Era
vent’anni fa, quasi, che Chahine denunciava l’integralismo mussulmano, in una
storia straordinaria nella sua semplicità: Averroè perseguitato nella pur tollerante
Cordova, sul finire della sua vita e del secolo dodicesimo, nel nome della vera”
religione, vittima dello scontro tra un califfo debole, El Mansur, e uno sceicco
fanatico integralista, Riad, che vuole una lettura rigorista e settaria del “Corano”. Una storia straordinaria nella
sua semplicità, animata di canti e balli, quasi un musical, con molte innesti nel cinema
euro-amercano del Bollywood indiano.
Un atto
d’accusa anche contro “i monopolisti di Dio”. Chahine ha preso le sue precauzioni:
il film si apre con un rogo in Linguadoca, di libri e dell’autore dei libri, considerato
eretico. Ma, seppure con una trama dai molteplici contrappunti, e senza mai gridare,
proclama che la religione non può uccidere il pensiero. “Il sapere è la patria,
l’ignoranza è un paese straniero”. Temendo il rivale Riad, il califfo ordina di
bruciare i libri di Averroè. Poi ci ripensa, ma i suoi inviati trovano Averroè
in atto di gettare sul rogo il suo ultimo libro. Che li accoglie con un: “Il
pensiero ha le ali, nessuno può arrestarne il volo”.
Un film
di poesia più che di polemica. Il più bello della stagione 1997. Che però Cannes
non premiò - Chirac non lo consentì, la
presidenza della Repubblica. Il festival premiò Chahine da solo, istituendo un
premio straordinario per i suoi 50 anni, suoi del festival.
Yussef
Chahine, Il destino
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