“L’ironia
è la madre del romanzo del primo Novecento, Pedullà parte da qui. E del
secondo? Pure: le letteratura ha dei cicli, anch’essa. C’era già stata la
rottura (Auerbach la pone in Baudelaire e “I fiori del male”, 1857) del triplice
ordine classico, grande-medio-basso, tragico-piacevole-ridicolo, sublime-piano–grottesco,
e l’italiano ne ha approfittato. Cosa ne resta è il tema di questa raccolta, una prima sistemazione.
Saggi di
fine millennio. Di un critico acuto, lettore vorace, che ama la scrittura: la
apprezza e la pratica. Che riprende, sintetizza, sempre approfondisce, scrittori
che ha già ampiamente esaminato: una rivisitazione dei “suoi” scrittori, cui il
critico militante dà un congedo affettuoso, alla fine del secolo, e della sua
militanza. Ma: le armi? Il comico è piuttosto in disarmo. Ora in Italia, ma
anche come genere. È stato amato e praticato in Italia per tutto il Novecento –
la lista di Pedullà si può moltiplicare. Senza concorrenza altrove, in Francia
(surrealisti? Jarry? Vian? Perec?), in Germania (Kafka? Brecht?), in Gran
Bretagna, in Spagna, se non forse in Russia, malgrado le durezze politiche –
neanche negli Usa dopo Mark Twain. Ora è remoto, remotissimo.
“Era
vera o falsa”, si chiede Pedullà d’acchito, “la profezia con cui Baudelaire
assegnava al riso il Novecento?” Era vera solo in Italia. Ma in armi? Il comico
è di “veloce deperibilità”. La verità è presto detta, alla p. 5: “La comicità è
qui una delle tante strategie di spiazzamento con cui il Novecento sfugge alla
routine delle idee logorate e dei linguaggi che si ripetono per non mettere in
crisi ben più chele parole”. È il senso di un dissenso, di un disagio.
Sfruttando il gaddiano “potere conoscitivo della deformazione”: “Senza sapere
di essere gaddiano, il Novecento ha osservato la legge fondamentale del suo sistema:
quel «deformarsi
integrativo» per cui si comincia col dissacrare un disegno culturale e
artistico egemonico ma si finisce sempre per integrare la trasgressione dentro
un ordine ulteriore”. Non potendo rivoltarsi in realtà, il Novecento italiano
ha deciso di “delinquere”. E “dal disordine discende un ordine nuovo; i
linguaggi bassi si innalzano fino al sublime e il comico diventa un fratello
inseparabile della tragedia” – “il comico che è anche tragico” è formula di Bontempelli,
che la consigliò a Giacomo Debenedetti. Ecco le armi.
Un bilancio
col passo della storia. O, trattandosi di un protagonista della stessa, “interrogandosi
sul Novecento, si è redatto un essenziale consuntivo di questo secolo
frettoloso (le rivoluzioni), fuori centro (le digressioni, le deviazioni, le
trasgressioni), e assurdo (si ignora perché si fa così) che ha mutato strutture
e significati del vivere”. Una letteratura che si decentra (svuota), in un
paese, se non in una lingua, che si nega. In un’Europa che anch’essa si
sbraccia in un incessante Titanic.
Una sorta
di testimonianza a futura memoria, secolare e personale. L’esito è un Novecento
italiano che - non ci si pensa - non è affatto da buttare. Anzi. Prosa, poesia
e teatro insieme. Comparativamente, e diacronicamente – il Trecento è
insuper-ato-abile, certo, ma si sa: le fondazioni sono eroiche.
Sulla scia
di Debenedetti, eponimo del critico militante. Che non è un giornalista. Oppure
sì, ma in un’accezione non improvvisata della militanza: “Debenedetti fu
militante nel senso che partecipò in prima linea alle battaglie letterarie del
secolo”, forte della scoperta che “l’attualità, se genera un’epifania – il
trascurabile che diventa assoluto – sfida i secoli”. Militante ma “alla ricerca
di ciò che è tanto dentro la storia da accedere alla Verità”.
Una rivisitazione,
dunque, di autori di altre monografie, Gadda, Savinio, Svevo, Palazzeschi,
Bontempelli. Una ripresa (non ancora
definitiva, dopo altri anche più lunghi interventi) di Debenedetti, di cui Pedullà
fu studente a Messina, e poi assistente. E un ritorno alle origini meridionali,
con Alvaro a lungo trascurato, il sempre amato D’Arrrigo, e l’incontornabile
Lampedusa. Un artista di suo, di necessità, con un saggio centrale divertito e
divertente sulla titolistica di Gadda, Savinio e Landolfi. Un approccio
originale e persuasivo, da grande conoscitore. Ricco di umori, come è il
personaggio - il critico è anche autore
e personaggio in commedia.
C’è
naturalmente da definire il comico, esercizio che Pedullà ci evita. Ma fin
dalle prime pagine si avverte il paradosso.
Comica, per esempio, fu la fortuna di Svevo, cieca dapprima, poi indifferente
(mediocre) per quasi un secolo, anche dopo il successo internazionale di critica,
che esplode infine unanime e senza riserve, senza che niente sia cambiato.
Capricciosa si direbbe – un po’ come il bollino Siae che W.Pedullà registra
come W.Padullé, a volte basta invertire le vocali.
Di linguaggio
ilare, scoppiettante, che procede per lampi e folgorazioni, immagini, epifanie,
ritrattazioni. Assiomatico: “Il Novecento è stato estremista”. Comico: “Dunque è
stato infantile”. Realistico: “Nessun’epoca ha sfamato il mondo quanto il socialismo
del nostro secolo”. Storico: “Il comico e l’avanguardia saranno (stati) la coppia
più feconda del Novecento”. Inquietante: “Interrogata, la Cabala invitò a
servirsi della scrittura, se si vuole mantenere il segreto”.
Barocco,
per il gusto interminato della parola. Epigrammatico - di Landolfi, per
esempio, preso per il suo verso: “Fingiamo che sia vero, e cioè che per
Landolfi il gioco sia tutto, o quasi”. Autoriale: non si pone nel mezzo del panorama
critico, non fa l’ermeneutica di un testo o un autore, la critica della
critica, l’“aggiustamento” in uso nell’artiglieria per approssimare l’obiettivo,
ma va all’autore e all’opera come in un corpo a corpo, e anzi una sfida tra
autore e lettore. L’unico critico nell’indice dei nomi è Debenedetti, ma non
per questa o quella critica, no, in quanto egli stesso autore.
Debenedetti
col complemento di Heisenberg, delle “verità complementari al presente”, e
delle “scoperte” superate ma non false. Debenedetti è, tra l’altro, quello che
non apprezza, forse non vede, il comico, ed è comico che non “vedesse” né Svevo
né Gadda, le due pietre miliari del Novecento. Senza illusioni, giusto una constatazione, che
non c’è redenzione, non definitiva ascesa al cielo. La pagina centrale è
filosofica. “C’è il riso che porta al Nulla, e c’è il riso che conduce a una
nuova realtà”. Ma “nulla di reale si crea e nulla si distrugge nell’epoca in
cui il linguaggio è tutto”. E anche la comicità finisce autoreferenziale: “Sia il
comico che il tragico sono forme del Nulla”. Se – poiché - il Novecento del
Nulla si compiace.
Pagine
molto piane e molto dense. Non da storico della letteratura ma da creatore di
storie. Di chi crede ancora nella letteratura, in questo prolungato day after, della caduta delle illusioni,
della cancellazione del reale. Debedenetti ritorna come eponimo del dubbio – motore
del critico essendo l’incertezza - alla fine dell’opera: essere o non Tristano.
“Il quale non desidererebbe tanto avere Isotta
quanto piuttosto essere Isotta”. O meglio
l’uno e l’altro – “il critico Tristano sarà
Isotta, la poesia?”
Walter
Pedullà, Le armi del comico,
Mondadori, remainders, pp. 314 € 10
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