Col nuovo re Salman, che tra tutti i principi reali era il più “aperto”
politicamente, sui diritti civili e anche politici, l’Arabia Saudita ha preso
il viso dell’arme. In senso proprio, militarmente, dapprima nello Yemen, contro
le ingerenze presunte dell’Iran, e ora contro l’Iran direttamente. Succede in
Arabia Saudita un po’ come negli Usa, che i presidenti democratici spesso sono
bellicosi, più dei repubblicani.
Finora il governo saudita, pur essendo
protagonista assoluto sulla scena araba e islamica, ha evitato per programma di
esporsi. “La politica estera saudita ha elevato l’azione indiretta a
specifica forma d’arte”, scriveva Kissinger nel 1982, “Years of upheaval”, e il
metodo è rimasto valido fino a Salman.
Il nuovo re ha sconvolto la pacifica navigazione del reame anche in
altri modi. Ha impresso al vertice un’impronta personale, finora sconosciuta. I
figli di Ibn Saud che si sono succeduti in questi sessant’anni hanno governato collegialmente.
Salman, ultimo fratello del clan Sudeiri, l’ottava moglie di Ibn Saud, il clan
più importante, si è messo accanto invece il proprio figlio Mohammed, come
ministro della Difesa – il portafoglio di spesa più rilevante del reame. Pur
lasciando il titolo di principe ereditario al fratellastro Muqrin, uno degli ultimi ancora in vita, del clan degli Yamaniyya.
E ha impresso un forte stimolo attivo alla politica estera, finora dormiente.
L’Arabia Saudita è stata la grande
ispiratrice e finanziatrice del movimento sunnita wahabita-salafita, comprese
all’origine le formazioni terroristiche di Al Qaeda e dell’Is. Secondo stime
saudite, ha finanziato con 75 miliardi di dollari negli ultimi quarant’anni, dopo
il primo boom del petrolio a fine 1973, il proselitismo wahabita, in Medio
Oriente, Nord Africa e Africa sub sahariana – in Mali, Nigeria, Senegal, Suda,
Somalia, Kenya, e altrove. Ma mantenendo nello stesso tempo una politica
estera cauta, dimessa, come inesistente.
Il principe Saud el Feisal, morto sei mesi fa, all’accesso al trono di
Salman, figlio del re illuminato Feisal, assassinato nel 1975 da un nipote, che
per molti anni aveva gestito la politica estera del regno, poteva confidare a
John Kerry un anno e mezzo fa: “Daesh è la nostra risposta al vostro sostegno
al Da’wa”, l’Is è la risposta sunnita-saudita al sostegno americano al partito
sciita in Iraq. Senza suscitare scandalo, come se fosse una partita politica.
Ora forse la situazione è cambiata. Sicuramente i termini sono cambiati.
Salman vuole trattare i nemici come nemici. Mantiene l’affondo sul petrolio
anche se deve tagliare i suoi bilanci – l’Iran deve tagliarli di più. Non
concede grazie né altri sconti ai terroristi all’interno del paese, nessun
invito alla pacificazione. Fa per la prima volta una guerra guerreggiata nello
Yemen. E non vuole perdere la partita in Siria: per quarant’anni l’Arabia
Saudita ha combattuto il regime siriano, in Siria e in Libano. Quando la guerra
persa da Damasco è sembrata rovesciarsi, dopo l’intervento della Russia, ha
annunciato una forza di pronto intervento alternativa, arabo-islamica. Che
nessuno ha preso sul serio, e probabilmente è inattuabile. Ma è anche certo
che, se non verrà coinvolto nel futuro assetto della Siria e del libano, Salman
potrà fare altri danni.
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