Una foto
della brochure di Oz che accompagna
il film mostra Gaza prima della guerra dei Sei Giorni: un giardino con bei
palazzi. Una Israele e una Palestina come avrebbero potuto essere? Di cui il
film documenta la cancellazione in quella guerra. “A Gerusalemme, dove sono
cresciuto, mi sento straniero in una città straniera”: è la confessione più
drammatica che il film riporta, di un Amos Oz trentenne subito dopo l’occupazione
– uno stato d’animo personale e non politico, non orientato in base a
un’appartenenza, in una dialettica.
La
“liberazione” della Città Vecchia? No, è un’“occupazione”, si dicono gli amici
e conoscenti di Amos Oz poco dopo la guerra. A Gerusalemme c’era la Città
Vecchia, si sapeva che c’era, ma senza nessuna urgenza di sapere cos’era, o di
appropriarsene. Il monte del Tempio, il Muro Occidentale? Nessun ebraismo ne
aveva decretato la sacralità, l’ebraismo non ha luoghi sacri. Questo era
Israele prima della grande mutazione successiva ai Sei Giorni: quando il
raddoppio del territorio, con Gerusalemme e la Cisgiordania, attirò la diaspora
africana e mediorientale, mutandone la natura, mutando la natura del sionismo,
che era nazionale e anche socialista.
La “liberazione”
è stata peraltro seguita subito dall’evacuazione dei civili, cioè degli arabi.
Non per proteggerli dalla guerra, che era finita, ma per privarli delle loro
case, della città, della vita. Un piano già particolareggiato, è chiaro, dello
Stato maggiore, che rimanda al peggiore Novecento: all’occupazione nazista
dell’Europa orientale, e poi a quella sovietica delle stesse zone, già
sperimentata da Graziani in Africa, e ripetuta dal generale torturatore Massu
dieci anni prima in Algeria.
Amos Oz,
richiamato trentenne alla Guerra dei Sei giorni col grado di tenente, ne tornò
turbato: “Il 5 giugno combattevamo per le nostre vite, il 10 mi sono ritrovato
a occupare la Cisgiordania, Gerusalemme, e il Sinai”. Il blitzkrieg di Dayan, che il film ricorda solo in un’immagine, pochi
secondi, un’istantanea, fu uno strepitoso successo militare. Ma proprio per
questo turbò i vecchi israeliani, portati a vedersi in difesa e non come
conquistatori. Questi israeliani del film, quelli dei kibbutz, un patrimonio sociale
e culturale ormai disperso e ininfluente.
Subito
dopo la guerra il Movimento socialista dei Kibbutz commissionò a Oz e al coetaneo
Avraham Shapira, storico, allievo di Martin Buber e Gershom Scholem, una
celebrazione dei caduti. Oz ebbe l’idea di raccogliere le testimonianze di commilitoni
e conoscenti, e con Shapira la mise in pratica, realizzando duecento ore di registrazione,
con circa quattrocento testimonianze. Raccolte tutte nei kibbutz, e perciò
riflessive, anche perplesse, quando non critiche. La censura militare ne bloccò
la pubblicazione, limitando la parte utilizzabile a circa un terzo: le
testimonianze di vita, senza i dubbi e le critiche, se non per la parte
concernente Gerusalemme (l’opportunità dell’occupazione della città Vecchia, e
se non era opportuno restituirla agli arabi).
Col
materiale disponibile Shapira compilò “Il Settimo Giorno”, un libro di 268
pagine, pronto a ottobre, tre mesi dalla fine della guerra. Che diventò un caso
editoriale: 150 mila copie vendute in Israele (tre milioni di abitanti all’epoca),
con traduzione in inglese, francese, spagnolo, tedesco, svedese, arabo,
yiddisch. Poi fu dimenticato, così come ogni altra voce discorde sulla guerra. Il
materiale raccolto da Oz e Shapira restò depositato al Movimento dei Kibbutz.
Caduta
la censura, la regista Mor Loushi, 33 anni, all’attivo “Israel Ltd.”, un film
sui giovani immigrati finanziati dalla Jewish Agency, ha convinto Shapira a
riutilizzare le registrazioni e ci ha montato sopra un docufilm: filmati d’epoca,
alcuni inediti, accompagnano le testimonianze sonore.
Un atto
di giustizia, non di compassione. Tutto interno a Israele stessa. Rivolto a
Israele e alle tre generazioni che si sono succedute dalla guerra lampo e
possono non sapere. Che Oz sapeva già, subito dopo la guerra, che avrebbe
urtato la “verità nazionale”. E tuttavia è stato proiettato nei cinema commerciali
l’estate scorsa: non ha riaperto la questione, ma non è caduto nel nulla.
“Nessuno è tornato felice dalla guerra”, dice
qualcuno, ed è la traccia della ricostruzione. Lo spirito di avventura è finito
presto, forse la notte stessa prima dell’attacco. Qualcuno ha visto abusi intollerabili,
nel Sinai, nel Golan: soldati disarmati e civili abbattuti senza necessità, a
tiro ravvicinato, anche a tiro singolo, con la pistola alla testa. Qualcuno ha
subito al primo attacco un trauma non componibile: “Nel mio reparto in pochi
minuti erano morti 45 soldati. Non sapevi chi, come…”. Nessuno ha riportato la sensazione
netta di un dovere compiuto, senza turbamenti. Non fosse altro, per lo
spaesamento comune al soldato al fronte, faccia al nemico che non conosce.
“Avevo
l’impressione che non fossero nemmeno umani” – è il ricordo di chi ha marciato
sul Sinai, conquistato in ventiquattro ore, praticamente senza resistenza degli
egiziani, che più che altro erano sorpresi, e sopratutto volevano arrendersi.
Il filmato
si arricchisce di un “com’eravamo” commovente e esilarante di Oz. Che come sempre
celebra nostalgico la sua Gerusalemme, dove è nato nel 1939. Da genitori variamente
emigrati, dalla Russia alla Polonia e in Israele. Sempre e comunque indefettibilmente
europei. Come tutti i parenti e conoscenti. Anzi, gli unici “europei d’Europa”,
mentre gli altri si dividono per etnie. – detto per celia, ma non senza
fondamento: tre tribù in Cecoslovacchia, nove in Jugoslavia, tre in Gran
Bretagna… Con un padre “in grado di leggere sedici o diciassette lingue”,
undici delle quali parlava correntemente, “sebbene con un forte accento russo”,
e la madre sei o sette. Oz è deluso, e il ricordo scherzoso conclude amaro: “A
dove apparteniamo, dunque? Forse non apparteniamo affatto”.
Criticato
e anche osteggiato, Oz non rinuncia a chiedere la pace, “un compromesso”. Prova
anche a svelenire l’impasse odierno. Sintomatico vuole l’aneddoto, che racconta
lungamente, della notte prima dell’attacco. Una lite continua al campo, tra
generali, ufficiali, graduati e soldati semplici del reparto, su ogni insipido
argomento: in Israele piace litigare. Ma della sua operosa vita, più lunga di
quella di Israele, deriva solo incomprensioni e delusioni. Tra queste quella di
aver perduto la sua città. La sua Gerusalemme non riconoscendo più in quella
post-1967, abbattuta e accresciuta. Un tempo e una città in cui le tribù e le
fedi convivevano, sebbene fossero del tipo esclusivo, che ognuno pensava di
averne l’unica: “In ogni quartiere si pregava in modo diverso, si parlava una
lingua diversa, e ci si abbigliava diversamente”. Però “comunicavano”: una
città a più anime, non in guerra.
Amos Oz-Mor Loushi, Censored
voices, film-dvd, Feltrinelli € 13,90
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