Si può anche sorriderne, Dolce e Gabbana ci hanno costruito su una
collezione di alta moda che vende caro nei paesi islamici. Dove gli stilisti
sono stati peraltro preceduti localmente, dal gusto delle donne per l’eleganza,
in Marocco già negli anni 1960, o in Iran: il velo come segno di civetteria,
cioè un una libera, ancorché frivola, scelta. E poi un bel velo vale un buon
parrucchiere, una volta che l’estetica del capo si allontana dall’acqua e
sapone. Ma farne un segno di libertà?
Si celebra fra un mese, pare, il giorno del velo. Pare già da alcuni anni.
In segno di solidarietà contro l’islamofobia. Mentre il velo non c’entra con l’islam
– col Libro, col Profeta. È solo un
segno di clericalismo. Islamico ma clericale: imposto dagli ulema come
tutto il diritto positivo islamico, o sharia,
compresi la poligamia, il ripudio, le mutilazioni e altre pratiche che i
diritti umani invece condannano – il diritto positivo universale.
È in questo senso che il velo fu un caso in Francia trent’anni fa,
quando si trattò di ammetterlo per le ragazze a scuola. Non perché fosse un segno
religioso, ma perché era – è – una discriminazione e il segno di una discriminazione.
La confusione delle lingue nel femminismo non è una novità. Ma qui i
paletti sono chiari.
Nessun commento:
Posta un commento