Si è eletto in Domenico Scilipoti, di
Barcellona Pozzo di Gotto, il prototipo del politico voltagabbana, per motivi
non sempre nobili. Essendo stato messo alla gogna da Di Pietro, il suo ex
capopartito, la qualifica è contestabile. Ma, pur prendendola per buona, è
quasi un’eccezione: su 226 parlamentari che in questa legislatura vanno in
soccorso a Renzi - senza contropartite, ovvio - 131 sono di Roma in su, il 58 per cento.
Alcuni sono perfino leghisti.
Un primato negativo che il Sud non ha.
L’origine
del Sud
Perché dire i Mari del Sud, si chiede
Melville (“I Mari del Sud”, ora in “Viaggi e balene”), per l’oceano Pacifico,
che sta in buona parte, per almeno la metà, a Nord dell’equatore? Perché
Balboa, il primo che lo vide, affacciandovisi dall’istmo di Darien il 25
settembre del 1513, lo vide a Sud.
Pacifico è il nome che all’oceano darà Magellano.
Anche lui sbagliando, ma giustificato: lo vide uscendo fortunosamente dagli
stretti infernali che portano il suo nome.
Tutto è relativo, solo il Sud italiano è
immutabile?
Sembra che il Sud ci sia stato sempre, e
invece è recente. Un carico decisivo l’ha messo naturalmente Dumas, con i suoi
“Borboni di Napoli”, sedici volumi in ottavo di nefandezze – non si pesa
abbastanza la mitografia. Di certo non va molto indietro, nei libri di viaggi e
di memorie fino a prima dell'unità: i pregiudizi il Sud condivideva con l’Italia – non c’era un
giudizio diverso. Dumas doveva fare, anche lui, l’unità – era stata del resto
una grande rivoluzione, le tante insurrezioni, Garibaldi etc., l’unica forse vera,
e incontestata, di tutto l’Ottocento, e uno scrittore sul mercato doveva
cavalcarla. Si può riportare l’inizio del “Sud” all’unità. Subito,
immediatamente, prima ancora che fosse dichiarata.
La datazione di un’epoca è sempre
complessa. Gli storici ancora non hanno
deciso se far finire il Medio Evo con Dante, o con la caduta di Granada,
o con la scoperta dell’America. Ma è certo che il Sud come tutto ha avuto un
inizio, col suo carico razzista, anche se molto deve agli stessi meridionali. Fino
a tutto il Settecento, e a Ottocento inoltrato, oltre la metà del secolo, non
ce n’è traccia.
La mafia pure ha avuto origine – anche
se alcuni “storici” siciliani, Sciascia compreso, tendono a farla eterna. I
Beati Paoli – letteratura d’evasione? Garibaldi? Subito dopo l’unità, uno o due
anni dopo, governava a Palermo – governava col governo.
La
Sicilia di Montalbano
Si cercano le ragioni dello
straordinario successo di Andrea Camilleri, con storie il più spesso ordinarie
e immemorabili. Di una Sicilia ordinata e ordinaria. Dove si ride anche. O non sarà questa la
ragione del successo?
Nella Sicilia di Camilleri i cattivi sono di là: i mafiosi, i senatori e
sottosegretari, i prefetti, i procuratori della Repubblica e i giornalisti. Mentre “noi”, i belli-e-buoni della storia, immancabilmente vittoriosi
presidiamo il bene. Che è normale e ordinario anche nell’isola. Effetto che i
film di Degli Esposti e Sironi hanno imposto
di prepotenza, con le immagini di bellezza e ordine, in prima visione e nelle
tante repliche. Con Zingaretti - calvo, tarchiato, essenziale - solido
ancoraggio, la roccia del bene. Senza obiezioni possibili: non c’è attrattiva se
non in storie che promettono bene, catartiche, anche se il gusto si è spostato
verso il trash e l’horror.
Si potrebbe – si dovrebbe
– andare anche più in là, alla figura, le parole, i pensieri e le omissioni del
Montalbano-Zingaretti, il fascistone della nostalgia recondita di Camilleri che
il regista Sironi ha evidenziato e immortala nei suoi film. Del Montalbano
mussoliniano, nell’evidenza fisica e gestuale, quasi una copia, e non solo:
tutti i suoi movimenti e i ragionamenti lo sono – con “le donne”, la “fidanzata”
compresa, coi sottoposti e i superiori, e
“il mondo” là fuori, naturalmente depravato e da redimere. Tutto sempre molto
corretto. Per esempio, non è mai questione di un “parrino”, nemmeno per caso,
che pure sono molto presenti sempre nei paesi. Per una voglia di ordine che, anque questa, è molto Sud, un bisogno ora quasi istintivo. Camilleri spariglia anche in questo, ma restiamo al più semplice.
È il successo di un’idea di Sicilia
vittoriosa e non sconfitta, come invece avviene – se ne legge – ogni giorno.
Ordinaria e ordinata, appunto. Quella reale dev’essere diversa. Ci sono tra i “nostri”,
per esempio, anche Crocetta e Leoluca Orlando, quindi di che stiamo parlando? Altrimenti,
isolati i cattivi, la Sicilia avrebbe costruito solidamente e abbondantemente
sul successo ormai venticinquennale di Camilleri-Montalbano. Che invece
contrasta in ogni suo atto, in interminabile cupio
dissolvi.
Le
Lega è un desiderio
Al dunque non conta molto. Non fa
nemmeno molto, dove governa - non di indecente. Ma è un desiderio crescente, da quando ha
installato il leghismo nella politica e l’opinione – quando ancora Bossi faceva
finta di andare a lavorare, per ingannare la moglie, prima di diventare
senatore nel 1987. Agli inizi c’era la Lega e il leghismo stentava – troppo spinto
per il lombardo posato, anche per il veneto. Ora la Lega non è granché come
partito, perde i pezzi, mentre il leghismo dilaga, è una specie di tutti contro
tutti.
Non c’è trasmissione tv in cui non ci sia
un leghista o non si faccia leghismo. Il comico Crozza tratta con rispetto solo
Bossi, e Maroni – anche Salvini. Perfino Berlusconi fa le prove. Molto leghismo è meridionale, quello dei caratteri nazionali. Non
da ora del resto, alcuni meridionali eccellenti eccellono in separatismo. Sciascia
su tutti, con la linea della palma e la sicilitudine. E l’invadente
napoletanità. A specchio, meno offensivo ma più radicato, forse, della sicilitudine
di Sciascia, stava già in tempi remoti il nordismo di Pasolini.
Il
siciliano, il calabrese, il napoletano (ma anche il romano, il milanese, il
bolognese…) sono comodi, si dice. E sono limitativi, si sa – poi bisogna
dilungarsi per precisare. E poi le regioni non esistono, sono divisioni
amministrative. Italiano del Sud, o del Nord, è anche falso, almeno le regioni
hanno un connotato linguistico. Già italiano è difficile e impreciso.
Il
discorso leghista è sterile: una grandissima perdita di tempo e energie.
Aspromonte
La
“Chanson d’Aspremont” è molto studiata in Germana, come tutto, e in Francia.
Anche in Olanda, e negli Usa. In Calabria zero, nelle università calabresi e
altrove. L’unico studio, un po’ avventuroso, è di Carmelina Siclari quando
insegnava al liceo.
Scade quest’anno un progetto italo-belga “La chanson
d’Aspremont”, un sito che vanta 16 mila contatti e sei anni di studi,
2010-2016. Senza grande esiti finora ma con molto impegno. Di fondi, del Cnr belga
anzitutto, e dell’Unione Europea, con partecipanti anche italiani, del Nord, e
con studi soprattutto nordici.
Di “Gente in Aspromonte” Walter Pedullà
trova la prosa (“Le armi del comico”, 249) “vitalissima, combattiva e
rovente”. Mentre non sembra. Manierata piuttosto, tra verismo e neo realismo,
cioè volutamente elementare, e ripetitiva. Connotativa anche a senso unico, un’unica
interminabile disgrazia. Del resto, ha
scavato un abisso, difficile rimontarlo.
I
“fatti di Aspromonte” sono stati e sono liquidati come una scaramuccia e un episodio,
remoto. Purtroppo col silenzio, per quanto indignato, dello stesso Garibaldi.
Centrale è invece per l’impianto dell’Italia unita. Cominciava l’occupazione
unilaterale del Sud, senza più la malleveria di Garibaldi, col brigantaggio in
Aspromonte – uno dei pochi posti dove non c’era.
“Tropeana” è nel racconto “La posta” di
Federico De Roberto - un racconto di guerra, ora in “La paura” - “la nuvola di
tempesta”, la grandine grossa come una noce.
“Preferisco
la vita del brigante in Calabria a quella delle cricche parigine”, Berlioz
barava nella lunga introduzione all’opera “Lélio” – non era mai stato in
Calabria. Ma il nome non era maledetto.
“Nessun paese d’Italia ch’io conosca… mi
sembra così atto a dare, come la Calabria, in questa sua immensa piccolezza
smembrata e senza centralità di visione,
la sensazione continua dell’infinito, dell’irraggiungibilmente lontano e dell’ignoto”:
Giuseppe Isnardi così concludeva nel 1928, quando lasciò l’insegnamento a
Catanzaro per Grosseto, i suoi sedici
anni di permanenza in Calabria.
La Calabria non si fida perché pone alla
base di tutto la “lealtà”, argomentava Alvaro nel primo numero dell’“Espresso”
sui “fatti d’Aspromonte”, la caccia all’uomo con dispositivo militare nell’estate
del 1955. Sembra Orwell - Alvaro è un Orwell sperduto nella palude italiana.
Non si governa antagonizzando: “Non è questione di controllare o intimorire”.
Osteggiando gli onesti col tutto mafia, aggiunge Alvaro, “l’«operazione
Aspromonte» rischia di dare risultati opposti a quelli che si propone”.
Produrrà oltre mezzo secolo di Aspromonte “nero”, la leggenda nera della
Montagna. Popolandola di rapiti per soldi, di cui prima non c’è memoria.
leuzzi@antiit.eu
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