sabato 26 dicembre 2015

Problemi di base - 258

spock

“Preghiamo per i cristiani che sono perseguitati”, lamenta il papa, “spesso con il vergognoso silenzio di tanti”: di chi?

Perché gli uomini vogliono continuare a sposarsi – se i figli si comprano al mercato?

Che invenzione è la coppia? Divina no

Il problema è: 150 mila dollari sono pochi o sono molti per comprarsi un figlio chiavi in mano – colore della pelle, colore dei capelli, ricci, etc., tutto a regola d’arte?

Hanno poi votato le donne in Arabia Saudita?

Ma perché, c’è un Parlamento in Arabia Saudita?

Si fa il giornalismo degli uffici stampa ma non si fa l’ufficio stampa del giornalismo: si vergogna?

Sarkozy è meglio di Le Pen, uno che ha rovinato l’Italia?

spock@antiit.eu

La filosofia assassina

L’Irrational Man è filosofo, professore anzi di filosofia, professa la razionalità. Atteso al dipartimento nella nuova università, quasi messia, vi arriva esaurito e bevitore. La moglie lo ha abbandonato, per il suo migliore amico. L’altro migliore amico, nella comune organizzazione umanitaria, è stato decapitato in Iraq – o è “solo” saltato su una mina. A lezione professa il famoso problema morale di Kant, “Su un preteso diritto di mentire per umanità” – che è il machiavellico fare il bene attraverso il male, ma non si può dire. E piano piano, tra ritorni alla Gide di atti gratuiti e omicidi perfetti, riacquista la voglia di vivere: diventerà assassino, naturalmente a fin di bene. La fine è del genere: chi di spada ferisce di spada perisce, chi la fa l’aspetti, etc.
Woody Allen ha sempre fatto filosofia, specie nei testi scritti, con Schopenhauer e Nietzsche, si pensava per scherzo. Fin dai tempi di “questa è un vapina”, che avrebbe divertito (dato da pensare a) Wittgenstein. E più negli scambi identitari -. fusioni, trasformazioni, divisioni. In “Zelig” per esempio, da cui “la sindrome di Zelig”, adottata dallo stesso Bettelheim che è parte del film: il conformismo all’ambiente, tale da mutare la personalità. Qui professa solide fondamenta, molti scherzi combinando con solide argomentazioni. Un dialogo inconsueto al cinema, e abile, approfondito. Ma non si ride – o poco.
Non si ride più da tempo ai film di Woody Allen, specie quando non c’è lui in scena. Perché sono tirati via, low cost – da camera, con poche inquadrature fisse di esterni, campagne o marine, e dialoghi frontali? Perché fa film, benché a colori, alla Ingmar Bergman, suo lontano idolo non per ridere? Perché le generazioni woodyalleniane sono invecchiate con lui? E perché è scorretto. Qui scorrettissimo – alla fine di tutto c’è un debasement della razionalità o filosofia così radicale che si ha paura di ridere: al pessimismo non c’è rimedio.
Woody Allen, Irrational Man

venerdì 25 dicembre 2015

Secondi pensieri - 244

zeulig

Asessismo – Si cancella, dopo il padre, ora anche la madre. Improduttiva e irrazionale – una madre è uno spreco. Per un disegno di deumanizzazione, nel quadro del livellamento tecnico e della  della parcellizzazione efficientista (ugualitaria): il mercato, sedicente individualizzante, vuole disponibilità totale: singletudine senza impedimenti. La stessa singletudine diventa misantropica – per la residua sensibilità erotica basta un incontro al bar il sabato sera.

Congiura – È destino che ci siano cospirazioni nella filosofia di Evola e Guénon. Se le società umane, cioè,  non sono innovative (evolutive), ma gerarchiche e rituali.

Custode – È testimone, di un percorso continuato, in una corsa a segmenti. Di un percorso. Oltre che depositario della continuità. Dell’interpretazione, anche – l’interminabile ermeneutica.

Destino – È il proprio giudice, l’io in forma di giudice. Non l’innovazione o la sorpresa, ma una sommatoria e l’esito di un giudizio. Inafferrabile ma personalizzato, proprio - il suo destino è il suo giudice.
È il senso di Benjamin: se uno ha carattere il suo destino è costante. Ma non di un fluire quanto di un rappresentarsi-giudicarsi - rappresentarsi è in ogni momento giudicarsi.

Fascino – È di ogni genere, non il meglio, né perfezionista. Si prenda Hollande, il presidente francese, che attira a ripetizione donne molto belle e altrettanto volitive, a lui sempre devote, malgrado l’incostanza, i tradimenti, e ora i ripetuti fallimenti politici – è lui che sempre le lascia, non loro lui. Pur non essendo bello, né atletico, né spiritoso, né simpatico, e anzi piuttosto piedi piatti. È solo un po’ meglio di Sarkozy come statura, 1,70 contro 1,60, che invece le donne lasciano. Ma è più basso, anche molto, di Chirac, Mitterrand, Giscard, Pompidou, e naturalmente De Gaulle, i presidenti cui la Francia è – era – avvezza. Ed è sempre più basso delle donne che incanta. Il suo fascino è il provincialismo. Anche presso il pubblico: non  un presidente pugnace, né della Francia che parla inglese, ma quello della pétanque e della fine, che non esiste più ma si fantastica, e fa lo smargiasso. Ma dotato di chiacchiera, sempre persuasiva. E non è un caso, il fascino dell’umo senza qualità c’è sempre stato. Anche della donna.

Futuro - È proiezione del presente, senza dubbio – altrimenti è postero. Ma è anche il presente: si costruisce momento dopo momento, cioè oggi. Nelle proiezioni fantastiche e nei dati materiali - l’investimento (il fondo, la casa, l’assicurazione), l’apprendimento, il lavoro, la programmazione-progettazione. Non c’è senza il presente, ma ne è anche una forma.
Lo stesso concetto di postero è di un presente che si continua: nel ricordo, l’immaginazione, la celebrazione, il mito. Lo steso si potrebbe argomentare della immortalità: è una costruzione-idealizzazione dell’esistente.

Gender – Inevitabilmente approda al no gender,: è un autonegazione:. Se la distinzione sessuale è solo culturale.

Genio – È quello che genera l’ermeneutica moltiplicatrice, la lettura del genio, multiforme per definizione, l’interpretazione. È un fatto di ermeneutica. Moltiplicando e stimolando l’attività del creatore, in prospettiva. Moltiplicando l’applicazione critica, l’interpretazione.
È un fatto di applicazione, di critica creatrice. Dante è tutto e il contrario di tutto. Shakespeare che è cento diversi personaggi. O Platone, o l’inafferrabile Socrate che periodicamente risorge. Il genio multiforme – Leonardo – lo è in modo diverso: interpreta se stesso.

Morte – È un fatto, ma più  è una suggestione, quando si vive. Può capitare di festeggiare i riti della luce e della rinascita leggendo occasionalmente un poeta che, bello e adolescente, amato e già di successo, Georg Heym, pure dubita, “inaudita parola saremo?”, e solo poeta della morte.

Il diritto la considera e la deconsidera, con l’istituto del testamento, o comuqqne dell’eredità. Che perpettua e consoldia l’istituto familiare, ma prima la persona del testatore. Che intende sopravvivere non soltanto negli affetti o sentimenti, ma di fatto, nella vita quotidiana. E lo fa in tutti i casi, anche se contestato.

Storia – “L’histoire est dans le flou”, Michel Serres, “Roma, il libro delle fondazioni”, 9: la storia è nella dissolvenza. Quale storia?

La storia si scrive, Barthes l’ha scoperto. A lungo fu oggettiva. Ma, Koyré l’aveva intuito, la storia non prova niente. E se lo fa è crudele: c’è mai stato uno storico che non abbia sognato di poter nutrire, come Ulisse, le ombre di sangue, per poterle interrogare? La teoria precede la storia, aggiunge Aron. E Ricoeur: “Il documento non era documento prima che lo storico avesse pensato di porgli una domanda”. Croce: “La cultura storica ha il fine di serbare viva la coscienza che la società umana ha del proprio passato, cioè del suo presente, cioè di se stessa”. E Edward H. Carr, lo storico del sovietismo: “C’è un continuo processo d’interazione tra la storia e i fatti storici, un dialogo senza fine tra presente e passato”. Gobetti ne fa il fulcro della “Rivoluzione liberale”: “La nostra sarà una generazione di storici: tanto se ci applichiamo all’economia come al romanzo e alla politica”.
La storia è l’Uomo di Michelet, opera dell’Uomo. La ricostruzione a opera dell’uomo di Febvre. Le vite di Emerson. L’essenza delle vite di Carlyle: “Lo storico è il Prestigiatore di Gulliver: ci riporta l’animoso Passato perché possiamo guardarvi dentro e scrutarlo a volontà. La storia universale è un libro, che siamo obbligati a leggere e incessantemente scrivere, e nel quale siamo scritti”. Cassandolo, che è la cosa più facile, della storia e di ogni realtà. Testo divino, volendo, con Swedenborg, “nel quale ci scrivono”. Chi? Swedenborg parlava coi diavoli.
La storia è figlia del tempo, oggi come ieri. Quando Casaubon nel “Polibio” depreca: “Amaro destino della storia, che una volta in un’aureola di luce splendente soleva godere della più stretta familiarità dei re, i principi, i nobili di più riguardo, insegnando loro la saggezza e le norme di una dignitosa esistenza e ricevendone in cambio prestigio, mentre ora, dimentica della precedente condizione e resa inutile ai fatti della vita, è lasciata ai borghesucci, che rimescolano la polvere delle scuole, e si coltivano in un’i-pocondriaca inattività”. E ancora è meglio di quando la rimescola Hitler.

Uguglianza – Passa, nell’era globale, sotto il segno dell’uniforme e indistinto. Del  “relativismo culturale” - nobilitato quale dialogo. La “eguale libertà” di Martha Nussbaum meglio espone il paradosso: bisogna essere per la “vera differenza” e contro “l’omogeneità”. E perché? L’uguaglianza ha sempre creato problemi politici. I diritti umani sì, sono affare suo, ma la storia e la politica vivono meglio di adattamenti. C’è un paese, gli Stati Uniti, dove la libertà pesa più della tradizione, e c’è l’Europa, dove la storia pesa di più – si parla di pesi per l’unità del paese, della società. Si veda il diverso esito della “eguale libertà” negli Usa, paese crogiolo, dove il fatto unificante è la libertà, e in Gran Bretagna, dove il multiculturalismo ha presto inciampato nel rifiuto – o dovremmo chiamarla obiezione di coscienza? Non senza ragione: perché i pakistani dovrebbero essere inglesi? E il Cristo maomettano? Il dialogo religioso illimitato, estenuato, assillante, proprio in questa epoca, in cui non ci sono guerre di religione, è più che un atto di buona volontà, è il disegno-sogno di istituzionalizzazione della religione.

Unità – Quella del mondo passa per utopia, da Dante a Campanella e Tommaso Moro, a Hobbes, alla trascurata parte III del “Leviatano”, “Del Commonwealth cristiano”, a Kant. O non un dogma pratico in forma di tradizione? Gregorio Nazianzeno lo dice. Dio può essere anarchico, poliarchico e monarchico, dice. Del Dio anarchico (confusione) e poliarchico (rivolta) “si divertono i figli dell’Ellade e lasciamo che si divertano ancora… noi onoriamo la monarchia”. Non un re, specifica, ma “quella sovranità che è costituita da uguaglianza di natura, da unanimità di giudizio, da identità di vedute, dal concorso delle persone a formare una cosa sola con quella dalla quale derivano, il che è impossibile nella natura creata”. Il Dio ebraico fuso con col principio monarchico della filosofia greca”.
Non solo in Dante, tuttavia, l’unità mantiene una sua dignità. Frances Yates ne ha recuperato non molti anni fa perspicui significati, anche in fase di democraticismo radicale, in “Astraea”. Tanto più oggi, in questo mondo di trasvalutazioni, o continue svalutazioni, che è stata finora la globalizzazione, un’asta al ribasso, o una perversa uguaglianza - chi è meglio dell’Occidente?

zeulig@antiit.eu

Morire giovane

Il poeta che ha antiveduto la sua morte: in sogno, ha lasciato annotato nei taccuini, “mi trovavo su un grande lago interamente ricoperto di lastre di pietra. A un tratto sentivo che le lastre cedevano…” Diciotto mesi dopo, pattinando sul fiume Havel emissario del Wannsee, il lago più frequentato di Berlino, con l’amico fraterno Ernst Balcke, che cadde in una buca, per salvarlo Heym morirà pure lui, dopo avere urlato inutilemnete a lungo in cerca di aiuto dagli altri pattinatori.
Un’opera ritenuta di rottura con i vecchi schemi tardo ottocenteschi, ma poesia ancora decadente – neo romantica. Con l’aggettivazione costante, volentieri ossimorica: fiaccola ardente, verdi sorgenti, bagliore smorto, pallida candela, la nera spalla nella grigia sera. E l’animazione della natura: l’oro dell’autunno, la fragranza della macchia, la foresta d’ambra. Lo stesso esercizio frenetico dell’aggetivazione-catalogazione il giovane poeta esercita però sulla città: sulle cose apparentemente inanimate, pietra, rotaie, fumi, luci. L’innovazione avvolgendo nel rifiuto, che la malinconia traspone in violenza, la sua opera portando a catalogare nell’espressionismo.
“Ofelia” galleggia “con una nidiata di ratti fra i capelli,\ le mani inanellate nella corrente\ come pinne”, tra felci, pipistrelli, e una biscia che “nel seno penetra”. E noi “morti siamo”, alla “Morgue” – “silenziosi girano i custodi\ dove il bianco dei teschi fra i panni rifulge”. Tra immagini estroverse: inside-out: le tempie della terra, il naufragio del giorno, i mari della sera. Già, o ancora, di maniera, e tuttavia ricco di humus – o almeno così viene in traduzione “L’anima mia mare senza sponda\ piano fluisce in lieve corrente.\ Verde son io dentro di me e fuori mi sperdo\ come un palloncino di vetro”. O il flusso ortogenico del “Dormiveglia”. Una poetica che il poemetto del titolo sinteizza come una carrelata di immagini concatenate, nel “sogno crepuscolare di un fatuo volo di farfalle”. Immagini di morte per lo più.
La poetica di Berlino Heym fa per primo, della città. Una poetica trascurata e anni ignorata dal suo secolo, il Novecento, che pure ha vuotato la campagna per le megalopoli, con l’eccezione manierata del futurismo. Opera di un poeta morto alla nascita, si può dire, a 24 anni, proveniente dalla Slesia remota – ora è Polonia – tra l’Oder e i Sudeti, che molti germogli aveva dato alla Germania. “Poeta di dissolvenze”, lo dice Claudia Ciardi. Cresciuto sui tedeschi che il mondo rifanno di fretta, Nietzsche, Hölderlin, Kleist..Che molto pubblicò in vita, attorno ai venti anni, e molto lasciò incompiuto, soprattutto teatro. Riemerge carsico con raccolte di poesie, racconti, sogni, divagazioni.
Anch’essa giovane, benché non affine, Claudia Ciardi ne ha tratto un’antologia agile e sostanziosa. Traducendolo, si arguisce, senza abbellimenti o ammodernamenti, seppure non filologicamente. Ha organizzato la silloge, una ventina di componimenti brevi e lunghi, per il centenario della morte. Traendola dalle tre opere di Georg Heym, “Der ewige Tag”, l’eterno giorno, “Umbrae Vitae”, una raccolta tradotta da Einaudi nel 1970, e la postuma “Der Himmel Trauerspiel”, la tragedia dei cieli, oltre che dal volume di poesie sparse dell’opera omnia. E intesse, nelle brevi acute note, una sorta di romanzo del destino attorno al ghiaccio, l’artista che il poeta più ammirava, Caspar David Friedrich, avendo vissuto un dramma analogo – aveva perduto il fratello maggiore Johann Christopher a tredici anni per la rottura del ghiaccio su cui pattinava, forse nel  tentativo di salvare il futuro pittore.  Morto giovane, Georg Heym è stato presto dimenticato, ma erraticamente è riproposto.
Georg Heym, Ci invitarono i cortili, Via del Vento, pp. 33 € 4

mercoledì 23 dicembre 2015

Fuori le banche

Si chiama Brrd e dà i brividi, non solo nel nome, la regolamentazione europea delle banche dall’1 gennaio – ma è già in vigore. Perché non avremo più banche. Che non è una buona cosa come si potrebbe pensare - pensare male delle banche non è peccato. A chi chiederemo il fido? Da chi avremo il mutuo?
Non è una buona cosa anche perché le banche ce le avremo, ma non più quelle “pubbliche” di cui si favoleggia, in concorrenza e a proprietà diffusa, senza padroni occulti. Avremo solo queste, dei grandi padroni: troppe banche fanno male al mercato, tra i pochi eletti la concorrenza si stabilisce al livello giusto, nel loro interesse.
Il meccanismo perverso per mettere le banche a morte è quello virtuoso di cui la legge Brrd fa sfoggio: nel caso di mala gestione pagano gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti. E chi mette più i soldi in banca, in azioni, in obbligazioni? Non i piccoli investitori né i piccoli fedeli obbligazionisti.
È la fine delle banche. Come si rafforza infatti il tier1 se il tier 2 è sottoscacco? Tier 1 è il patrimonio di base: il capitale versato, le riserve, gli utili non distribuiti. Tier 2 è il quasi-equity, degli “strumenti innovativi”, comprese le obbligazioni subordinate, che difendono e rafforzano il tier 1. Non s faranno mi più ricapitalizzazioni, se non tra grandi interessi.
Il bail-in (pagano i soci) vale per le banche come per ogni altra azienda, per es. Parmalat, Ilva. È giusto ed è anche produttivo – efficientista – che i responsabili paghino, gli azionisti. Ma per le banche è diverso, per le quali, come per le assicurazioni, valgono requisiti patrimoniali più stringenti. Il Brrd è stato adottato per  rafforzare il tier 1 mettendo in correzione il tier 2’ Naturalmente non  un errore: questo i Normatori del Brrd lo sanno meglio di ogni altro. Perché allora la camicia di forza al “mercato” da parte dei fautori del “mercato”?

Il mercato dei fessi

L’opinione europea si è messa contro la Ue in quanto patrona delle banche nella crisi. Ora dovrà mettersi contro la Ue a difesa? Il regime che entra in vigore l’1 gennaio porterà presto all’accorpamento delle banche, in gruppi a proprietà concentrata, oligopolistica, e non controllabile. Un tipico marché des dupes, delle tre carte, dei fessi.
Questo la Ue fa in obbedienza alla ideologia che viene da Wall Street e dalla City, i grandi centri finanziari cui la banca retail  interessa solo come piattaforma di raccolta fondi. Ma gli Usa e la Gran Bretagna si sono già organizzati diversamente. A Londra l’Uk Banking Act del 2009 ha introdotto uno  Special Resolution Regime che solo all’apparenza anticipa il Brrd: si indirizza a tutte le società, e ne regola in realtà il salvataggio, definendo alcune procedure. Per le banche la ricerca di un acquirente, anche in parte, il trasferimento a una banca-ponte, o a una bad bank, o a un asset management, il trasferimento al settore pubblico. Il bail-in è l’ultima ipotesi.
Nel continente la Germania ha acceduto alle richieste britanniche, e anzi le ha patrocinate, cautelandosi. Da sempre, sono ormai dieci anni, Angela Merkel segue una politica di allineamento sulla City. Ma per guardarsene.
Il Brrd non si applica alla Germania, che lo ha auspicato e a suo modo imposto in Europa, perché il sistema bancario tedesco è già pubblico - a partecipazione pubblica, ma fa lo stesso. Le stesse grandi banche, Commerzbank (che ha incorporato Dresdner, dopo il salvataggio della Dresdner a opera di Allianz, il grande gruppo assicurativo) e Deutsche Bank hanno in vario modo garanzie pubbliche (quote semiregalate di grandi gruppi pubblici, contratti vantaggiosi, privative).
Il governo italiano, che invece ha subìto per primo e impreparato la crisi, reagisce ora stizzoso: accusa questo e quello, pubblica lettere riservate. Delle due l’una: o non sa cosa ha firmato, ormai è un anno e mezzo fa, oppure lo sa e voleva fare il furbo virtuoso. Forse entrambe le cose, la superficialità non è mai troppa. Vista la mala parata, ora tenta di dire che voleva essere intelligente  Tre brutte ipotesi.  

Il mondo com'è (243)

astolfo

Hillary Clinton – L’unico punto debole finora della sua campagna per le primarie presidenziali è il  caso dell’ambasciatore americano ucciso a Bengasi in un attentato all’interno del consolato Usa nel 2012. L’11 settembre del 2012 fu “celebrato” dagli islamisti a Bengasi con una bomba al consolato americano, ad alto potenziale ma mirata, che colpì l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre diplomatici. Un mese dopo l’attentato, Hillary Clinton si prese la responsabilità della mancata protezione del consolato, che l’aveva richiesta. Lo fece per scagionare Obama, che era in campagna per la rielezione e su questo punto veniva regolarmente strapazzato nei dibattiti col candidato repubblicano. Anche se non sembrò poi che responsabilità precise fossero o imputabili a lei stessa, se non la sottovalutazione del rischio da parte dei suoi uffici del dipartimento di Stato.
Il caro riemerge perché, però, non è così semplice come apparve. Per un precedente insidioso, anche se poco credibile, avvenuto in Pakistan. Nell’agosto 1988 morirono in volo, per l’esplosione dell’aereo miliare che li trasportava, l’ambasciatore americano in Pakistan, il presidente-padrone del Pakistan, generale Zia ul Haq, e il generale Akhtar, che comandava la resistenza islamica in Afghanistan contro l’Urss. Un attentato sofisticato, opera certamente di servizi segreti da grande potenza. Il sospettato numero uno fu l’Urss, perché il Pakistan di Zia era la retrovia della resistenza afghana e islamica all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Ma gli ambienti pakistani, i prossimi a Zia e i suoi oppositori, sospettarono di più la Cia, che a differenza dei russi disponeva di basi operative e di una rete di collaboratori nel paese. L’intento sarebbe stato di eliminare il generale Zia, ritenuto non più affidabile.

Mare Nostrum – Sarebbe stato greco e non romano se Alessandro Magno non fosse morto giovane. Sarebbe stata la Grecia a capo dell’impero mediterraneo, la Macedonia, e non Roma. Una storiografia greca lo dava per certo, che Luciano Canfora esuma in “Gli occhi di Cesare”. Tito Livio del resto dovette contestarla, al cap. IX. Contestava una serie di ambascerie, di cui Orosio redigerà la lista quattro secoli più tardi, del mondo mediterraneo, Roma compresa, di sottomissione a Alessandro: Cartagine, tutta l’Africa, la Spagna, la Gallia, la Sicilia, la Sardegna, e la “gran parte d’Italia”. Orosio scriverà: “In Occidente si era diffuso un tale terrore del sovrano installatosi nel grande Oriente che si erano messe in viaggio ambascerie anche da luoghi dove a stento crederesti che fosse giunta la sua fama”.
Orosio è in realtà Giustino, spiega Canfora, che a sua volta riscrive Trogo, le cui opere sono perse.  All’origine di tutto, continua Canfora, c’era Timagene di Alessandria, altro storico “scomparso”, che però Canfora lega con buoni argomenti  agli ambienti ostili al nomen Romanum, che Tito Livio avrebbe denunziato al cap. IX: “Alcuni greci ostili al nome di Roma, i quali sono pronti persino a manifestare favore verso i Parti e ad esaltarli a scapito del nome di Roma, sono soliti sostenere che i Romani sarebbero stati eventualmente  disposti a piegarsi – senza nemmeno combattere – davanti alla maestà del nome di Alessandro”.
La storia di Orosio si può dire una manifestazione dell’incipiente culto di Alessandro, a favore o contro, che avrebbe tenuto banco per alcuni secoli come “romanzo di Alessandro”. Una favolistica, opera d’invenzione. Ma Livio in realtà non contesta le ambascerie, semplicemente dice che Roma è meglio di Alessandro, ipotizzando la storia “controfattuale”: cosa sarebbe successo se Alesandro avesse attaccato l’Occidente invece che l’Oriente.

Pure Dante, nel “De monarchia”, è sulla pista di Alessandro. Parafrasa  Orosio. Ma ci aggiunge del suo, sulla pista dell’impero unico universale, della pace eterna. La sua ricerca dell’impero unico parte da Nino, re degli Assiri, prosegue con Vesozes, re dell’Egitto, con Ciro il Grande, con Serse, e approda a Alessandro, “il quale più di tutti gli altri si avvicinò a conquistare la palma”. Se non che  “muore in Egitto prima che giunga la risposta dei Romani, come narra Livio”.
Tito Livio per a verità è sprezzante: ai romani di Alessandro “non era noto nemmeno il nome”. I  consoli romani dell’epoca erano da soli in grado di metterlo a tacere. Gli storici greci sono superficiali,  “levissimi ex Graecis”, che la vittoria di Alessandro davano per certa in virtù del nome, “maiestatem nominis Alexandri”.
Pirro attaccherà Roma, quarant’anni dopo la morte di Alessandro, richiamandosi al conquistatore, ma con scarsi effetti.

La vicenda non era finita con Tito Livio. Una fonte più tarda, Memnone di Eraclea, salvata dalla raccolta di Fozio, afferma che, dopo o prima della spedizione in Asia, Alessandro aveva mandato un ultimatum ai Romani in questi termini: “Se siete capaci di comandare, cercate di battermi,, altrimenti sottomettetevi a chi è più forte di voi”. Con l’aggiunta che i romani, impauriti, “gli inviarono una corona d’oro di notevole peso”.
Ma Memnone potrebbe avere ricamato da fonti anteriori – Canfora lo colloca tra il I e il II secolo d.C., a quattro-cinque secoli dai “fatti”.

Rimesse – Quelle degli emigranti asiatici, specie dei filippini alcuni decenni fa, poi dei pakistani e dei bengalesi, hanno creato una nuova forma di integrazione dei paesi di origine con quelli europei di emigrazione, e nel tessuto sociale e culturale dei paesi di origine. Da circa trent’anni le rimesse degli emigranti sono la principale fonte di divisa estera del Pakistam e del Banglaesh. I cui effetti si sono consolidati sul sistema bancario e del credito, e nell’articolazione familiare-sociale, attraverso un circuito finanziario-sociale relativamente autonomo dal condizionamento totalizzante della politica.  

Reciprocità – Il principio diplomatico per cui un cero trattamento favorevole dei cittadini e degli interessi di un paese straniero si può disporre solo in presenza di un trattamento analogo dei cittadini e degli interessi propri in quel paese è saltato con la costruzione delle moschee. L’Arabia Saudita fece valere, nel caso della moschea di Roma, che non aveva l’obbligo di accettare la costruzione di una chiesa di analoghe dimensioni sul propri territorio – lo fece valere con Andreotti: intanto perché non c’erano cristiani in Arabia Saudita, e poi perché o Stato italiano non è confessionale e non costruisce chiese. Andreotti obiettò che, poiché la capitale italiana è anche la capitale della cristianità, e lo Stato italiano è in qualche modo custode dei luoghi santi cristiani, così come l’Arabia Saudita lo è del luoghi santi islamici, la reciprocità doveva valere. Ma senza effetto. In Arabia Saudita – e negli altri stati confessionali islamici – è peraltro reato capitale convertisi al cristianesimo.

Rivoluzioni islamiche – Sono state e sono in realtà controrivoluzioni, a tutti gli effetti: contro i diritti umani e contro i diritti civili, contro la libertà naturalmente, di cui non hanno il concetto, e contro l’uguaglianza, dei sessi, delle condizioni materiali, dei soggetti individuali. Quelle di tipo khomeinista, che la sharia  applicano a ogni aspetto della vita, individuale e associata – fino ai Fratelli Mussulmani che governano la Tunisia e hanno governato l’Egitto, anche se non professano la sharia, la legge islamica – sono in realtà regimi borghesi proibizionistici, delle fedi, delle donne, della libertà di circolazione e di pensiero. Quelle di tipo talebano - quella propriamente detta in Afghanistan e ora il califfato in Siria e Iraq - si basano su una rete sociale di affari e fede, dei mullah-ulema e del suk-bazar, e sono integralisti e proibizionisti in eccesso. Mentre le monarchie arabe del Golfo, che queste “rivoluzioni” finanziano, sono da tutti i punti di vista regimi patrimoniali – familiari, privatistici.

Usura – Il divieto islamico di far fruttare il denaro, di un interesse sul suo uso, comunque equiparato a usura, viene aggirato di fatto ovunque e in qualsiasi situazione, di banche, fondi, prestiti, investimenti. Il divieto è radicale: “L’usura (riba) comporta novantanove casi, di cui il meno reprensibile è assimilabile a quello della fornicazione tra un uomo e sua madre”, secondo un hadith - una riflessione - del Profeta, tramandato da Muslim, uno dei collettori dei detti profetici considerati più sicuri dagli ulema. Come tale, radicale, il divieto è professato dalle istituzioni finanziarie islamiche, per esempio dalla Banca islamica di sviluppo. Ma l’Iran khomeinista l’ha sempre praticato, chiamandolo “tasso di profitto garantito” invece che tasso d’interesse – e un tasso di fatto allineato a quello praticato in nero dal bazar, dal commercio al minuto e all’ingrosso, il pilastro economico del regime. In Egitto nel 1989 il muftì emise una fatwa che autorizzava il sistema bancario tradizionale e il prestito a interesse, per evitare la crisi del sistema bancario stesso, dopo un decennio di forte crescita delle società islamiche d’investimento, finanziate dall’Arabia Saudita. Sono adattamenti o “furbizie” (hiyal) che la morale islamica consente.
Di fatto, lo sviluppo della finanzia islamica ha creato un vasto e ricco mercato di consulenze, interpretazioni e professioni, fatwa, per il clero islamico. Come consiglieri d’amministrazione, che danno una garanzia di liceità. E come arbitri del sistema: contro – ma anche pro – le banche non  islamiche. In Egitto se ne è discusso e se ne discute molto. Di più, sotto la copertura della finanza islamica c’è la penetrazione del capitale saudita e degli Emirati Arabi in tutto il mondo arabo e mussulmano, specie in Africa.

Di fatto, si può anche dire che non c’è differenza fra le tecniche bancarie del mercato e quelle islamiche. Gilles Kepel, “Jihad”, ed. francese, distingue cinque modi d’investimento e di finanziamento nella sharia, la legislazione islamica: due industriali e tre commerciali. La mudaraba, o finanziamento di partecipazione, nella quale la banca finanzia il capitale di un’impresa, e l’impresa fornisce il management e il lavoro, profitti e perdite dividendo secondo accordi preliminari. La musharaka, semplice partecipazione al capitale, analoga alla società per azioni: il capitale si remunera coi dividendi dell’attività. Le attività commerciali si finanziano con la murabaha, o compravendita a termine: la banca acquista e rivende le merci con un margine, scalando il rimborso del debito nel tempo, col ta’jir, il leasing, e col ba’i mu’ajjal, il mutuo.

astolfo@antiit.eu

Il giallo Dickens

Gradevole Dickens anche in questi reportages dispersi in forma di racconti (“Il Sole” riprende quattro dei dei nove testi della raccolta Clichy). Su avventurieri, procedure e misteri del tempo. Polizieschi propriamente no, ma Dickens amava il racconto “criminale”, “Oliver Twist”  ne è già uno, anche “Casa desolata” per molti aspetti, Wilkie Collins era suo collaboratore al giornale, e Sherlock Holmes non tarderà, giusto una ventina d’anni – questi racconti vanno dal 1850 al 1867.
Oppure sì, i racconti sono polizieschi in senso proprio, non del giallo ma della polizia. Che era appena nata, la polizia urbana, e non sapeva come fare. In una Londra che oggi si direbbe ingovernabile: una enorme chinatown,  i Quartieri Spagnoli per quattro-cinque milioni di persone, o forse quindici. La nuovissima figura del poliziotto-detective, quale Dickens la spiega nel 1850, farà testo per oltre un secoo e mezzo in una letteratura sterminata. Dickens detective sa già dell’indizio: “Un pelo o due svelano dove sta nascosto un leone. Una piccola chiave apre una porta molto pesante”. L’“osservatore di uomini” che costantemente qualcosa d’insignificante confronti, di persone o cose, “farebbe bene a darvi grande importanza”.
Con una breve e solida introduzione, e un ricco appparato di note, di Fabrizio Bagatti. Nelle note si leggono due pagine di Dickens - una lettera inviata al “Times” nel 1849 - sulla pena di morte, una esecuzione per impiccagione, memorabili. È in uno di questi testi l’interrogativo affermativo “A che punto è la notte”, di origine shakespeariana (“Macbeth”), che sarà titolo del fortunato giallo politico di Fruttero (un dickensiano) e Lucentini.
L’ultimo testo è un gustoso saggio sulla polizia politica in uso nel continente - sconosciuta in Inghilterra - e in specie a Napoli, di cui Dickens fa uno spietato test case. È il testo all’origine della poi famosa e decisiva indignazione di Gladstone.
Charles Dickens, Guardie e ladri, Clichy, pp. 249 € 10
Racconti polizieschi, Il Sole 24 Ore, pp. 89 € 0,50

martedì 22 dicembre 2015

I partiti scompaiono solo in Italia

È unanime e ormai rituale, a ogni elezione, l’evocazione dei partiti come se fossero scomparsi e non si riesce a richiamarli in vita. Mentre i partiti non son scomparsi. Sono vivi e operosi, e sempre gli stessi, negli Usa, in Gran Bretagna, in Germania, nella stessa Spagna di domenica (le due nuove formazioni sono spin-off delle due vecchie con facce giovani). In Austria, in Portogallo, in Belgio, in Olanda, ovunque. Anche in Grecia: Syriza è ormai un partito come gli altri, ha raccolto l’eredità del Pasok, il partito Socialista, con facce nuove. La Francia va avanti da vent’anni col gioco della desistenza, contro Le Pen, a favore dei vecchi partiti, benché inerti: due volte per i gollisti, una  volta per i socialisti. Dove i partiti sono scomparsi è in Italia – e in Russia, ma in Russia ci sono mai stati?
La scomparsa dei partiti avviene solo in Italia. I vecchi partiti sono stati sciolti dai Carabinieri. Il Pci e l’Msi, che i Carabinieri simpaticamente avevano lasciato in piedi, non hanno retto. E i nuovi non sono partiti: berlusconiani, dipietristi, ingroiani, vendoliani, grillini. C’è il Pd. Che però è – è nato volutamente così - una formazione movimentista, “liquida”. Per sfuggire all’impossibile compromesso di Berlinguer, l’ennesimo tatticismo del Pci che lo ha portato alla dissoluzione. E non riesce a quagliare. Perché assomma due entità inconciliabili, almeno finora: gli ex comunisti e gli ex democristiani.
Il Pd potrebbe cambiare pelle, nel solco tracciato da Napolitano, il presidente ex Pci. Che ha affidato il governo e il Pd agli ex Dc: Monti, Letta, Renzi. Gli ex comunisti dovrebbero trasformarsi in democristiani, nelle pratiche politiche e negli schieramenti. Sembra difficile, e forse non auspicabile. Ma, se succedesse, si avrebbe in Italia un solo partito.
Non ci sono indagini, né sociologhe né politiche, sul perché in Italia l’attività politica sia impossibile. L’ipotesi più attendibile è che sia per effetto dell’antipolitica: dell’apparato repressivo (giudici, polizie) e degli interessi costituiti, via media. Ce n’è un’altra?

L’Is come Hezbollah

L’Italia potrebbe avere la chiave di una “soluzione” per l’Is, come la ebbe con Hezbollah nel Libano. Una formazione che in tutto e per tutto anticipò l’Is negli anni 1980 – con la sola differenza che era sciita, mentre l’Is è sunnita: rapimenti, taglieggiamenti, attentati, attacchi suicidi, molti spettacolari, esecuzioni sommarie, in Libano e fuori, e proclami. Reagan propose una coalizione dei volenterosi per riportare il paese alla pace, cui aderirono la Francia e l’Italia di Spadolini, un grosso contingente.
Non fu un’esperienza felice. Francesi e americani ci lasciarono molti morti, 241 marines e 56 legionari, in uno degli attacchi suicidi più spettacolari, il 23 ottobre. Dieci giorni dopo  fu violato il quartier generale israeliano d’occupazione a Tiro, con 29 morti. Americani e francesi lasciarono il Libano. Spingendo il presidente Pertini a chiedere nel messagio di fine anno il rimpatrio del contingente italiano. Che però passò l’esperienza indenne. Grazie ai colegamenti mantenuti con Teheran, che Hezbollah aveva creato e in vari modi alimentava.
La missione poi perse di scopo col ritiro delle truppe israeliane dal Libano, ma il seme era stato gettato. E quando ci sono tornati vent’anni dopo, nel 2006, per l’impegno preso da D’Alema, ministro degli Esteri, con Condoleezza Rice, segretario di Stato di Bush, il più forte impegno italiano all’estero, in uomini e materiali, Hezbollah si è trasformata in  una forza di stabilizzazione.

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (269)

Giuseppe Leuzzi

Sudismi|sadismi
Galli della Loggia ha aperto sul “Corriere della sera” una campagna per il Sud. Cioè contro. Dice che in Calabria non vorrebbe doversi fare una tac – e perché dovrebbe? speriamo di no. Catanzaro non gli piace. Palermo centro neppure. Né la costa napoletana da Pozzuoli a Castellammare. Però, il Sud è molto grande e ha molte coste, il professore potrebbe pure rifarsi l’occhio altrove.

Galli della Loggia dice anche le cose note: il Sud non studia e non lavora, non produce, è più povero della Grecia, della Germania Est, etc. Ma dice pure che da un quarto di secolo “rapidamente tutto ciò che riguardava il Sud…ha acquistato un sapore di imbroglio, di corruzione, di raccomandazioni. Certo, il resto d’Italia non era da meno. Però lo era di meno”. Questo non è vero: la corruzione di tutta la Calabria, in venticinque anni, non vale quella del Mose da sola, o quella dell’Expo, o quella del  Monte dei Paschi, o gli sperperi delle autostrade lombarde, per dirne alcune.
Di più il Nord ha, certo, il leghismo. Di cui lo storico non tiene conto. E che altro fa il leghismo se non parlare male? Degli zingari, degli immigrati, dei tedeschi, e del Sud.

Oppure no, il leghismo non fa storia. Galli della Loggia autonomamente un quarto di secolo fa sulla “Stampa” pubblicava “Dieci comandamenti contro la mafia”, dei quali l’ultimo postulava: “Lo Stato deve rendere la vita impossibile come e più della mafia”. Tagliando l’acqua, l’elettricità, il telefono, togliendo la patente.
Un storico molto severo. Che però la colpa della mafia dà alle vittime.

Emigrazione e accoglienza
La Calabria, che ha probabilmente il tasso più elevato di emigrazione, tra le regioni d’Italia, in rapporto alla popolazione, ha accolto vaste immigrazioni: gli ebrei, i primi, i bizantini non iconoclasti, gli albanesi, la comunità più cospicua, i valdesi, e ora ripopola i borghi abbandonati con gli africani. Poiché la storia difetta in Calabria, proviamo a farcene una sintesi con alcune fonti disparate, Craufurd Tait Ramage, “Calabria pittoresca e romantica”, e Giuseppe Berto, “Il mare dove nascono i miti”.
I valdesi, dice Tait Ramage, si sono stabiliti a Guardia Piemontese verso la metà del Trecento (Berto dice il Duecento): “Narra un autore di trecento anni fa che, «essendosi ritrovati alcuni Valdesi con un gentiluomo calabrese in Torino, alloggiati insieme in un’osteria, in familiare discorso si fosse rappresentato che le valli erano tanto popolate che non vi si poteva cavare il vitto, onde esso gli offrì terre vacanti in Calabria». Erano albigesi, che si trasferirono volentieri in Calabria per evitare le persecuzioni. Si stabilirono nella zona impervia di Montalto (?), allora segregata dal mondo, lontana dall’unica strada di accesso, che era la vecchia via Popilia (la quale invece corre all’interno, n.d.r.). “Lì gli eretici poterono prosperare e moltiplicarsi in pace, ottennero dai feudatari numerosi privilegi, fondarono parecchie colonie, tra le quali, appunto, Guardia, messa in alto e fortificata”, contro i saraceni. La pace era tale che si sarebbero spinti a “pretendere il riconoscimento degli stessi diritti di libertà religiosa che, con la pace di Augusta, erano stati riconosciuti ai protestanti in Germania”. Ma il viceré di Napoli, lo spagnolo duca di Alcalà, bigotto come il suo re Filippo II, nel 1561 inviò le truppe per portarli alla ragione”.
“Furono sconfitti di notte, con uno stratagemma”, secondo Berto. Incuriosito a sua volta, era il 1948, lui alle prime armi come scrittore giornalista, che parlassero un dialetto misto di molte parole piemontesi-francesi.
Gli ebrei Berto dice “un nucleo importante della popolazione della Calabria”. Vi giunsero verso il 1200, spiega ai suoi lettori del “Tempo”, e si stabilirono a Corigliano, da lì spingendosi verso Cosenza, Tropea, Crotone, Catanzaro e Reggio. Così numerosi che in molte città e paesi c’è un quartiere loro, la giudecca. Quando  i turchi, dietro suggerimento, si disse, degli ebrei, continua Berto, s’impadronirono del Santo Sepolcro a Gerusalemme, il papa Martino indisse nel 1429 una crociata e persuase Giovanna II, la regina di Napoli, a gravare gli ebrei di una tassa. Quando gli ebrei furono cacciati dalla Spagna nel 1492, quattromila famiglie emigrarono in Calabria. Ma per poco: il regno cadde in mani spagnole e “l’intera popolazione ebraica venne cacciata da una terra dove aveva pacificamente vissuto per oltre trecento anni”. Salvo marranizzarsi.
Berto tratta anche degli albanesi. Si sono stabiliti nel regno di Napoli nel Quattrocento, preferendo l’esilio piuttosto che sottomettersi ai turchi. Erano parte della chiesa greca, ma si sono poi sotomessi all’autorità del papa, come colui che poteva difenderli meglio, senza che sia mai stata usata la forza per questo. Il matrimonio celebrano secondo il rito greco.

Oblomov al Sud
“Gioventù qui ci passa ad annodare”, è il senso della lassa dal titolo omonimo, dove D’Arrigo evoca (nella raccolta “Codice siciliano), la sua gioventù a Messina, guardando “il continente”. Oblomoviano, vitellonesco. Ma non generazionale: un modo di essere costitutivo. Per l’insoddisfazione di sé che si adagia nella certezza che “fuori”, “nell’altro mondo”, tutto invece calzerebbe a perfezione, e ogni aspettativa sarebbe esaudita.
“A noi senz’anima solo un’immagine” è un altro titolo della lassa. “È sera e ci diciamo a Sud: «Italia»” è la ninna nanna. Pur riconoscendo, altro componimento, che il nome si evoca  “Come un amuleto per noi in un rito”.

Nord malandrino
D’Arrigo ha anche, sempre in “Codice siciliano”, il Nord “malandrino” – e l’Italia “sortilegio”, “col malocchio” – nello “sguardo sprezzante delle donne: “. Evocando
“il senno di Sicilia nelle donne
che sprezzo lungo il fulvo sguardo hanno
per la sorte, il loro Nord malandrino,
Nord sempre duellato con olio e sale,
quando Nord è più forte, o Sole o lunna,
o Italia quando sortilegio, statua
col seno palombino, col malocchio”.

Immagine in stereotipia
“A noi senz’anima solo un’immagine
Può fare da fatalità, destino,
colpire la fantasia”. 
L’immagine, per il siciliano dello Stretto, è dell’Italia: “Al davanzale
Sta questa donna che si chiama Italia”,
Affacciata sul mare, equivoca: “Di donna all’aria del davanzale
La fama svaria fra bene e male”.
“Senz’anima” è il nodo-snodo. Crescere in un Sud “senz’anima”, in una pedagogia che tiene il Sud “senza’anima”. Si sottovaluta il leghismo, non se ne afferra mai abbastanza la durezza. La potenza e l’abiezione dello stereotipo – un “semplice” stereotipo.

leuzzi@antiit.eu

Il fascino discreto del nazismo

Si riscopre la verità sul nazismo di Heidegger dopo la pubblicazione dei “Quaderni neri” - da lui voluta, e approntata – che era nvece sotto gli occhi di tutti, durante il nazismo e subito dopo. Il “Discorso del rettorato”, 1933, Jaspers poté definire subito “il fondamento nazionalsocialista dell’università”. Nel 1945, alla denazificazione, Heidegger fu interdetto dall’insegnamento. Se ne è riparlato nel 1952, quando Löwith, discepolo deluso, portò le prove su “Les temps modernes”, la rivista dello haideggeriano Sartre. E poi regorlamente dopo.  Qui in un pubblico dibattito tenuto a Heidelberg il 5 febbraio 1988, per i 55 anni del “Discorso del Rettorato”, a ridosso del libro di Farias, “Heidegger e il nazismo”.
Un dibattito informale, senza testi scritti. Che Mireille Calle-Gruber, presente alla serata nell’anfiteatro dell’università, riesuma. Con una nota irrisolutiva di Jean-Luc Nancy. Un dibattito, allora, non sul “caso Heidegger”, ma su una traccia anodina: “Heidegger, portata filosofica e politica del suo pensiero”.
Il problema in realtà non è se Heidegger fu nazista, lui stesso se lo disse con Carl Schmitt in “Ex captivitate salus”. Il problema irrisolto è se fu anche eazzista, e perché non si pentì dell’Olocausto. Perrché mai chiese scusa, adducedo magari l’errore o la cattiva informazione, e nemmeno si disse addolorato. Heidegger non era razzista bilogico, e anzi il biologico riteneva una sciocchezza. Ma fu anche negazionista? No, però. Non negò Auschwitz. Ma non volle riconoscerlo, ricoscerne la specificità. L’aveva anzi appaiato all’esodo con molto morti dei tedecshi dalla Slesia e dalla Galizia, cacciati dai russi e dai polacchi. E l’aveva ricompreso – non lui, i suoi difensori – nel probelma più generale della sopravvenienza della tecnica, dell’umanismo anti-umanista, per cui niente vale se non l’efficienza.
Dirlo antirazzista è d’altra parte troppo – Lacou-Labarthe ha qualche sospetto, dell’antisemitismo velato che emergerà nei “Quaderni neri”. C’è un razzismo spirituale, che in Heidegger era forte, e molto prima dei ”Quaderni neri”: la sua trattazione del linguaggio, centrata sul Volk, è germanocentrica – forse provinciale, ma allora non proprio eraclitea,  cristallina.
E poi c’è sempre il nazismo, in attesa di giudizio malgrado le condanne. Il “caso Heidegger” viene ridotto, anche in questo dibattito, a quello della Colpa: se – lui lo rifiutava – la Germania doveva professare una Colpa nazionale. Ma in questo aveva più ragione lui che non Jaspers – in fondo, la Germania ha avuto la resistenza più numerosa e agguerrita al fascismo. No, quello che resta da chiarire, sotto lo scudo della Colpa-Condanna, è il fascino dirompente dello hitlerismo. Vincente, appassionante – anche a Parigi, dove pure era l’occupante. Effetto della potenza militare ma, di più, evidentemente, per una sua attrattiva che non viene esaminata – il soldato comunque suscita risentimento. Biologicamente, non ci vuole Heidegger, il nazismo era risibile: “piccolo e nero”, panciuto, piedi piatti, denti cariati più che alto, atletico e biondo - questo era quello di Leni Riefenstahl, un’altra storia (che, anch’essa, non si può vedere né dire). E impacciato e ignorante, non quello che si mistifica nei film.
L’ordinatrice ricorda che per l’occasione Gadamer, l’ultimo discepolo devoto di Heidegger, aveva voluto partecipare a tutti i costi, anche se anfitrione del convegno era Derrida, con cui aveva litigato – voleva spiegare il mancato razzismo di Heidegger (ma anche Derrida non ha mai discusso il nazismo di Heidegger). Richiama la folta partecipazione del pubblico, oltre un migliaio di persone, per alcune ore di discussione in francese. E ricostituisce il contesto: non c’era solo il libro di Farias, in quei giorni, c’era anche il negazionismo di Faurisson, e l’affare De Man. Paul De Man si era scoperto dopo morto un collaborazionista. Non per caso – anche se era reduce da una serie impressionante di traumi familiari: l’abbandono del padre, la morte in un incidente del fratello maggiore, già condannato per stupro, il suicidio della madre. Aveva scritto per “Le Soir”, il quotidiano più influente del Belgio, e per il giornale tedesco “Het Flemische Land”, terra fiamminga, a favore del nazista Nuovo Ordine Europeo, contro la cultura francese, e contro la “degenerazione ebraica”. Derrida, suo maestro in decostruzionismo, ne aveva difeso la memoria con un “Mémoires – pour Paul de Man”.
Jacques Derrida-Hans Gadamer-Philippe Lacoue-Labarthes, Il caso Heidegger. Una filosofia nazista? Mimesis, pp. 110 € 12

lunedì 21 dicembre 2015

Ombre - 297

Il partito Popolare di Rajoy ha perso le elezioni in Spagna – indiscutibilmente: il 16 per cento di voti e 60 deputati (su 350) in meno. Ma nell’informazione ufficiale italiana ha vinto, alla Rai e Sky, e nei giornali allineati. Per non dispiacere a Bruxelles, a Angela Merkel patrona di Rajoy? Ma Renzi  e i suoi media non dovrebbero celebrare piuttosto la sconfitta? Sono “popolari” in petto anch’essi?

Duettano-duellano Visco e Cantone, sui maggiori giornali. Professandosi reciproca stima e anzi amicizia. Solo non dicono di che natura. Come l’amicizia Moro-Fanfani, Moro-Andreotti, Andreotti-Fanfani, Andreotti-Forlani: letale.

Scantona Cantone nell’intervista prontamente messa su col “Corriere della sera” dopo quella di Visco il giorno prima con “Repubblica”.
Forse per dare argione alla vignetta di Giannelli che lo illustra: “Contro la corruzione giocheremo ai quattro cantoni”. In effetti, cosa ha fatto Cantone, a parte che parlare - è telegenico. E candidarsi – ma il Pd non lo candida – a sindaco di Napoli?

Ma poi non resiste, e smentisce secondo prassi per confermare.  È vero che Visco è andato venerdì da Mattarella a difendere la Banca d’Italia e lamentarsi del governo? “No”, risponde Cantone, Visco ha detto che l’incontro “era fissato da tempo e non ho ragioni per non credergli”. E aggiunge: Venerdì mattina ho telefonato a Visco e al segretario generale della presidenza della Repubblica”. Per dare gli auguri?

Renzi sceglie di attaccare Merkel, su ogni fronte, in ogni occasione, conferenze stampa, vertici, interviste, sgambate romane. Ma nessuno in Germania ne parla, né giornali né tv. Nemmeno per criticarlo.

Il giudice di Arezzo Rossi, che indaga su Banca Etruria ed è anche consulente di Renzi, sostiene: “Per me nessun incarico politico”. Renzi, e Letta prima, certo non sono politici, ma lo Spirito Santo non è politico?
Supponenza di giudice? Di democristiano? Di tutt’e due, Rossi è buon praticante.

“Istanbul. Tra lotta e repressione la rivoluzione turca spiegata con l’arte”. Trionfalista apre “Repubblica” sulla mostra che il governo turco organizza al Maxxi di Roma. Uno sponsor governativo è un ottimo fund raising, le istituzioni culturali ne hanno bisogno. ? Ma che rivoluzione sta facendo la Turchia?

Chiede misericordia il cardinale Bagnasco. Che certamente non si è appropriato dei soldi dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù, ma per questo è sotto processo a opera di Francesca Immacolata Chaouqui. Che è anche lei sotto processo per le carte su Bagnasco mandate fuori dal Vaticano. Ma sc ritte da chi? Manca un tassello all’inchiesta.
Ci voleva proprio, il giubileo della misericordia: un bel pasticcio ha fatto il papa giustiziere, far risultare ladri e profittatori i suoi cardinali.

Si mobilita il “Corriere della sera”, lettori e Sergio Romano compresi, a stigmatizzare Berlusconi che voleva alla Corte Costituzionale almeno “uno di destra”: è immorale, dicono. Dopo un’infornata di giudici rigorosamente di partito - del partito di Renzi. È l’ipocrisia che regge l’informazione? Si capisce che nessuno senta più bisogno del giornale.

E dica, dica: “Lei prevede che in Italia ci sarà bail-in dei conti correnti, quindi contagio, e poi richiesta di aiuto al fondo salvataggi, con l’arrivo della Troika”? Federico Fubini incalza un Lars Fed, che presenta uomo di Schäuble, e uno dei “cinque saggi” del governo tedesco. La Troika non si capisce cosa sia, ma il senso è chiaro: l’Italia deve fallire. Feld, saggio, si schermisce: “«Staremo a vedere» (ride)”.

È straordinario il numero degli analisti tedeschi, economisti, futurologi, tutti consulenti del governo tedesco, che sanno cosa l’Italia rischia, dove, in quale momento, e cosa deve fare. Cose che neanche gli economisti italiani sanno: loro fanno il futuro, i tedeschi.

Questi analisti sono forse una proiezione del “Corriere della sera” e di Fubini, forse no. Forse è così che il governo tedesco governa l’Europa, con una intelligence accademica invece che di carabinieri.

“Cristiani, vi stermineremo, vi faremo saltare in aria con il vostro papa”. Un tunisino e un palestinese di quarant’anni si sono divertiti a insolentire i militari di guardia alla basilica d Santa Maria Maggiore a Roma. Due ubriaconi. Ma il sentimento ormai è quello – un tempo avrebbero detto “cornuti!” (“sbirri!”, “vaffa”).

L’Approccio Reggiano conquista gli Usa

Nel 2012 Renée Dinnerstein, maestra a Brooklyn e poi consulente scolastico, progettò un contatto approfondito fra la pedagogia americana più attenta e il Reggio Emilia Appoach o metodo reggiano. Forte di un primo contatto maturato da giovane quando si trovò a risiedere a Roma, e di successive partecipazioni a eventi e seminari della pedagogia diffusa reggiana, aveva maturato il convincimento che quell’approccio era il più produttivo. Sia dal punto di vista del bambino, dello sviluppo della sua creatività, che da quello familiare e sociale. Tanto più nell’epoca della connettività, che è una chance per i molti, ma un rischio letale per i meno adatti – come semrpe avviene neile epoche di cambiamento.
La metodologia reggiana intanto era cresciuta nella valutazione internazionale. In particolare negli Stati Uniti. Nel dicembre del 1991, “Newsweek” aveva definito l’asilo Diana, all’interno dei giardini pubblici di Reggio Emilia, la più avanzata istituzione per la prima infanzia nel mondo. L’anno dopo vennero il prestigioso premio Lego in Danimarca, nel 1993 il Premio Kohl a Chicago.
Nel corso del 2012 Dinnerstein organizzò una full immersion di una settimana per 68 educatori, in prevalenza americani e tutti di ingua inglese, a Reggio Emilia. L’immersione si fece nell’ottobre 2012, e causò una conversione in massa: il fatto di essere dei ricercatori, e non dei “badanti”, e quasi pigmalioni dello svilppo del fancilullo, ha entusiasmato i partecipanti. Come orizzonte di vita e di lavoro, e anche per gli effetti immediati. Il libro si apre con un testo redatto da due bambini di quinta elementare, Max Gryce e Sophie MacKay, della Opal School, del museo per Bambini di Portland nell’Oregon, dove l’Approccio Reggiano è praticato, che è un piccolo miracolo. La pagiennta si legge, oltre che per l’immediatezza dell’espressione, come un trattatello, chiaro, completo, di pedagogia dell’immagine, dell’occhio. Grazie all’abitudine ormai acquisita dai bambini in pochi mesi di situarsi, di porsi in relazione con le persone e i luoghi, la natura, il tempo, le cose. È uno dei primi esiti del viaggio a Reggio.
Il “Reggio Approach” ha una storia recente ma consolidata. È nato si può dire casualmente, per le esigenze dell’immediato dopoguerra, quando bisognò ricostruire sulle macerie, e la manodopera femminile era necessaria per la scarsezza di quella maschile, creando il problema dell’assistenza alla prima infanzia. Si crearono i primi asili nido informali, non più necessariamente di suore e non a pagamento, a turno, in associazione, in cooperativa, di vicinato, di quartiere, di azienda, con assistenza necessariamente non formata, se non per le prime necessità, l’alimentazione, l’igiene. Su queste esperienze diffuse una pedagogia poco alla volta emerse, all’insegna anch’essa dell’informalità. Che Loris Malaguzzi organizzerà su base ampia, e teorizzerà come metodo.
Maestro elementare, alla Liberazione Malaguzzi, svanito lo Stato,  si era trovato a dover organizzare una scuola rurale, per i bambini di contadini e operati, in un paesino nei pressi di Reggio. Fu la prima di una serie: l’esperimento fece capire a Malaguzzi che la scuola poteva autogestirsi, facendo a meno dei benefici, ma anche delle metolodologie, dello Stato. Successivamente si addottorò in Psicologia al Cnr a Roma, e al ritorno a Reggio cominciò a lavorare anche per il Comune, al Consultorio per bambini in difficoltà, oltre che per le scuole autogestite. Il Reggio Emilia Approach prende così corpo anche nelle scuole statali.
Nel 1963 Malaguzzi convinse il Comune a organizzare quella che è oggi la scuola materna, dai tre ai cinque anni. Una  decisione istituzionale che abbisognò di un’opera di convincimento delle famiglie, come ricorda il ritatto dell’educatore su wikipedia: “Una volta a settimana portavamo la scuola in città. Letteralmente, noi caricavamo noi stessi, i bambini, ed i nostri strumenti di lavoro su un camion e facevamo scuola e organizzavamo delle mostre all’aria aperta, nei parchi pubblici o sotto il portico del teatro comunale. I bambini erano felici. La gente guardava; erano sorpresi e facevano domande”.
Il bambino sa 100 lingue
Nel 1970 Reggio Emilia apre la strada anche agli asili nido, dai tre mei ai tre anni. Sull’esperienza maturata si comincia a costruire una metodologia. Una rivista, “Zerosei”, raccoglie e affina le esperienze. Si fanno convegni di confronto. Malaguzzi sintetizza in varie pubblicazioni gli esperimenti e gli esiti. Nel 1980 fonda il Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, sempre a Reggio Emilia. Morirà nel 1994 – l’anno in cui è nato “Reggio Children”, centro internazionale per la difesa e lo sviluppo dei diritti e delle potenzialità dei bambini. Avendo definito il “Reggio Approach”, ormai riconosciuto internazionalmente, su queste lineee: il bambino è un soggetto di diritti e un produttore di conoscenze, guidato da propri, diversificati, interessi: i bambini sono comunicatori, posseggono “100 linguaggi”; l’apprendimento avviene autonomamente; all’interno di una rete di relazioni con gli educatori, la famiglia, l’ambiente (e i linguaggi).
Il bambino del “Reggio Approach” è ricettore e insieme creatore di conoscenza, va quindi seguito nel senso di lasciarlo libero di interagire con l’ambiente, ascoltarne le riflessioni, coglierne il senso, stimolarlo ulteriormente. È il bambino il protagonista e direttore del proprio percorso di apprendimento. È uno sviluppo dell’idea “costruttivista” di Piaget, che vedeva il bambino come costruttore di conoscenze, ma quasi isolato. No, Reggio lo vuole dotato di un potenziale maggiore, attivato dall’interazione con gli altri bambini, gli oggetti, l’ambiente, gli adulti. ll ruolo dell’insegnante è di accompagnamento e aiuto.  Anche di apprendimento: Malaguzzi lo dice “co-apprendista”, insieme al bambino, “all’interno della situazione di apprendimento”, col contributo delle sue cognizioni e delle sue esperienze. L’educatore si qualifica soprattutto come ricercatore.
Il libro ne fa un monumeto – e Heinemann, il grupo angloamericano leader dell’editoria per la formazione. Le discussioni nei seminari e workshop, a Reggio e dopo, sono cresciute fra i partecipanti di intensità e di scopo, e il progetto di una proposta di rinnovamento della prima educazione è nato. Con il contributo di specialisti e esperti, che hanno proposto i saggi di cui si compone il volume. Non più il nozionismo, ma uno stimolo al bambino ad aprirsi e interagire: a svilupparsi autonomamente. Lui e l’insegnante insieme. Un principio semplice che Loris Malaguzzi così sintetizzava: “Apprendimento e insegnamento non dovrebbero stare su rive opposte, a guardare il fiume scorrere sotto; dovrebbero inveve imbarcarsi insieme in un viaggio sull’acqua”.
Matt Glover-Ellin Oliver Keen (eds), The Teacher you want to be, Heinemann, pp. 234 € 31 

domenica 20 dicembre 2015

L’Europa al di sotto di ogni sospetto

Muoiono bambini al largo di Bodrum per traversate che nessuno ostacola, in un paese, la Turchia, dove c’è sempre un poliziotto accanto a voi: ogni profugo che se ne va è benvenuto.
Muoiono per una traversata di 5-6 miglia, per la quale i genitori devono pagare 1.500 dollari: vengono annegati? Il ricordo emerge insistente del doganiere greco che sconsigliava la traversata inversa: “Bodrum non è Alicarnasso. Bodrum vuole dire prigione”.
Per l’emergenza profughi in Turchia il governo tedesco ha imposto alla Ue un aiuto subito di tre miliardi di euro, cui ogni paese dovrà contribuire. Per annegarli meglio?
La Turchia lamenta un milione di profughi siriani alla frontiera. Il Libano, superficie un ottantesimo della Turchia, popolazione un ventesimo, ne ha due milioni. Ma al governo tedesco il Libano non interessa e quindi l’Europa non lo sa. Neanche al papa il Libano e i suoi profughi interessano molto.

Dice Visco sereno, il governatore della Banca d’Italia, a Fabio Bogo di “Repubblica: “Tra il 2008 e il 2014 il sostegno pubblico al settore finanziario nell’area dell’euro è costato in media il 5 per cento del pil. L’Italia è l’unico paese ad aver registrato un marginale guadagno dagli interventi”.
Tradotto: l’intervento a favore delle banche è costato quasi mille miliardi, cifra strabiliante. L’Italia è stata l’unico paese virtuoso. Ma allora: quando si è trattato di spendere pochi spicci, privati e non pubblici, per evitare il fallimento delle quattro banche locali del centro Italia, come mai l’Europa si è fatta arcigna? Visco ne ha paura? Di Schulz, Juncker, personaggi così, di Vesterhagen, Hill? Una settimana dopo che la Germania aveva salvato la banca di Amburgo, azionisti compresi, con tre miliardi di euro pubblici. Che la Ue ha avallato come non aiuti di Stato.

Chi è Hill, Lord Hill, barone di Oareford? Un signore inglese che voleva le quattro banche fallite – un disastro. È questo signore un mentecatto? È il solito inglese con la puzza al naso, uno dei tanti baroni che Londra manda volentieri a Bruxelles? No, è il commissario Ue ai Servizi finanziari. A favore di chi? E chi è Vestagen, o Vesterhagen, non ne sappiamo neppure il nome?

L’egemonia senza popolo

Un libello sulla sinistra francese che “cerca disperatamente il suo popolo”. Diagnosi attardata, benché di uno studioso accademico. Con attrezzi attardati: l’egemonia culturale di Grasmci come preliminare alla vittoria politica. Quasi commovente, essendo una perorazione – di una collezione “Pugni sul tavolo”. Ma non c’è tema o materia su cui la sinistra sia al passo coi tempi: Europa, diritto familiare, natalità, nazionalità, identità culturale, l’elenco di Brustier è impressionante – e il lavoro? Teorizzata da Gramsci a sinistra e praticata dai partiti comunisti, l’egemonia culturale è ora anzi la causa principale della sterilità politica della sinistra stessa, coltivando la propria sopravivenza, il “sottogoverno” della cultura: favori vicendevoli, posti, prebende.
“Á demain, Gramsci” dà l’addio all’egemonia in Francia, dove la pretesa è vuota da tempo, da prima della caduta del Muro. Una riflessione sterile, stereotipa, che ha provocato  abbandoni anche illustri, da Debray e Finkielkraut, una dozzina di nomi rinomati. Ma è facile da leggere perché in Italia non è diverso: la pretesa è immutata alla Rai, nelle redazioni, sempre molto controllate, nell’editoria, nei festival culturali che dilagano. Mentre l’egemonia vera è della destra, in alto e in basso – in economia, in politica e nel linguaggio, dal conformismo al turpiloquio. Cui la sinistra concorre appunto con l’albagia.  
Gaël Brustier, Á demain, Gramsci, Cerf, pp. 72. € 5

Milano, il “Corriere”, Renzi e Visco

Perché il Corriere della sera” attacca la Banca d’Italia sulla questione Etruria? È questo in filigrana il senso del “Qualcuno pagherà”, l’autodifesa oggi del presidente della Banca d’Italia Visco, affidata a “Repubblica”.
A lungo Milano ha attaccato la Banca d’Italia. Ma si pensava acqua passata, con la conclusione degli accorpamenti bancari – le banche milanesi volevano avere mano libera, la Banca d’Italia voleva regolamentare  le acquisizioni. È stata anche una campagna personale di Bazoli, contro l’ex  governatore Fazio. Ma Bazoli ora non conta più nel “Corriere della sera”. Oppure sì – quanto conta Elkann, che ci mette i soldi?
Forse è indigesto il decreto sulle Popolari, grande strumento del sottogoverno ambrosiano. Voluto da Visco per chiudere la tante zone dombra delle gestioni e portare un po più di trasparenza.
O si può pensare a un regolamento dei conti ancora interminato tra vecchi e nuovi “popolari”, gli ex Dc. Fazio, vecchio popolare sturziano, che non s’immischiava di politica, fu fatto fuori da Bazoli, popolare aggressivo, dossettiano, fanfaniano. L’analogo si riproduce ora con Renzi, aggressivissimo e anzi monopolista, di cui il giornale milanese è portavoce? Questo è più probabile.
La misura dello scontro è data dal Procuratore di Arezzo Rossi, amico e consulente dei Boschi e di Renzi. Che continua a inquisire gli organi di controllo, la Consob e la Banca d’Italia, invece che il consiglio d’amministrazione di Etruria e i suoi referenti politici. E oggi fornisce documenti riservati, spaiati, contro Consob e Banca d’Italia, allo stesso giornale che intervista Visco.