martedì 12 gennaio 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (271)

Giuseppe Leuzzi

Si è eletto in Domenico Scilipoti, di Barcellona Pozzo di Gotto, il prototipo del politico voltagabbana, per motivi non sempre nobili. Essendo stato messo alla gogna da Di Pietro, il suo ex capopartito, la qualifica è contestabile. Ma, pur prendendola per buona, è quasi un’eccezione: su 226 parlamentari che in questa legislatura vanno in soccorso a Renzi - senza contropartite, ovvio -  131 sono di Roma in su, il 58 per cento. Alcuni sono perfino leghisti.
Un primato negativo che il Sud non ha.

L’origine del Sud
Perché dire i Mari del Sud, si chiede Melville (“I Mari del Sud”, ora in “Viaggi e balene”), per l’oceano Pacifico, che sta in buona parte, per almeno la metà, a Nord dell’equatore? Perché Balboa, il primo che lo vide, affacciandovisi dall’istmo di Darien il 25 settembre del 1513, lo vide a Sud.
Pacifico è il nome che all’oceano darà Magellano. Anche lui sbagliando, ma giustificato: lo vide uscendo fortunosamente dagli stretti infernali che portano il suo nome.
Tutto è relativo, solo il Sud italiano è immutabile?
Sembra che il Sud ci sia stato sempre, e invece è recente. Un carico decisivo l’ha messo naturalmente Dumas, con i suoi “Borboni di Napoli”, sedici volumi in ottavo di nefandezze – non si pesa abbastanza la mitografia. Di certo non va molto indietro, nei libri di viaggi e di memorie fino a prima dell'unità: i pregiudizi il Sud  condivideva con l’Italia – non c’era un giudizio diverso. Dumas doveva fare, anche lui, l’unità – era stata del resto una grande rivoluzione, le tante insurrezioni, Garibaldi etc., l’unica forse vera, e incontestata, di tutto l’Ottocento, e uno scrittore sul mercato doveva cavalcarla. Si può riportare l’inizio del “Sud” all’unità. Subito, immediatamente, prima ancora che fosse dichiarata.
La datazione di un’epoca è sempre complessa. Gli storici ancora non hanno  deciso se far finire il Medio Evo con Dante, o con la caduta di Granada, o con la scoperta dell’America. Ma è certo che il Sud come tutto ha avuto un inizio, col suo carico razzista, anche se molto deve agli stessi meridionali. Fino a tutto il Settecento, e a Ottocento inoltrato, oltre la metà del secolo, non ce n’è traccia.
La mafia pure ha avuto origine – anche se alcuni “storici” siciliani, Sciascia compreso, tendono a farla eterna. I Beati Paoli – letteratura d’evasione? Garibaldi? Subito dopo l’unità, uno o due anni dopo, governava a Palermo – governava col governo.

La Sicilia di Montalbano
Si cercano le ragioni dello straordinario successo di Andrea Camilleri, con storie il più spesso ordinarie e immemorabili. Di una Sicilia ordinata e ordinaria. Dove si ride anche. O non sarà questa la ragione del successo?
Nella Sicilia di Camilleri  i cattivi sono di là: i mafiosi, i senatori e sottosegretari, i prefetti, i procuratori della Repubblica e i giornalisti. Mentre “noi”, i  belli-e-buoni della storia, immancabilmente vittoriosi presidiamo il bene. Che è normale e ordinario anche nell’isola. Effetto che i film di Degli Esposti e Sironi hanno  imposto di prepotenza, con le immagini di bellezza e ordine, in prima visione e nelle tante repliche. Con Zingaretti - calvo, tarchiato, essenziale - solido ancoraggio, la roccia del bene. Senza obiezioni possibili: non c’è attrattiva se non in storie che promettono bene, catartiche, anche se il gusto si è spostato verso il trash e l’horror.

Si potrebbe – si dovrebbe – andare anche più in là, alla figura, le parole, i pensieri e le omissioni del Montalbano-Zingaretti, il fascistone della nostalgia recondita di Camilleri che il regista Sironi ha evidenziato e immortala nei suoi film. Del Montalbano mussoliniano, nell’evidenza fisica e gestuale, quasi una copia, e non solo: tutti i suoi movimenti e i ragionamenti lo sono – con “le donne”, la “fidanzata” compresa, coi sottoposti e i superiori,  e “il mondo” là fuori, naturalmente  depravato e da redimere. Tutto sempre molto corretto. Per esempio, non è mai questione di un “parrino”, nemmeno per caso, che pure sono molto presenti sempre nei paesi. Per una voglia di ordine che, anque questa, è molto Sud, un bisogno ora quasi istintivo. Camilleri spariglia anche in questo, ma restiamo al più semplice.
È il successo di un’idea di Sicilia vittoriosa e non sconfitta, come invece avviene – se ne legge – ogni giorno. Ordinaria e ordinata, appunto. Quella reale dev’essere diversa. Ci sono tra i “nostri”, per esempio, anche Crocetta e Leoluca Orlando, quindi di che stiamo parlando? Altrimenti, isolati i cattivi, la Sicilia avrebbe costruito solidamente e abbondantemente sul successo ormai venticinquennale di Camilleri-Montalbano. Che invece contrasta in ogni suo atto, in interminabile cupio dissolvi

Le Lega è un desiderio
Al dunque non conta molto. Non fa nemmeno molto, dove governa - non di indecente. Ma è un desiderio crescente, da quando ha installato il leghismo nella politica e l’opinione – quando ancora Bossi faceva finta di andare a lavorare, per ingannare la moglie, prima di diventare senatore nel 1987. Agli inizi c’era la Lega e il leghismo stentava – troppo spinto per il lombardo posato, anche per il veneto. Ora la Lega non è granché come partito, perde i pezzi, mentre il leghismo dilaga, è una specie di tutti contro tutti.
Non c’è trasmissione tv in cui non ci sia un leghista o non si faccia leghismo. Il comico Crozza tratta con rispetto solo Bossi, e Maroni – anche Salvini. Perfino Berlusconi fa le prove. Molto leghismo è meridionale, quello dei caratteri nazionali. Non da ora del resto, alcuni meridionali eccellenti eccellono in separatismo. Sciascia su tutti, con la linea della palma e la sicilitudine. E l’invadente napoletanità. A specchio, meno offensivo ma più radicato, forse, della sicilitudine di Sciascia, stava già in tempi remoti il nordismo di Pasolini.
Il siciliano, il calabrese, il napoletano (ma anche il romano, il milanese, il bolognese…) sono comodi, si dice. E sono limitativi, si sa – poi bisogna dilungarsi per precisare. E poi le regioni non esistono, sono divisioni amministrative. Italiano del Sud, o del Nord, è anche falso, almeno le regioni hanno un connotato linguistico. Già italiano è difficile e impreciso.
Il discorso leghista è sterile: una grandissima perdita di tempo e energie. 

Aspromonte
La “Chanson d’Aspremont” è molto studiata in Germana, come tutto, e in Francia. Anche in Olanda, e negli Usa. In Calabria zero, nelle università calabresi e altrove. L’unico studio, un po’ avventuroso, è di Carmelina Siclari quando insegnava al liceo.

Scade quest’anno un progetto italo-belga “La chanson d’Aspremont”, un sito che vanta 16 mila contatti e sei anni di studi, 2010-2016. Senza grande esiti finora ma con molto impegno. Di fondi, del Cnr belga anzitutto, e dell’Unione Europea, con partecipanti anche italiani, del Nord, e con studi soprattutto nordici.

Di “Gente in Aspromonte” Walter Pedullà trova la prosa (“Le armi del comico”, 249) “vitalissima, combattiva e rovente”. Mentre non sembra. Manierata piuttosto, tra verismo e neo realismo, cioè volutamente elementare, e ripetitiva. Connotativa anche a senso unico, un’unica interminabile disgrazia. Del resto,  ha scavato un abisso, difficile rimontarlo.

I “fatti di Aspromonte” sono stati e sono liquidati come una scaramuccia e un episodio, remoto. Purtroppo col silenzio, per quanto indignato, dello stesso Garibaldi. Centrale è invece per l’impianto dell’Italia unita. Cominciava l’occupazione unilaterale del Sud, senza più la malleveria di Garibaldi, col brigantaggio in Aspromonte – uno dei pochi posti dove non c’era.

“Tropeana” è nel racconto “La posta” di Federico De Roberto - un racconto di guerra, ora in “La paura” - “la nuvola di tempesta”, la grandine grossa come una noce.

 “Preferisco la vita del brigante in Calabria a quella delle cricche parigine”, Berlioz barava nella lunga introduzione all’opera “Lélio” – non era mai stato in Calabria. Ma il nome non era maledetto.

“Nessun paese d’Italia ch’io conosca… mi sembra così atto a dare, come la Calabria, in questa sua immensa piccolezza smembrata e senza centralità  di visione, la sensazione continua dell’infinito, dell’irraggiungibilmente lontano e dell’ignoto”: Giuseppe Isnardi così concludeva nel 1928, quando lasciò l’insegnamento a Catanzaro per Grosseto,  i suoi sedici anni di permanenza in Calabria.

La Calabria non si fida perché pone alla base di tutto la “lealtà”, argomentava Alvaro nel primo numero dell’“Espresso” sui “fatti d’Aspromonte”, la caccia all’uomo con dispositivo militare nell’estate del 1955. Sembra Orwell - Alvaro è un Orwell sperduto nella palude italiana. Non si governa antagonizzando: “Non è questione di controllare o intimorire”. Osteggiando gli onesti col tutto mafia, aggiunge Alvaro, “l’«operazione Aspromonte» rischia di dare risultati opposti a quelli che si propone”. Produrrà oltre mezzo secolo di Aspromonte “nero”, la leggenda nera della Montagna. Popolandola di rapiti per soldi, di cui prima non c’è memoria.

leuzzi@antiit.eu 

Nessun commento:

Posta un commento