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Woody Allen – Si rivela gran
filosofo in “Irrational Man”, film filosofico. O meglio si dichiara, filosofo
lo è sempre stato, la sua comicità è filosofica – dal tempo di “questa è una vapina”: riflessiva, sui Grandi Temi. Candidato all’Oscar col titolo derridiano-heideggeriano
“Deconstructing Harry” vent’anni fa – “Harry a pezzi”. Ma più nei testi scritti che al
cinema. La metafisica è incomprensibile ma non fa male, anzi, scriveva
quasi mezzo secolo fa sul “New Yorker”, Kierkegaard
ci si divertiva. E
ipotizzava, sulla stessa rivista, che Schopenhauer negli ultimi anni divenne
sempre più pessimista perché si accorse di non essere Mozart. Poneva cioè
problemi filosofici, spaziando da Hegel a Pascal.
Ma tutti i plot dei suoi ultimi film sono
filosofici, perfino presocratici, tra misteri e tragedia greca, la serie “alimentare”, sulle città europee del turismo di
massa, Londra, Parigi, Barcellona e Roma
- la sua vera celebrazione di Parigi è quella del Leipzig Anxiety Festival di
qualche decennio prima, il festival della filosofica ansia.
È uno
che rifà sapiente John Fante, l’iperrealismo caricatura del realismo: la
straordinaria irrealtà del reale. Non realista, non del realismo, neo o vetero,
italico, sovietico, lagnoso, censorio, dei migliori-di-Dio-e-del-mondo, stanchi
perché sazi, nato col verismo nella Belle
Époque opulenta, che s’ammanta di
Verità Ultime, più spesso la rivoluzione e il bagno di sangue – dimenticato, ma
in auge fino all’altro ieri. Salvando la fantasia, che il reale lega
liberamente, per gioco: la letteratura.
“La
prova che Dio non c’è è che le ragazze più belle sono quasi sempre le più
noiose”, è estetica non male.
O la verità
su Freud, che a tenerlo su è l’industria dei divani.
Germania – Ha un senso
di identificazione fortissimo. Che attrae ugualmente molto, anche i più
avversi, quali si potrebbero pensare gli ebrei, gli slavi, nonché i suoi nemici
storici, la Francia e l’Inghilterra. Di identificazione fino alla perdita del
senso critico, che pure alla filosofia tedesca si appella e di cui la Germania
si fa bandiera. Non è un caso Hannah
Arendt, “Sulla rivoluzione”, che la seconda guerra mondiale propone di
considerare “una forma di guerra civile che abbraccia la terra intera”,
piuttosto che condannare la “sua” Germania. Innesca rifiuto oppure adesione
come tutto, ma in forma sempre acuta, quasi agitata, e radicale.
Le traduzioni dal tedesco si sottolineano costantemente
con l’originale, anche da germanisti perfettamente bilingui, siano essi
italiani che inglesi o americani o francesi o spagnoli, come di una perfezione
altrimenti irraggiungibile: una dipendenza psicologica. Mentre si traduce
liberamente da altre lingue, anche da quelle concettualmente (semanticamente)
diverse, come il cinese e lo stesso russo, pieno di parole-concetti
intraducibili, e non solamente per la sintassi e le parole composte. E con un
rispetto unico per questa presunta indefinitezza del tedesco, come di un esoterismo.
Ma allora confinante con la sacralità e non con la magia, che altrove e
altrimenti invece indispettisce, come un trucco.
La dipendenza è specialmente forte, assoluta, per
l’“esattezza” – la lingua, il prodotto, la burocrazia, le persone, l’etica del
lavoro, la politica, tutto è in Germania curato, preciso, esatto. L’esattezza
come sinonimo di perfezione. Che invece non c’è e non si può dare, e il tedesco
stesso non ci ambisce. Come testimoniano tante fraudolenze, e la stessa
filosofia tedesca, non esattamente esatta – è il suo vanto.
Specialmente tedescofilo si può dire anzi
l’ebraismo, anche dopo l’Olocausto – Hannah Arendt non è isolata. Il solo ebreo
tedesco che abbia rifiutato la Germania, Gershom Scholem, è tenuto in punta di
bastone e quasi per apostata, come un fuorilegge o un eretico – uno che
rinuncia a un’eredità così cospicua.
A Tel Aviv e Gerusalemme, fino agli anni 1970,
prima dell’immigrazione dalla Russia e dai paesi arabi che ha rivoluzionato la
composizione demografica e sociale di Israele, si parlava yiddisch – e ladino -
più che ebraico.
Agamben sembra attribuire gran peso, in “Stasis. La guerra civile”,
al sipario “alla tedesca”, che si chiude(va) sollevandolo invece che
abbassandolo. Ci vede il teatro che viene dalla terra come usava in antico, e
non dal cielo. Ma, poi, dà conto di qualche incertezza - tanto più che il
sipario oggi si apre orizzontalmente, da e per il centro: “Non è sicuro che sia
possibile attribuire un senso a questi cambiamenti nella manovra del sipario”.
Italiano – Il carattere Dickens
assomiglia ai “fiumi di montagna” (nell’articolo “Giù con la marea”, ora nella
raccolta “Guardie e ladri”), che “in Italia sono come il loro spirito nazionale:
ora assai docili, ora sfrenati improvvisamente a rompere gli argini, ora di
nuovo a calare”.
Incipit
-
Bulwer-Lytton,
lo scrittore prolifico di romanzi storici, coevo e concorrente di Walter Scott,
è dimenticato, tra le altre cose, perché autore di “era una notte buia e
tempestosa”. Ma Dickens lo pasticcia senza infamia - “Guardie e ladri”, p. 215:
“Era una notte assai buia di freddo pungente”.
Libro – Torna
di carta, dicono le statistiche. Anche perché gli editori hanno soffocato
l’ebook, con prezzi abnormi – benché i margini sull’ebook siano molto più ampi
che su carta. Ma l’abitudine al libro pesa sempre, se la stessa Amazon apre
librerie, con scaffali e pile di libri da sfogliare, materialmente - e Jeff
Bezos, il padre-padrone di Amazon, il primo investimento che si è potuto
permettere con gli ampi profitti lo ha fatto nella carta, comprandosi il “Washington
Post”.
La diffidenza resta peraltro intatta sull’archivio:
quello elettronico, qualsiasi blogger lo sa, dà poco affidamento - di reperibilità
straordinaria, resta incerto per la tenuta, i supporti non durano un decennio.
Pasolini – Rifiutava da
ultimo, lui nato maestro (i suoi anni felici, secondo Naldini), la scuola. Che
si può rifiutare per tanti motivi. La
modernità ha sradicato le masse, prima col salario, poi con la pensione, ora
coi consumi. E la scuola, nata dallo stesso mito laico che alimenta il salario,
la rendita e i consumi, ne è, forse senza malizia, il vettore: non rimedia alla
disuguaglianza ma la riproduce. C’è sapienza, nella scuola istituzione,
ancorché perversa. Ma Pasolini la rifiutava per sue mitologie autarchiche, di
un mondo senza peccato e senza Dio - che non è
mai stato di nessuno, se non dei suoi sottili burattinai, che non sono
le masse (è il nodo del male assoluto, del suo impossibile isolamento, o del piacere
di fare il male).
O non subiva da ultimo la crisi dei
cinquant’anni, ormonale? Invaso dalla pornografia, la dissoluzione in un lago
di sperma, sterile. Lamentava la licenza, ma da vittima – la lamentava degli
altri, ma evidentemente di se stesso, come del resto da prove narrative, il
postumo “Petrolio” e altre. Vittima dell’iterazione, della compulsione a
rifarlo, con chiunque, ovunque, in ogni situazione e posizione. Vittima anche della
sua “diversità”, da intendere l’omofilia. Qui dando ragione agli omofobi, che
l’omosessuale dicono sfondato e senza cuore, mentre è probabile che subisse
l’incontinenza dei cinquanta, dell’età che fugge.
È impossibile amare i moralisti. Della
sterilità dell’impegno si potrebbe fare un libro.
“È per l’Istinto di
Conservazione\ che sono comunista”, ha ribadito in molte forme. In molte maniere
opportunista – come di chi alla politica si adatta. Col modesto ma costante guardarsi
allo specchio nelle occorrenze quotidiane. Agli inizi a Roma, per entrare nel
cinema un giornale fascista gli è andato bene. Dove apprezzava del “Bell’Antonio”
la sua propria sceneggiatura, e denigrava in quanto fascista l’ottimo autore
del romanzo, Brancati. O “La dolce vita” elogiava in quanto film “decadente,
provinciale, cattolico”.
Poesia – È molta, profluvia,
diluvia, è facile e appaga – è il genere più praticato nell’autoeditoria. E in
questo senso immortale: un bisogno di comunicazione-conservazione, di solito,
la sottende. È la prima forma di
espressione, già alle materne. Facile e anche troppo facile, legata al ritmo,
con filastrocche, rime, ritmi, assonanze, ma anche no, a sorpresa, a caso. Spontanea e
costruita. “Formativa” sempre, per contesti, linguaggi, pedagogie, siano pure
“selvagge”, irriflesse.
letterautore@antiit.eu