astolfo
Hillary Clinton – L’unico punto
debole finora della sua campagna per le primarie presidenziali è il caso dell’ambasciatore americano ucciso a
Bengasi in un attentato all’interno del consolato Usa nel 2012. L’11 settembre
del 2012 fu “celebrato” dagli islamisti a Bengasi con una bomba al consolato
americano, ad alto potenziale ma mirata, che colpì l’ambasciatore Chris Stevens
e altri tre diplomatici. Un mese dopo l’attentato, Hillary Clinton si prese la
responsabilità della mancata protezione del consolato, che l’aveva richiesta.
Lo fece per scagionare Obama, che era in campagna per la rielezione e su questo
punto veniva regolarmente strapazzato nei dibattiti col candidato repubblicano.
Anche se non sembrò poi che responsabilità precise fossero o imputabili a lei
stessa, se non la sottovalutazione del rischio da parte dei suoi uffici del
dipartimento di Stato.
Il
caro riemerge perché, però, non è così semplice come apparve. Per un precedente
insidioso, anche se poco credibile, avvenuto in Pakistan. Nell’agosto 1988 morirono
in volo, per l’esplosione dell’aereo miliare che li trasportava, l’ambasciatore
americano in Pakistan, il presidente-padrone del Pakistan, generale Zia ul Haq,
e il generale Akhtar, che comandava la resistenza islamica in Afghanistan
contro l’Urss. Un attentato sofisticato, opera certamente di servizi segreti da
grande potenza. Il sospettato numero uno fu l’Urss, perché il Pakistan di Zia era
la retrovia della resistenza afghana e islamica all’invasione sovietica
dell’Afghanistan. Ma gli ambienti pakistani, i prossimi a Zia e i suoi
oppositori, sospettarono di più la Cia, che a differenza dei russi disponeva di
basi operative e di una rete di collaboratori nel paese. L’intento sarebbe
stato di eliminare il generale Zia, ritenuto non più affidabile.
Mare
Nostrum –
Sarebbe stato greco e non romano se Alessandro Magno non fosse morto giovane.
Sarebbe stata la Grecia a capo dell’impero mediterraneo, la Macedonia, e non
Roma. Una storiografia greca lo dava per certo, che Luciano Canfora esuma in
“Gli occhi di Cesare”. Tito Livio del resto dovette contestarla, al cap. IX. Contestava
una serie di ambascerie, di cui Orosio redigerà la lista quattro secoli più
tardi, del mondo mediterraneo, Roma compresa, di sottomissione a Alessandro:
Cartagine, tutta l’Africa, la Spagna, la Gallia, la Sicilia, la Sardegna, e la
“gran parte d’Italia”. Orosio scriverà: “In Occidente si era diffuso un tale
terrore del sovrano installatosi nel grande Oriente che si erano messe in
viaggio ambascerie anche da luoghi dove a stento crederesti che fosse giunta la
sua fama”.
Orosio è in realtà Giustino,
spiega Canfora, che a sua volta riscrive Trogo, le cui opere sono perse. All’origine di tutto, continua Canfora, c’era
Timagene di Alessandria, altro storico “scomparso”, che però Canfora lega con
buoni argomenti agli ambienti ostili al nomen Romanum, che Tito Livio avrebbe
denunziato al cap. IX: “Alcuni greci ostili al nome di Roma, i quali sono
pronti persino a manifestare favore verso i Parti e ad esaltarli a scapito del
nome di Roma, sono soliti sostenere che i Romani sarebbero stati eventualmente disposti a piegarsi – senza nemmeno
combattere – davanti alla maestà del nome di Alessandro”.
La storia di Orosio si può dire
una manifestazione dell’incipiente culto di Alessandro, a favore o contro, che
avrebbe tenuto banco per alcuni secoli come “romanzo di Alessandro”. Una
favolistica, opera d’invenzione. Ma Livio in realtà non contesta le ambascerie,
semplicemente dice che Roma è meglio di Alessandro, ipotizzando la storia
“controfattuale”: cosa sarebbe successo se Alesandro avesse attaccato l’Occidente
invece che l’Oriente.
Pure Dante, nel “De monarchia”, è
sulla pista di Alessandro. Parafrasa
Orosio. Ma ci aggiunge del suo, sulla pista dell’impero unico
universale, della pace eterna. La sua ricerca dell’impero unico parte da Nino,
re degli Assiri, prosegue con Vesozes, re dell’Egitto, con Ciro il Grande, con
Serse, e approda a Alessandro, “il quale più di tutti gli altri si avvicinò a
conquistare la palma”. Se non che “muore
in Egitto prima che giunga la risposta dei Romani, come narra Livio”.
Tito Livio per a verità è
sprezzante: ai romani di Alessandro “non era noto nemmeno il nome”. I consoli romani dell’epoca erano da soli in
grado di metterlo a tacere. Gli storici greci sono superficiali, “levissimi
ex Graecis”, che la vittoria di Alessandro davano per certa in virtù del
nome, “maiestatem nominis Alexandri”.
Pirro attaccherà Roma,
quarant’anni dopo la morte di Alessandro, richiamandosi al conquistatore, ma
con scarsi effetti.
La vicenda non era finita con
Tito Livio. Una fonte più tarda, Memnone di Eraclea, salvata dalla raccolta di
Fozio, afferma che, dopo o prima della spedizione in Asia, Alessandro aveva
mandato un ultimatum ai Romani in questi termini: “Se siete capaci di
comandare, cercate di battermi,, altrimenti sottomettetevi a chi è più forte di
voi”. Con l’aggiunta che i romani, impauriti, “gli inviarono una corona d’oro
di notevole peso”.
Ma Memnone potrebbe avere
ricamato da fonti anteriori – Canfora lo colloca tra il I e il II secolo d.C.,
a quattro-cinque secoli dai “fatti”.
Rimesse – Quelle degli
emigranti asiatici, specie dei filippini alcuni decenni fa, poi dei pakistani e
dei bengalesi, hanno creato una nuova forma di integrazione dei paesi di
origine con quelli europei di emigrazione, e nel tessuto sociale e culturale
dei paesi di origine. Da circa trent’anni le rimesse degli emigranti sono la
principale fonte di divisa estera del Pakistam e del Banglaesh. I cui effetti
si sono consolidati sul sistema bancario e del credito, e nell’articolazione
familiare-sociale, attraverso un circuito finanziario-sociale relativamente
autonomo dal condizionamento totalizzante della politica.
Reciprocità – Il principio
diplomatico per cui un cero trattamento favorevole dei cittadini e degli
interessi di un paese straniero si può disporre solo in presenza di un
trattamento analogo dei cittadini e degli interessi propri in quel paese è
saltato con la costruzione delle moschee. L’Arabia Saudita fece valere, nel
caso della moschea di Roma, che non aveva l’obbligo di accettare la costruzione
di una chiesa di analoghe dimensioni sul propri territorio – lo fece valere con
Andreotti: intanto perché non c’erano cristiani in Arabia Saudita, e poi perché
o Stato italiano non è confessionale e non costruisce chiese. Andreotti obiettò
che, poiché la capitale italiana è anche la capitale della cristianità, e lo
Stato italiano è in qualche modo custode dei luoghi santi cristiani, così come
l’Arabia Saudita lo è del luoghi santi islamici, la reciprocità doveva valere.
Ma senza effetto. In Arabia Saudita – e negli altri stati confessionali
islamici – è peraltro reato capitale convertisi al cristianesimo.
Rivoluzioni islamiche – Sono state e
sono in realtà controrivoluzioni, a tutti gli effetti: contro i diritti umani e
contro i diritti civili, contro la libertà naturalmente, di cui non hanno il
concetto, e contro l’uguaglianza, dei sessi, delle condizioni materiali, dei
soggetti individuali. Quelle di tipo khomeinista, che la sharia applicano a ogni
aspetto della vita, individuale e associata – fino ai Fratelli Mussulmani che
governano la Tunisia e hanno governato l’Egitto, anche se non professano la sharia, la legge islamica – sono in
realtà regimi borghesi proibizionistici, delle fedi, delle donne, della libertà
di circolazione e di pensiero. Quelle di tipo talebano - quella propriamente
detta in Afghanistan e ora il califfato in Siria e Iraq - si basano su una rete
sociale di affari e fede, dei mullah-ulema e del suk-bazar, e sono integralisti
e proibizionisti in eccesso. Mentre le monarchie arabe del Golfo, che queste
“rivoluzioni” finanziano, sono da tutti i punti di vista regimi patrimoniali –
familiari, privatistici.
Usura – Il divieto islamico di far fruttare
il denaro, di un interesse sul suo uso, comunque equiparato a usura, viene
aggirato di fatto ovunque e in qualsiasi situazione, di banche, fondi,
prestiti, investimenti. Il divieto è radicale: “L’usura (riba) comporta novantanove casi, di cui il meno reprensibile è
assimilabile a quello della fornicazione tra un uomo e sua madre”, secondo un hadith - una riflessione - del Profeta,
tramandato da Muslim, uno dei collettori dei detti profetici considerati più
sicuri dagli ulema. Come tale, radicale, il divieto è professato dalle
istituzioni finanziarie islamiche, per esempio dalla Banca islamica di
sviluppo. Ma l’Iran khomeinista l’ha sempre praticato, chiamandolo “tasso di
profitto garantito” invece che tasso d’interesse – e un tasso di fatto
allineato a quello praticato in nero dal bazar, dal commercio al minuto e
all’ingrosso, il pilastro economico del regime. In Egitto nel 1989 il muftì
emise una fatwa che autorizzava il
sistema bancario tradizionale e il prestito a interesse, per evitare la crisi
del sistema bancario stesso, dopo un decennio di forte crescita delle società
islamiche d’investimento, finanziate dall’Arabia Saudita. Sono adattamenti o
“furbizie” (hiyal) che la morale
islamica consente.
Di
fatto, lo sviluppo della finanzia islamica ha creato un vasto e ricco mercato
di consulenze, interpretazioni e professioni, fatwa, per il clero islamico. Come consiglieri d’amministrazione,
che danno una garanzia di liceità. E come arbitri del sistema: contro – ma
anche pro – le banche non islamiche. In
Egitto se ne è discusso e se ne discute molto. Di più, sotto la copertura della
finanza islamica c’è la penetrazione del capitale saudita e degli Emirati Arabi
in tutto il mondo arabo e mussulmano, specie in Africa.
Di
fatto, si può anche dire che non c’è differenza fra le tecniche bancarie del
mercato e quelle islamiche. Gilles Kepel, “Jihad”, ed. francese, distingue
cinque modi d’investimento e di finanziamento nella sharia, la legislazione islamica: due industriali e tre commerciali.
La mudaraba, o finanziamento di
partecipazione, nella quale la banca finanzia il capitale di un’impresa, e l’impresa
fornisce il management e il lavoro, profitti e perdite dividendo secondo accordi
preliminari. La musharaka, semplice
partecipazione al capitale, analoga alla società per azioni: il capitale si
remunera coi dividendi dell’attività. Le attività commerciali si finanziano con
la murabaha, o compravendita a
termine: la banca acquista e rivende le merci con un margine, scalando il rimborso
del debito nel tempo, col ta’jir, il
leasing, e col ba’i mu’ajjal, il
mutuo.
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