lunedì 11 gennaio 2016

Il Novecento ilare e la tristezza del critico

“L’ironia è la madre del romanzo del primo Novecento, Pedullà parte da qui. E del secondo? Pure: le letteratura ha dei cicli, anch’essa. C’era già stata la rottura (Auerbach la pone in Baudelaire e “I fiori del male”, 1857) del triplice ordine classico, grande-medio-basso, tragico-piacevole-ridicolo, sublime-piano–grottesco, e l’italiano ne ha approfittato. Cosa ne resta è il tema di questa raccolta, una prima sistemazione.
Saggi di fine millennio. Di un critico acuto, lettore vorace, che ama la scrittura: la apprezza e la pratica. Che riprende, sintetizza, sempre approfondisce, scrittori che ha già ampiamente esaminato: una rivisitazione dei “suoi” scrittori, cui il critico militante dà un congedo affettuoso, alla fine del secolo, e della sua militanza. Ma: le armi? Il comico è piuttosto in disarmo. Ora in Italia, ma anche come genere. È stato amato e praticato in Italia per tutto il Novecento – la lista di Pedullà si può moltiplicare. Senza concorrenza altrove, in Francia (surrealisti? Jarry? Vian? Perec?), in Germania (Kafka? Brecht?), in Gran Bretagna, in Spagna, se non forse in Russia, malgrado le durezze politiche – neanche negli Usa dopo Mark Twain. Ora è remoto, remotissimo.
“Era vera o falsa”, si chiede Pedullà d’acchito, “la profezia con cui Baudelaire assegnava al riso il Novecento?” Era vera solo in Italia. Ma in armi? Il comico è di “veloce deperibilità”. La verità è presto detta, alla p. 5: “La comicità è qui una delle tante strategie di spiazzamento con cui il Novecento sfugge alla routine delle idee logorate e dei linguaggi che si ripetono per non mettere in crisi ben più chele parole”. È il senso di un dissenso, di un disagio. Sfruttando il gaddiano “potere conoscitivo della deformazione”: “Senza sapere di essere gaddiano, il Novecento ha osservato la legge fondamentale del suo sistema: quel «deformarsi integrativo» per cui si comincia col dissacrare un disegno culturale e artistico egemonico ma si finisce sempre per integrare la trasgressione dentro un ordine ulteriore”. Non potendo rivoltarsi in realtà, il Novecento italiano ha deciso di “delinquere”. E “dal disordine discende un ordine nuovo; i linguaggi bassi si innalzano fino al sublime e il comico diventa un fratello inseparabile della tragedia” – “il comico che è anche tragico” è formula di Bontempelli, che la consigliò a Giacomo Debenedetti. Ecco le armi.
Un bilancio col passo della storia. O, trattandosi di un protagonista della stessa, “interrogandosi sul Novecento, si è redatto un essenziale consuntivo di questo secolo frettoloso (le rivoluzioni), fuori centro (le digressioni, le deviazioni, le trasgressioni), e assurdo (si ignora perché si fa così) che ha mutato strutture e significati del vivere”. Una letteratura che si decentra (svuota), in un paese, se non in una lingua, che si nega. In un’Europa che anch’essa si sbraccia in un incessante Titanic.
Una sorta di testimonianza a futura memoria, secolare e personale. L’esito è un Novecento italiano che - non ci si pensa - non è affatto da buttare. Anzi. Prosa, poesia e teatro insieme. Comparativamente, e diacronicamente – il Trecento è insuper-ato-abile, certo, ma si sa: le fondazioni sono eroiche.
Sulla scia di Debenedetti, eponimo del critico militante. Che non è un giornalista. Oppure sì, ma in un’accezione non improvvisata della militanza: “Debenedetti fu militante nel senso che partecipò in prima linea alle battaglie letterarie del secolo”, forte della scoperta che “l’attualità, se genera un’epifania – il trascurabile che diventa assoluto – sfida i secoli”. Militante ma “alla ricerca di ciò che è tanto dentro la storia da accedere alla Verità”.
Una rivisitazione, dunque, di autori di altre monografie, Gadda, Savinio, Svevo, Palazzeschi, Bontempelli.  Una ripresa (non ancora definitiva, dopo altri anche più lunghi interventi) di Debenedetti, di cui Pedullà fu studente a Messina, e poi assistente. E un ritorno alle origini meridionali, con Alvaro a lungo trascurato, il sempre amato D’Arrrigo, e l’incontornabile Lampedusa. Un artista di suo, di necessità, con un saggio centrale divertito e divertente sulla titolistica di Gadda, Savinio e Landolfi. Un approccio originale e persuasivo, da grande conoscitore. Ricco di umori, come è il personaggio  - il critico è anche autore e personaggio in commedia.
C’è naturalmente da definire il comico, esercizio che Pedullà ci evita. Ma fin dalle prime pagine si avverte il paradosso.  Comica, per esempio, fu la fortuna di Svevo, cieca dapprima, poi indifferente (mediocre) per quasi un secolo, anche dopo il successo internazionale di critica, che esplode infine unanime e senza riserve, senza che niente sia cambiato. Capricciosa si direbbe – un po’ come il bollino Siae che W.Pedullà registra come W.Padullé, a volte basta invertire le vocali.
Di linguaggio ilare, scoppiettante, che procede per lampi e folgorazioni, immagini, epifanie, ritrattazioni. Assiomatico: “Il Novecento è stato estremista”. Comico: “Dunque è stato infantile”. Realistico: “Nessun’epoca ha sfamato il mondo quanto il socialismo del nostro secolo”. Storico: “Il comico e l’avanguardia saranno (stati) la coppia più feconda del Novecento”. Inquietante: “Interrogata, la Cabala invitò a servirsi della scrittura, se si vuole mantenere il segreto”.
Barocco, per il gusto interminato della parola. Epigrammatico - di Landolfi, per esempio, preso per il suo verso: “Fingiamo che sia vero, e cioè che per Landolfi il gioco sia tutto, o quasi”. Autoriale: non si pone nel mezzo del panorama critico, non fa l’ermeneutica di un testo o un autore, la critica della critica, l’“aggiustamento” in uso nell’artiglieria per approssimare l’obiettivo, ma va all’autore e all’opera come in un corpo a corpo, e anzi una sfida tra autore e lettore. L’unico critico nell’indice dei nomi è Debenedetti, ma non per questa o quella critica, no, in quanto egli stesso autore.
Debenedetti col complemento di Heisenberg, delle “verità complementari al presente”, e delle “scoperte” superate ma non false. Debenedetti è, tra l’altro, quello che non apprezza, forse non vede, il comico, ed è comico che non “vedesse” né Svevo né Gadda, le due pietre miliari del Novecento.  Senza illusioni, giusto una constatazione, che non c’è redenzione, non definitiva ascesa al cielo. La pagina centrale è filosofica. “C’è il riso che porta al Nulla, e c’è il riso che conduce a una nuova realtà”. Ma “nulla di reale si crea e nulla si distrugge nell’epoca in cui il linguaggio è tutto”. E anche la comicità finisce autoreferenziale: “Sia il comico che il tragico sono forme del Nulla”. Se – poiché - il Novecento del Nulla si compiace.
Pagine molto piane e molto dense. Non da storico della letteratura ma da creatore di storie. Di chi crede ancora nella letteratura, in questo prolungato day after, della caduta delle illusioni, della cancellazione del reale. Debedenetti ritorna come eponimo del dubbio – motore del critico essendo l’incertezza - alla fine dell’opera: essere o non Tristano. “Il quale non desidererebbe tanto avere Isotta quanto piuttosto essere Isotta”. O meglio l’uno e l’altro – “il critico Tristano sarà Isotta, la poesia?”
Walter Pedullà, Le armi del comico, Mondadori, remainders, pp. 314 € 10

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