo dopo”. Ma la materia per una lettura, per le tante letture di questo volume, tra le righe c’è – è il motivo per cui la “Avventure di Alice sottoterra” si sono via via trasformate in “Alice nel paese delle meraviglie”.
Questo bellissimo volume è anche Alice in America: è qui che Carlo Ludovico Dodgson, diacono, trova da qualche tempo terreno fertile, svaniti gli entusiasmi europei, da Joyce a John Lennon. Non solo nel dialogo a distanza con Gardner – autore di suo di una micidiale serie di indovinelli e volgarizzazioni di logica matematica. Anche in Walt Disney, e altrove a Hollywood, negli illustratori – di cui una cinquantina sono qui presentati – e nella critica. Questa edizione speciale, per il centocinquantenario di “Alice”, è stata ulteriormente arricchita dal presidente emerito della Lewis Carroll Society of North America, Martin Burstein, con un centinaio di annotazioni in aggiunta all’edizione del 1999, e una presentazione aggiornata.
Stranamente però continua a mancare, in questo universo carrolliano, anche in questa summa delle sue possibili letture nell’epoca della parità di genere e delle quote rosa, ogni riferimento ad Alive come “la donna”. Come era invece per il suo autore - la sua biografia è oscura ma anche chiara. C’è la bambina semplice e sensata, anche se non ingenua, di fronte a un mondo che non lo è. Ma la donna che, benché bambina, è tutte le donne, nell’immaginario del celibe diacono e non solo, questo ancora manca, anche in questa bibbia di Alice.
Lewis Carroll, The Annotated Alice: 150th Anniversary Deluxe Edition, W.W. Norton & C., pp. 432, ill. € 38,85

mercoledì 18 novembre 2015

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (266)

Giuseppe Leuzzi

“Vai o non vai al Sud, il Sud ti è dentro come una maledizione”, Saverio Strati. In esergo a “Terra inquieta” l’antropologo culturale Vito Teti propone una serie di citazioni tutte memorabili. Strati, però, viveva nei pressi di Firenze, dove ognuno è forestiero – il fiorentino è molto chiuso nella sua unicità, anche con gli altri fiorentini.

Vero è invece Tahar Ben Jelloun: “Coloro che non hanno altra ricchezza che la loro differenza etnica e culturale sono votati all’umiliazione e a ogni forma di razzismo. Danno anche fastidio. La loro presenza è di troppo”.

Si moltiplicano di nuovo i libri di mafia, aggiornati alla ‘ndrangheta. Finito il ribaldo Berlusconi, si vede che la voglia di turpitudine non è e questo cessata, e si torna al genere usato, pronubi Enzo Biagi e invadenti cronisti giudiziari. Sono libri di e su pentiti. La storia fatta dai pentiti, è mai scesa così in basso? E dai Procuratori dei pentiti, certo – ogni pentito ha un Procuratore.

Aspromonte
È il “Luogo dell’Inaccessibile”, l’“ultimo, romantico baluardo dell’’Ignoto”. Ma “quanto sarà grande questo terribile Aspromonte? Mah, più  meno come le Langhe, come la Brianza, come il Friuli, ci risponde chi lo conosce, giusto per darci un’idea. A sorvolarlo in elicottero ci si mette di meno che ad attraversare Milano o Roma in automobile. Beh, ma allora?” La risposta è che è pieno di forre, canaloni, fittissime boscaglie e occulte grotte. Non è vero, ma “l’inesperto tace, pensando però in cuor suo che l’Aspromonte, con tutto il rispetto, non può essere più ostico delle sierre americane, delle giungle asiatiche, delle hjghlands scozzesi, delle Cévennes francesi, territori anch’essi, ai tempi loro, pieni di forre, canaloni e fuorilegge, e che nondimeno un adeguato John Wayne, alla testa di un adeguato 7° Cavalleggeri…”.
È “Il ritorno del cretino”, di Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

A lungo, per quasi quarant’anni, è stato sinonimo di rapimenti di persona. Paolo Pollichieni he ha fatto il censimento per i quarant’anni della “Gazzetta del Sud”, 1952-1992, con questi numeri: 134 sequestri operati in Calabria, 24 rapimenti eseguiti a Roma e al Nord, Piemonte, Lombardia, con gli ostaggi trasferiti nell’Apsromonte - più 56 operati fuori Calabria a opera di malviventi calabresi. In questi termini: “Una via crucis della Calabria che ha visto la sua immagine trasferirsi, nel’immaginario collettivo, in quella di terra dei sequestri, battendo in questo triste primato anche la Barbagia”. Con molte “stranezze”: “Un fenomeno prima sottovalutato, poi trattato con grande dilettantismo investigativo, mai compreso ed esplorato nella sua essenza socio-criminale. Si è tentato perfino di convivere con i sequestri”.
Le stranezze arrivano attorno al 1990. I paesi protestano, le donne, i giovani, i vescovi, i parroci. Il 1990 vede due soli rapimenti. Ma il Nucleo Anti Sequestri Polizia di Stato (Naps) viene smantellato. La caserma dei “Cacciatori (Carabinieri) nel cuore dell’Aspromonte, completata dopio vari attentato, resta inutilizzata. Nel 1991 i sequestri sono dieci. “E comimncia la stagione delle «stranezze». Cominciano gli «errori» dei sequestratori, si susseguono «conflitti a fuoco», in cui tutti sparano ma nessuno sa farlo bene, si impongono figure di «ostaggi Rambo» che strappano catene, spaccano lucchetti, corrono alla velocità della luce e beffano i loro custodi”.
Effetto di assicurazioni ben riuscite?

Sullo stesso speciale della “Gazzetta del Sud” Franco Calabrò inanella una serie di gustosi ricordi della Montagna, da cronista di mala di lungo corso. Uno in particolare merita di essere ripreso: “Emilio Santillo fumava sigari Avana, enormi e profumati. Sulla sua scrivania teneva una pistola col calcio di madreperla con la quale amava gingillarsi, mentre intratteneva – e la cosa era ormai un rito – l’inviato del giornale del nord spedito di corsa «laggiù» per sentire cosa veramente questo gentiluomo campano (per noi tutti era «lo sceriffo”) avesse scoperto dopo l’Appalachin della ‘ndrangheta, dopo la sorpresa nella radura di Montalto, uno spiazzo tra enormi faggi nel quale, la prima domenica d’ottobre del 1969, i notabili della mafia della provincia di Reggio Calabria stavano tenendo una riunione”.
Già questi mafiosi divisi amministrativamente per provincia – per questura – mettono in allarme. Ma il meglio deve venire – i mafiosi sono anche incappucciati, come una setta: “I nomi delle persone incappucciate? «Ve li daremo, ma non adesso. Aspettate e vedrete». Così il questore Santillo rassicurava gli inviati, offrendo sigari e whisky, centellinando a sua volta le notizie, una al giorno. «Così – diceva – li teniamo qui». Per tre anni la favola degli incappucciati di Montalto, degli insospettabili, grosse personalità del mondo politico si diceva, fatte fuggire nel momento dell’irruzione della polizia, è stata ripetuta, condita in tutte le salse”.
Non si può scappare dal Montalto, in cima all’Aspromonte, non ci sono caverne sotterranee o altre vie di fuga. Ma ecco il meglio: “Siamo stati in pochi («gli altri vanno via, voi restate – diceva Santillo - perciò state attenti!») a saperlo dall’inizio: gli incappucciati di Montalto non sono mai esistiti. È stata la brillante e un po’ cinica trovata di Santillo, il quale, così facendo, era riuscito a far tenere i riflettori accesi su di lui per mesi, per anni addirittura. Tornando a Reggio Calabria, in qualità di capo dell’Antiterrorismo, lo confessò apertamente, sbottando in una grossa risata: «È stata una mia invenzione – disse – i politici incappucciati a Montalto non c’erano, ma i fatti stano dimostrando che nella mafia ci sono, eccome»”. Se non è zuppa pan bagnato, si direbbe in toscano.

Africo rossa
C’è un’altra Africo oltre – accanto? – a quella nera di Gioacchino Criaco e Francesco Munzi, violenta, lacrimosa. E a quella inverosimile di Corrado Stajano, che si riedita immortale - Africo infeudata a un prete, peraltro poco o nulla mafioso, un don Camillo del sottogoverno. È quella di Rocco Palamara, a suo tempo celebrata, giusto prima che il nero la ricoprisse. Palamara, rintracciato da Antonella Italiano alla periferia di Roma per il suo mensile “In Aspromonte”, ha un’altra Africo: attiva, imborghesita, anche nella contestazione, da “eretici anche tra gli anarchici, ai quali io per primo mi accostai da autodidatta”. Un paese proiettato decisamente verso il nuovo: “Il paese passava il periodo migliore della sua storia: terminata la vita nelle baracche dei campi profughi, tutti avevano una casa vera. Con i proventi degli emigrati c’era un livello di vita mai visto. I ragazzi in età frequentavano al 90 per cento le scuole superiori”. Dacché facevano appena le elementari in un’aula-stalla, gli “africoti “ primeggiavano “da ogni punto di vista all’università di Messina” – allora la Calabria non aveva una università.
Negli stessi anni i ragazzi partecipavano, ad Africo e nei dintorni, nella cosiddetta “Locride”, in massa a manifestazioni spontanee per la legalità: “Una mattina, mentre con mio cugino e mio fratello passeggiavamo nel cortile per l’ora d’aria, al muro di cinta ci chiamò la guardia per dirci che fuori della porta del carcere c’erano più di mille studenti che reclamavano la nostra liberazione. Era il 30 aprile 1971, e quella fu, credo, la prima manifestazione antimafia in assoluto”.
Rocco Palamara ha una storia movimentista unica in Italia, benché ignota. Ragazzo, fu “come tutti” nel Pci, nella federazione giovanile. Manifestando spesso: “Facevamo frequenti scioperi che vivevamo come feste popolari, bloccando, se era il caso, i treni e la Statale 106”. Fino al 1968. Quando Palamara fondò un circolo anarchico, dice, “maoista”. Ma anche questa esperienza si dissolse. Palamara allora si attaccò alla ‘ndrangheta, che metteva i tentacoli, “legata a un noto personaggio del sottobosco democristiano”. Nella disattenzione dei Carabinieri e con la complicità dei tribunali. È uno spaccato di verità che Palamara dà, che gli storici purtroppo trascurano, ma non chi quegli anni ha vissuto, sul “ruolo nefasto di moltissimi inquirenti e magistrati che, invece di combatterli, favorirono i boss nella loro conquista mafiosa della Calabria”. La vecchia mafia, l’“onorata società”, si era dissolta o era marginale, e mai avrebbe pensato di essere rigenerata dallo Stato, e anzi”mafiosizzata”, con le mani sull’economia – questo non lo dice Palamara, ma è quello che è avvenuto, a cui si riferisce.
I Palamara non erano mafiosi, ma armati sì. I giovani, perché i genitori di Rocco se n’erano andati a Milano, dove facevano i panettieri. Dopo le prime spedizioni punitive subite dai mafiosi di paese, Rocco prese la pistola e sparò anche lui. I Carabinieri addossarono la colpa a lui. Rocco allora andò in caserma per autodenunciarsi, ma come legittima difesa, dopo le angherie e le sparatorie a scopo intimidatorio subite. Fu l’inizio di una lunga persecuzione, da parte dello Stato. I giudici incolparono Rocco Palamara di rissa aggravata e tentato omicidio, lui e non i mafiosi. In concorso col fratello Bruno, 17 anni, che non c’era nella scena della sparatoria, e il cugino Salvatore, 16 anni, con il quale Rocco era seduto sulla porta di casa al momento dell’arrivo dei sicari. Diciotto mesi di carcere, tutt’e tre, fino al processo con assoluzione. Non uno dei sicari e dei mandanti venne perseguito. Né allora né dopo, per i tanti attentati che i Palamara subirono. Neanche per l’azzoppamento a fucilate dello stesso Rocco nel 1975. Anzi, per l’uccisione a fine 1976 del cognato Salvatore Barbagallo, insabbiarono le indagini.
Al contrario, quando un piccolo fascista di un paese limitrofo denunciò un getto di benzina sulla sua auto e ne accusò due fratelli di Rocco, Bruno e Gianni, i due furono subito arrestati. E quando dimostrarono che si trovavano a Torino al momento del fatto, i giudici li incolparono lo stesso come mandanti. E li condannarono a cinque anni di prigione.
Sono rimasti invece ad Africo i Criaco. Gioacchino, al quale è dovuta la leggenda nera, e la mitografia della gente povera – anche se i Criaco di Africo sono professionisti. Eccetto il fratello minore dello scrittore, killer di mafia. Un omonimo del fratello, Pietro, ora insegnante nei dintorni di Torino, è stato nell’estate del 1985, durante le vacanze scolastiche a Africo, autore del film “Terrarossa”, ispirato al racconto “La Teda” di Saverio Strati. Una Maria Criaco pubblica una poesia sullo stesso fascicolo di “In Aspromonte” che  registra l’incontro con Rocco Palamara.

Africo nera – 2
La storia nera di Africo è legata bizzarramente ai Criaco. Pietro Criaco ricorda il suo film “Terrarossa” su “In Aspromonte” con astio. Il suo contributo al mensile titola su internet “Il film «Terrarossa» fu un plagio del regista Molteni”. Il mensile evita questo titolo, una pagina dando ai protagonisti locali dell’impresa, amici e compagni del giovanissimo regista con la sua cinepresa da amatore. Un film della cooperativa “Il grido”, antonioniana, dice una locandna dell’epoca, ma questo Criaco oggi lo dimentica. È invece avvelenato col regista Pietro Molteni che nel 2001 ha tratto da “La Teda” un film commerciale, con lo stesso titolo di Criaco, bisogna dire. E con Walter Pedullà, allora presidente della Rai, che non comprò il suo film. Ma anche Strati, a cui Pietro Criaco andò a far vedere il film a Scandicci, si mostra tiepido nel ricordo dello stesso improvvisato regista.
La storia propriamente nera di Africo è quella dell’altro Pietro, il fratello di Gioacchino. Un killer di mafia, a Africo, Milano e dintorni, e in terra straniera. Il vero personaggio e la vera storia che Munzi ha girato, il cui “Anime nere” non ha nulla a che vedere come soggetto - in parte come personaggi ma in altro contesto - col romanzo di Gioacchino, solo il titolo hanno in comune. La vicenda del film è invece quella di Criaco jr., Pietro. Gioacchino assicura alla “Stampa” che Pietro “non ha mai commesso un omicidio”. Ma la Polizia non lo crede. Pietro era uno dei trenta ricercati più pericolosi, anche se fu arrestato, la notte di Natale del 2008, in famiglia con la moglie, Nadia Romeo, e i due figli - lo arrestò il capo della Mobile di Reggio Calabria Cortese, che per questo fu promosso a Roma, e poi a capo dello Sco della Polizia, il servizio operativo centrale.
Pietro si era illustrato sui giornali per aver voluto, latitante, dare l’estremo saluto al suo capomafia assassinato, il 13 ottobre 1997, dalla “famiglia rivale, i Cataldo, con una scarica di pallettoni che gli avevano quasi staccato il capo. Si era fatto strada tra i partecipanti al lutto, e chinatosi sul cadavere lo aveva baciato. Quella sera stessa uno dei Cataldo era stato assassinato, e altri subirono la stessa sorte nei giorni seguenti. Agli atti Pietro, al 41 bis, è classificato come “elemento tra i più pericolosi e violenti della famiglia Cordì, inseparabile compagno di Cordì Salvatore (figlio di Cosimo), cono il quale è stato concorrente in diversi fatti di sangue. La sua attività spiccatamente «militare» è tenuta molto in considerazione dai membri della famiglia Cataldo”.
In un' intercettazione prima del’assassinio di Cosimo Cordì, maggio 1997, si sente Pietro Criaco parlare di un fallito agguato contro due avversari e dell’organizzazione di un nuovo attentato: “Io non so come cazzo sono usciti... Gli è andata bene, gli è andata... Vediamo il bazooka di cacciarlo fuori... Che gli si caccia il cuore di fuori e glielo si mangia... Si deve menare... È in tutto il soggetto di  “Anime nere”.
Quando “ho visto il film per la prima volta a Venezia, ho incomimciatpo a piangere dopo pochi minuti e non ho smesso”, dice Gioacchino Criaco a “La Stampa” 17 settembre 2014. Dice che lo stesso avviene a Africo e a Catanzaro: “Tutte le persone di Africo, presenti in sala, piangevano. È successo anche ieri durante l’anteprima a Catanzaro. La gente comune, quelli della mia estrazione, piangerà”. Criaco non sappiamo, che si è laureato alla Cattolica a Milano e vi esercita. Ma la gente comune in Calabria non piange, quando mai?

Il film di Munzi-Rai è violento in tutto, politicamente scorretto: il lutto come esibizione, la crudeltà, la sopraffazione, nonché il tradimento costante, dai parte dei deboli, di cuore e di denaro, e la virtù – l’applicazione, il lavoro, gli affetti familiari – ridicolizzata in culti insensati, in pratiche bizzarre, nella stupidità. Con le “umili origini” sempre, e l’“estrazione”, mentre magari dire delinquenza sarebbe stato meglio. Il padre dei Criaco, Domenico, è stato assassinato nel 1993 in una faida di mafia, Gioacchino aveva 28 anni, era già a Milano.

leuzzi@antiit,.eu

In guerra con le donne

“Non sapeva spiegarsi come era là, per che ragione”. L’interventista Alvaro, arrivato al fronte, non è più lui: è smarrito, come tutti. Vi è arrivato comodo in treno, coccolato da donne sempre molto gentili, e appena sceso ha sentito “odore di carogna sul vento”.
Aveva passato anche qualche notte in cella, per eccesso di interventismo, ma appena arruolato l’allievo ufficiale Alvaro era tornato in camera di punizione per insubordinazione nei confronti del sergente istruttore: il futuro scrittore era impulsivo – come lo era stato in precedenza, con gli studi tormentati. Quando ne scrive, è invece improvvisamente maturo: posato, critico. Questo già nel corso della guerra - che lo aveva visto al fronte a lungo e ferito a un braccio - nelle “Poesie in grigioverde”, 1917. Di più in questi racconti, che culmineranno nel 1930 nel romanzo “Vent’anni” – un romanzo molto saggistico, che nella riedizione del 1953 Alvaro quasi dimezzerà. Ventenne, il più giovane ufficiale del reggimento, Nietti-Alvaro “era stanco delle poche cose torbide della sua vita, magari soltanto pensate, ed era divenuto adolescente e candido”. Di fronte alla morte ritrova senza vergogna l’innocenza.
Della guerra Alvaro è lo scrittore che forse ha trattato di più. In versi, in articoli di varia natura, in “Vent’anni”, in questa ventina di racconti, di cui una dozzina disseminati in varie raccolte, gli altri dispersi negli anni 1920 in quotidiani e periodici che Anne-Christine Faitrop-Porta ha rintracciato. Dove lo scandalo – la carneficina – è però la tela di fondo, l’immaginazione di Alvaro corre per altri livelli di sorpresa, di scoperta. In questi racconti si direbbero metafisici. In guerra come in pace, questo è il mondo di Corrado Alvaro, in cui ci si innamora di una voce, si discorre con un animale, si ascolta un albero”, con questa conclusione introduce la raccolta la curatrice, instancabile ordinatrice e studiosa del trascurato scrittore – uno dei migliori lasciti del Novecento, a ogni rilettura
La guerra di “Vent’anni” è incomprensibile e sporca. “Terrosa” la dice Anne-Christine Faitrop-Porta, riprendendo la recensione che subito ne fece sulla francese “Revue des deux mondes” Louis Gillet, storico d’arte e della letteratura - un compagno di studi di Péguy, sodale di Rolland, che in Italia giovinetto nei viaggi familiari era stato “fulminato dalla bellezza”. La guerra di questi racconti è femminile. Non materna, è lieve: misteriosa. Donne premurose lo accompagnano in treno e nelle soste, a Bologna e altrove. Infermiere. Prostitute anche, di guerra. E bambine cresciute dalla guerra, donne senza più padri né mariti.
Tutte il sottotenente-scrittore guarda di lontano, come un senso di vita febbricitante che fa lievitare lo squallore. E più per sguardi incerti, voci, canti, rumori, la vita indovinata della “stanza accanto”, della persona accanto. Il resto della vita fuori della trincea. La Rosa dell’omonimo racconto, che lo ospita in accantonamento, “piccolina, bionda”, appena sedicenne, ha un padre “che combatte dall’altra parte, con gli austriaci”. Rosa abita un un paese dell’Isonzo, i cui nomi sanno “di donne e di libertà”, perché la guerra, “a quelli che la cominciavano, aveva sentore di libertà e di donne”. Anche le donne di “Le strade fatte a vent’anni” hanno uomini dall’altro lato, qualcuna in Russia, tutte incinte con vergogna del “nemico”. Il nemico aveva molte facce etniche, non solo, ma è ambiguo, a volte siamo noi stessi.
Sono anche racconti di paesi di confine, caso unico nella memorialistica di guerra. Merito non minore di Alvaro è il riconoscimento dei dolori delle etnie di mezzo, gli sloveni che si ritrovano italiani. Che nell’ultimo racconto, “Felicità II”, così sintetizza. “Era anche questa una specie di guerra, perché si trattava di paesi di confine. Ed è curioso che alle volte le lotte di razza divengano facili da risolvere fra uomo e donna; e poi, da giovani”.  

Coronano da ultimo la raccolta due racconti di pace sui luoghi della guerra, protagoniste innocenti slovene, che in tre anni hanno dovuto cambiare lingua e patria. 
Corrado Alvaro, Memoria del cuore, Città del Sole, pp. 127 € 12

martedì 17 novembre 2015

Alla guerra coi cori

Si sfogliano con tristezza i giornali del dopo-Parigi. Non tanto per le vittime quanto per se stessi: dove siamo, chi siamo, dove andiamo? Cori, giuramenti, fiaccolate, marsigliesi, esecrazioni, molte, arresti a strascico, a caso, reti, chat e forum commossi, “non prevarranno”, e  bandierine bianche. Candide? Probabilmente sì, ma di innocente stupidità.  
Le “testimonianze” sono “ben scritte”, le foto lusinghiere di scorcio, le storie strappalacrime, senza freno gli scoppi di generosità e volontariato, e manifestazioni a iosa, tutte spontanee naturalmente, di politici in fila per la foto, con le gerarchie note, tra paesi e tra politici. Tutto un compiangersi addosso. Nel segno sempre della tolleranza, del dialogo. Che è un estratto d’ignoranza - tollerare i violenti è assurdo, ma la stupidità dei buoni sentimenti non ha limiti.
I terroristi sono nazisti, e con questo è detto tutto. La “gente” soffre-gode come i suoi politici,. Che hanno fatto le guerre allegri e altrettanto stupidi. In Afghanistan, in Iraq, alla Siria, con sufficienza, come se fossero a una passeggiata dei soliti buoni sentimenti, per introdurre la democrazia. Come quando si facevano le guerre coloniali per introdurre la buona creanza - sempre la guerra è giusta per gli stupidi: introdurre la democrazia con le bombe, e poi dolersene e andarsene.
Forse lo scoramento è troppo grande per poter fare una sommatoria e un’anamnesi non prevenuta di tutta la stupidità di questo Occidente – non c’è solo l’Europa imbelle, gli Usa di Obama capeggiano la partita. Ma non c’è altro. 

L’Is, qui lo finanziamo e qui lo neghiamo

Prove inconfutate di Putin al G 20 sulle complicità di membri eminenti della coalizione occidentale anti-Is con lo stesso Is, e silenzio. Silenzio dei finanziatori, Turchia, Qatar, Emirati, Arabia Saudita, e si capisce. Ma silenzio anche degli occidentali, che pure minacciano guerre, Obama, Hollande. E  silenzio dei media italiani. Solo Maurizio Molinari ha il coraggio (sic!) di dirl, sulla “Stampa”
– dopo che Raffaello Binelli ne ha accennato ieri sul “Giornale”.
C’è un motivo? Parigi e Antalya valgono un viaggio, ma perché sprecare tanti viaggi? O è roba da tenere nascosta? E perché? I dati di Putin vengono peraltro dagli Usa, da studi e analisi condotte dal dipartimento di Stato, dal Pentagono e da istituti di ricerca. Tutta roba peraltro che si sapeva, ma non per i giornaloni italiani e i telegiornali. Benché siano alla rincorsa di fatti e facce per “tenere su” l’evento, venti pagine, venti minuti. Ma non un minuto né una riga per la verità.

Il libro dell’erranza

La partenza è fulminante, nell’avvertenza alla raccolta e nel saggio iniziale, “Geoantropologia di una terra mobile”: “Non si parte fino in fondo, non si torna mai fino alla fine e non si resta mai del tutto”. Tutto memorabile. La partenza dell’emigrante organizzata e vissuta come una morte\resurrezione. La partenza come una persistenza. La mobilità degli immobili. La mobilità naturale. Con alcuni limiti.
Teti epitomizza i lavori che più gli stanno forse a cuore, sui luoghi della memoria. Con dettagliate descrizioni e ricostruzioni – a futura memoria ? – dei riti religiosi in numerose località, per le più diverse occasioni, la Settimana Santa, le Madonne, i santi patroni. Notevole, a più riprese, la rivendicazione di Polsi, nel quadro della rivalutazione della pietà popolare – ma molto dell’evidenza resta ancora da scoprire, anche se ne abbiamo scritto nel “National Geographic” e su questo sito già nel 2007,
http://www.antiit.com/2007/09/polsi-il-luogo-di-culto-con-pi.html
e successivamente su “Calabria Sconosciuta” n. 127, la cultura accademica ha il suo passo, lento (molto resta peraltro da dire di mlolto semplice, contro la criminalizzazione assurda del santuario nel quadro del “tutto mafia”). 
Sono le feste che più prendono l’attenzione dello studioso. Con quache pausa. Imbattendosi nell’“inchino” della Madonna al mafioso di Tresilico, Teti si limita a elencare una trentina di firme che stigmatizzano la passività di fronte alla mafia – di passività di fronte alla mafia può dire chi non vive in Calabria, o vuole andare sui giornali, ma l’antropologo? Senza nulla accertare del fatto, che è l’invenzione dell’inchino e non l’inchino. E poi, perché trenta mentre i prefichi sono stati trecento, tremila, forse tre milioni? Lo studioso si lascia sfuggire la conformazione dell’opinione oggi, “in rete”, in video, peraltro opportunamente angolato e illuminato, tutti in rete siamo anche registi. Salvo, qualche pagina dopo, ricordare orgoglioso, della Madonna della Consolazione a Reggio, che “nel 1952 i portantini passavano davanti alla sede della Camera del Lavoro, fermavano la «vara» e salutavano col pugno chiuso”.
Teti è di proposito attento ai riti religiosi come riti della permanenza, in subordine all’emigrazione, interna  ed esterna, il fulcro della sua ricerca, con vari casi sul terreno. Sottitendendo una critica alla “distruzione della tradizione”, con l’“aggiornamento” voluto da  Giovanni Paolo II. Una malintesa modernizzazione dei riti, ben prima delle processioni “mafiose”. Contraria alla pietà popolare, è da aggiungere, ma a opera di vescovi e sacerdoti che vengono dal popolo più che di estrazione borghese – è una delle asimmetrie della modernizzazione, da parte di un’istituzione che è sempre stata il maggiore veicolo di democrazia.
Emigrazione-morte - con resurrezione
Il terreno principale di ricerca è l’emigrazione. Fenomeno “positivo” malgrado tutto, nellequiparazione geniale emigrazione-morte – morte-resurrezione, bisogna aggiungere. Nei cerimoniali, della partenza e del ritorno, nella corrispondenza, quasi semrpe per interposta persona-medium, nei tempi lunghi e quasi biblici. Una “ideologia popolare dell’emigrazione” delineando in Calabria “sul modello dell’ideologia arcaica della morte”. Quasi a “fondare la possibilità di abolire il tempo e l’evento, di negare il distacco, la frattura”. Nei ritrovamenti, “che avvengono nella comunità di origine generalmente in occasioni rituali, la separazione è come se non fosse mai avvenuta. Il distacco viene ricomposto. Passato e presente non esistono… Tutto è come prima”. Non del tutto, ma è come se. Da bambino, ricorda Teti, quando il padre tornava “per portarci tutti in Canada”, “immaginavo che Toronto fose una prosecuzione del mio paese!”, e poi avrebbe visto che il paese è “rimasto un centro, un punto di riferimento per i tanti abitanti di Toronto”. Ora forse meno. Ma è vero che la memoria persiste, per due, anche per tre, generazioni.
L’emigrazione Teti analizza da tre punti di vista. Il viaggio (interno), la fuga (emigrazione), i ritorni (nuovi arrivi, ritorni in senso stretto) - ”la nostalgia dei locali incrocia altre nostalgie”. Da sempre, “senza soste”: “Fin dall’antichità la Calabria è stata il frutto di mobilità e di una continua re-impaginazione dei luoghi, senza ignorare una storia di passaggi, arrivi, invasioni”, i coloni greci, i romani, i bizantini, i normanni, gli arabi, i francesi, gli spagnoli.  “Da fuori arrivano” anche “i santi, che segnano culti, riti, fondazioni”.
Sembrerebbe un’analisi datata, storica. Anche perché un altro tassello Teti aggiunge al complesso del pregiudizio: l’emigrazione come violenza, subita e inferta - anche questo un pregiudizio ritornante, oggi sui barconi, a opera di eminenti sociologi. E invece no: l’emigrazione Teti inscrive in un tema più vasto, “il motivo della mobilità”, in Calabria e nel Meridione - ma nelle pianure venete, le montagne friulane, l’Appennino ligure-piemontese, non dev’essere stato dissimile. Non solo nell’emigrazione: “L’emigrazione non ha fatto che moltiplicare gli effetti di questa declinazione inquieta del motivo della mobilità”. Molto peraltro è cambiato, e molto no. Come dato di fatto, senza bisogno di letture. Il contadino di Rossano che dice a Nitti nel 1910: “Qui abbiamo un Dio che quando piove ci porta a mare, e quando non piove secca il mondo”, potrebbe averglielo detto due settimane fa, per l’ultima alluvione.
La patria di periferia
Il fondale è la Calabria. Terra di montagna e di mare. Come le isole, Sardegna, Sicilia. E, come la Sardegna, con un rapporto difficoltoso col mare, anche se, con i suoi 780 km. di costa, è quasi un quinto del perimetro costiero della penisola. Ma una regione fuori di sé. Plurima per linguaggi e mentalità, anche se “le Calabrie” è stata denominazione presto disusata, a differenza che per gli Abruzzi e le Puglie. Di grande mobilità – friabilità, fragilità – per frane, alluvioni e terremoti: centinaia di paesi abbandonati, rifondati altrove, delocalizzati. Nei soli terremoti del 1783 scomparvero 150 villaggi: 183 furono distrutti, 33 furono ricostruiti. È tuttavia un territorio e una popolazione che caparbiamente si ritrovano, nella parentela, nella compaesanità, e nella rete di fiere, feste, riti.
È la scoperta di Teti, della socialità diffusa e delle radici inestirpabili. In rapporto al presupposto – che è anche suo, del ricercatore – di una Calabria anarcoide e introversa che è però ricca di socialità, familiare e non – per alcuni, bisogna dire, perfino eccessiva, estendendosi ai comparaggi, le clientele, la paesanità. Fortissima questa nelle aree di emigrazione, che si fa per concentrazione, punti di agglomerazione-riproduzione delle comunità di partenza: paesi che si riproducono a Perth, a Melbourne, a Halifax, a Toronto, meno popolosi che all’origine ma più condensati.
Con molti debiti verso Alvaro: “Corrado Alvaro è il grande testimone e il commosso cantore della fine della civiltà dei contadini e dei pastori calabresi”. Che è vero, anche questo, ma senza la commozione e senza il canto: non c’è compiacimento né nostalgia in Alvaro - a differenza di Josef Roth, cui Teti lo appaia. La guerra invece, la sua guerra del romanzo autobiografico “”Vent’anni”, e dei racconti raccolti da Anne-Christine Faitrop-Porta sotto il titolo “Memoria del cuore”, Alvaro la vede come Teti dice, come uno spartiacque, e in certo senso come una vindicatio: di onestà, di purezza di cuore, che sono in fondo tutto il coraggio. Di un sacrificio senza corrispettivo e senza doglianza.
Un girovagare, questo volumone, approfondito a volte, per la “patria”. Un luogo che non può esere la regione, entità amministrativa, ma una condizione che quel nome evoca. A cui lo studioso tenta di reagire, e più spesso di porre rimedio, essendo la “Calabria”, come il “Sud”, una condizione carceraria, anche per colpe non commesse – il pregiudizio, lo stereotipo (di cui al nostro “Fuori l’Italia dal Sud”, 1993, coetaneo curiosamente di “La razza maledetta” dello stesso Teti).  Da Alvaro spaziando in letture più o meno congrue, Pasquale Rossi o Michelstaedter, ma più letterarie che antropologiche. Con l’ansia infine, purtroppo, della resurrezione in veste di turismo. Con i suoi interlocutori, con i migliori, i più illuminati, Teti si aspetta la resurrezione, il ripopolamento, la rinascita dei borghi abbandonati in grazia di feste, festival e ospitalità diffusa. Utopia, che maschera l’incostanza e la superficialità, causa ed effetto dell’abbandono – la partenza è anche una fuga, un desiderio di tagliare la corda, molto prosaicamente.
Il turismo, giusto come esempio, significa accoglienza. Accoglienza organizzata, semplice, “spontanea”, che si costruisce sul lungo termine, con la perseveranza e i piccoli passi, per la quale la “regione” non è portata, arrivata per ultima e vivendola all’ora del tutto subito. Il turismo del tutto subito è fatto per grandi numeri con forti investimenti, quelli che la “regione” rifiuta, mentre l’accoglienza è sedimentazione di lunga lena, non s’improvvisa.
Senza storia
La storia resta ancora da fare – la Calabria è curiosamente senza storia, un tempo perché non aveva università, ma ora ne ha tante: le poche che ci sono, di Placanica, di Bevilacqua, sono esercitazioni politiche. Ma anche l’antropologia, di una regione periferica, che non riesce a farsi centrale a se stessa – come la Sardegna per dire, o la Basilicata accanto. E più da alcuni decenni corrotta dalla sua stessa incapacità, che è divisione. Periferica a se stessa. In fuga costante, ma più smarrita che progettuale – l’emigrazione era, è, ben un progetto, e di che forza, la periferia è invece introversa e confusa. Un mondo di tutti contro tutti, o dell’acquiescenza supina alle “tradizioni” – “ma non ci so stare più di due giorni”, la nostalgia della nostalgia… Cioè contro se stessi.
Il nodo è la storia che manca – in questo senso Alvaro diceva la Calabria “la grande silenziosa”. Senza la quale anche l’antropologia resta di superficie. Una regione che ha di vivo solo il pregiudizio. Sconosciuta a se stessa, e per di più sprofondata in un “Sud” che, come Teti ben sa che lo ha esplorato, è un bastonatura ininterrotta senza misericordia.
Teti è un antropologo culturale curiosamente fermo al classismo - in realtà al partitismo, una sorta di giapponese in una giungla desertica. Di un’antropologia che si può dire di superficie. Ma ben raccontata. Con molte prelibatezze. Molte persone, oltre ai luoghi: Wenders, riservato, Sandro Onofri, sindaci, amici, familiari, allieve. Con molte foto, di Ugo Mulas (inedite), Salvatore Piermarini, Mario Dondero, Wim Wenders, e dell’autore.
Vito Teti, Terra inquieta, Rubbettino, pp. 486, ill., € 18

Italia commissariata, dopo i giudici i militari

Dopo i giudici, i comici e i prefetti, un maresciallo della Guardia di Finanza. Mentre i Carabinieri scalpitano. Il commissariamento della politica imperversa senza soste: li mettiamo sotto inchiesta e poi ci sostituiamo, tutti ladri, gli altri.
I militari irrompono, anche loro, sotto il segno della sinistra – del nuovo – che viene da destra. Convergendo verso l’interesse personale, della carriera all’ombra della “società civile” e dei belli-e-buoni della Repubblica. Il maresciallo ci tiene a farlo sapere, a suo modo onesto – ingenuo non si può dire: “Ho votato An e poi Lega” – no, prima ha votato Msi. Ora vince con Grillo, il nuovo che avanza.
E non è tutto il nodo della dissoluzione, i giudici non mollano. Cambiano anche loro di segno. Il ruolo che era dell’andreottiano Borrelli a Milano, e del confuso comunista Caselli a Palermo, con tutti i suoi cattivi allievi, viene ora supplito da Pignatone a Roma, di una sinistra molto Dc.

lunedì 16 novembre 2015

La pace di Vienna

Non sarà stato un altro congresso di Vienna, non c’è alleanza, e nemmeno accordo, ma la configurazione di quello che può essere l’accordo sì. L’unico anche, in questo nodo del Medio Oriente che ora è islamico. La pace è di là da venire, ma la sua geometria è individuata e accettata
L’Is non è un problema occidentale, ma delle due potenze-confessioni islamiche nel Medio Oriente, Iran e Arabia Saudita. Che finalmente, per la prima volta, a Vienna si sono incontrate. È un problema di sciiti e sunniti anche, ma questo in secondo battuta, lo scontro è tra le due sub-potenze. Anche confessionali, ma armatissime, seppure non efficienti, l’una contro l’altra.
L’Is è un problema occidentale per la facciata, per il terrorismo ad alto effetto mediatico, ma è uno scontro quotidiano tra le due sub-potenze confessioni, con diecina e centinaia di morti ogni giorno. È un problema occidentale anche perché gestito male, con molte riserve mentali e molto dubbie reazioni. Dalle primavere arabe all’attacco alla Siria, non si sa in nome di che cosa, alla mancata cortocircuizione dell’Is stesso, che si alimenta via Turchia e potentati della penisola arabica, Arabia Saudita compresa.
Ma l’Occidente dovrà ora reagire. Dopo Parigi,. E soprattutto dopo l’intervento russo, militare e diplomatico - Iran e Arabia Saudita erano a Vienna allo stesso tavolo grazie soprattutto a Mosca. I suoi leader non danno una strategia chiara d’intervento, Obama, Hollande, Cameron, ma non potranno lasciare la pace a Putin.  

Letture - 235

letterautore

Amore – Simenon lo scoprì a settant’anni. Dopo averlo cercato tutta la vita, con ferocia, in due lunghi matrimoni, di oltre vent’anni l’uno, finiti in liti sordide, velenose, patrimoniali, dopo essersi sbranati da separati in casa. Barando, anche lui: “Ho barato, anch’io per ottenere quella tenerezza che non mi è stata data. Ora la conosco. La aspiro, direi, da tutti i pori della pelle. Ne godo dal risveglio fino al momento di mettermi a letto e potrei dire che ne godo ancora durante il sonno. Conosco infine la coppia, faccio parte di una coppia, do e mi si dà al centuplo. È così che, a settantadue anni, ho una fame di vita che non avevo mai sentito. Invecchiare lo pensavo come una diminuzione. So ora che può essere un arricchimento, che un  uomo della mia età può conoscere la pienezza dietro la quale ha corso tutta la vita. Non sono il solo. Non sono il solo ad aver cercato questa tenerezza che è al vera forma dell’amore”.

Avanguardia\Tradizione – C’è ben più vitalismo, a cose fatte, tutto somato, a posteriori, nella tradizione che nell’avanguardia. L’una comporta un senso di vecchio, antiquato, fuligginoso, l’altra di innovazione, attività furiosa, rapidità, ma alla sommatoria l’inverso emerge, l’avanguardia è rugginosa, e più povera che ricca. La conclusione viene ovvia scorrendo le mostre in corso al Palazzo delle Esposizioni di Roma: la collezione Phillips di Washigton, chr inaugurò negli anni 1920 il museo negli Usa, con un capolavoro di sessanta artisti significativi dell’ultimo mezzo secolo, europei più che americani; una mostra sul design italiano applicato nel primo Novecento fino alla guerra, intitolata “Una dolce vita? Dal liberty al design italiano 1900-1940”: e una mostra sulla pittura russa negli anni del bolscevismo, centrata sulla celebrazione della meccanizzazione e il trasporto, così importante in quel paese sterminato, “Russia on the Road 1920-1990”. E tanto più la tradizione s’impone nei due paesi, Italia e Russia, soggetti a dittature. Con un doppio perverso effetto, dunque, come se gli istinti vitali si acuissero in assenza di libertà.
Il design italiano del “ritorno alle origini”, di Novecento, Realismo Magico, Metafisica, si compara molto positivamente rispetto ai reperti del futursimo, oggetti d’arte o d’uso – mobilia, tappezzeria, vasellame, etc. Sia per la parte creativa – forme, colori, volumetrie – sia per quella artigianale, realizzativa. Come se la scarsa capacità inventiva si accompagnasse a una realizzazione aprossimativa, poco curata o poco capace. 
Lo stesso effetto fa l’arte del secondo Ottocento-primo Novecento vista cronologicamente, come è ordinata la collezione Phillips, o al paragone col pompierismo dei sessanta quadri russi sui mezzi di locomozione. Non c’è paragone fra la vitalità, anche dei quadri di maniera sovietici, per il taglio, il colore, la suggestione, rispetto ala opacità di molto avanguardismo europeo e poi americano, tra geometrie rigide, colori sterili, macchie informali.

Céline – Ha al passivo l’antisemitismo, e all’attivo, oltre allo “stile”, la medicina dei poveri che praticò sempre. Su questo però non si riflette abbastanza: che si avvicinò alla medicina con una tesi su Semmelweiss. Un programma. Il medico “salvatore delle madri” fu osteggiato al punto da finire in manicomio – dove forse fu finito dalle guardie.

U. Eco – Rilegge il passato. Dal “Nome della rosa” in poi, nella serie ormai lunga dei romanzi. Non lo inventa, lo ripropone.: come se da scienziato dei segni lo riscoprisse. Ma non lontano dal senso comune, in questo “Numero zero” come nel precedente “Cimitero di Praga” etc.. Una rilettura, una delle sfide del postmoderno. Per questo sa anche già un po’ di muffa.
Le sue trame, oltre che il dettagliamo parascientifico, sono una sfida al senso comune. Chissà se si rileggeranno quando il senso comune sarà quello dei suoi romanzi.

Italia  - Si vicende facile il “Numero Zero” di Eco all’estero, ha tutti gli ingredienti del pronto consumo, gli stereotipi: Mussolini, mafie, bufale mediatiche, assassinii. Come promette il soffietto pubblicitario del suo editore americano. Ma la pubblicità è assicurata in automatico ovunque, in inglese, spagnolo, francese, tedesco, cinese, indiano, russo: semplice, è un “romanzo” che è l’idea globale dell’Italia. Specie per chi non ha ogni giorno da trenta-quarant’anni la stessa zuppa da ingoiare, se ancora legge il giornale.

Lista –Magris discute con Charles Dantzig sul “Corriere della sera” la passione delle liste, degli elenchi, senza mai un accenno a Umberto Eco, il maestro delle liste. L’occasione è un libro di Dantzig, “Enciclopedia capricciosa di tutto e di niente”, ma niente Eco, nemmeno di straforo. Ci sono Ovidio, D’Annunzio, e Riccardo Castellana, ma non Eco. Che peraltro è l’autore di punta della  Bompiani, casa editrice fino a ieri di proprietà della Rcs-Corriere della sera. O da oggi non si citano più i libri della ex Rcs, ora Mondadori?

Nobel – Pìrandello era stato nominato al Nobel alcuni anni prima del 1934, quando fu premiato, scrive Giorgio Dell’Arti sull’altra “Domenica” del “Sole 24 Ore”, ma l’opposizione del precedente Nobel italiano  glielo precluse. Era – e forse è - pratica corrente sentire i Nobel in carica prima di dare il premio.
Il “precedente Nobel” era Grazia Deledda. Il cui marito Pirandello aveva reso in giro nel romanzo “Suo marito”. Pirandello rispettava molto Deledda, e di fronte alle rimostranze di lei ritirò il romanzo. Lo riscriverà, con un altro nome, un’ambientazione non più sardo-romana ma piemontese-romana, e un personaggio maschile leggermente modificato, ma di malavoglia, senza terminarlo – lo pubblicherà il figlio Stefano, col titolo “Giustino Roncella nato Boggiolo”.

Tempo – Simenon, sempre nella “Autobiografia”: “Si parla delle età come se ogni periodo esistesse per se stesso e come se il tempo esistesse. Ora comincio a credere che il tempo non esiste. Di che tempo si tratterebbe?  In astronomia si conta in anni luce. Per ogni specie animale è diverso. Per me tutte le età della vita non ne formano che una, bene incastrata.” Si è vecchi, dice lo scrittore intristito dai suoi veneratori, perché si è considerati vecchi.

Viaggio – “L’andare e il tornare l’ha creato Dio”, è proverbio calabrese.

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Il Sud senza pregiudizio, nel Settecento

È il “Viaggio in Calabria” di precedenti edizioni, parte dei viaggi di Swinburne, con la famglia,.nel 1776-1778, nel Sud Italia: Napoli, Sicilia, Calabria. Via nave e a cavallo, le strade essendo inesistenti – nel Sud Italia come altrove, Spagna, Germania, Svizzera, etc.: Swinbrune, viaggiatore compulsivo e scrittore di viaggi, era molto resistente – Praz lo ricorda perché viaggiava con la moglie Martha, e per gli studi all’Accademia Reale di Torino, oltre che a Parigi e Bordeaux.
È un viaggio al Sud ancora senza pregiudizio. Siamo nel secondo Settecento, già molto laico, lo stesso Swimburne, buon inglese cattolico, è molto illuminista. Ma la battaglia con i gesuiti ancora non era vinta, con la cattolicità, la latinità, il Mediterraneo. Swinburne gira per il Sud Italia come in ogni altro paese dei tanti che ha girato. Trova vini medicamentosi. Gesuiti ottimi amministratori di terre. Cavalli ottimi, anche se il suo non può esportarlo. Lusinghiero, se capita: “In nessun luogo si può incontrare un paesaggio più vivo e vario”, dice di Monteleone-Vibo Valentia, sopra Capo Vaticano. E si gode la classicità, nella memoria. Crotone – “l’ultimo dei crotoniati è il primo dei greci”. Samo città ialiota all’origine, e dunque Pitagora….? Thurii, dove tutto nasce o finisce: Erodoto, Augusto, sì, l’imperatore, nonché Alessio di Sibari, l’inventorre della favola esopicva. Con la fata morgana, la migliore descrizione e anamnesi del fenomeno..E i siciliani già complessati. Alcune delle tante meraviglie, di uno che viaggia senza paraocchi.
Molta nostalgia suscita: “Nessuna regione ha maggior numero di cittadine e di villaggi, ha una più grande varietà di colture, ed è coperta di più belle foreste del sud della Calabria”, che oggi è un deserto umano, seppure forestato.
Henry Swinburne, A cavallo in Calabria fra antiche rovine, Rubbettino, pp. 169, ril., € 7,90